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Autore: ElliMM    01/06/2012    3 recensioni
Vi è mai capitato di non riuscire a scrollarvi di dosso il ricordo? Un ricordo tanto bello e dimenticabile che lasciarlo volar via come un palloncino vi frantumerebbe il cuore? Ecco. è così che la protagonista vive: temendo il giorno in cui lei dovrà aprire le sue esili dita e lasciare che il nastro verde smeraldo che la teneva legata al SUO ricordo scivolasse via leggero fino a scomparire tra le nubi del cielo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminavo al buio. Ma non ne ero sicura. Forse ero io ferma ed era il mondo che proseguiva sotto i miei piedi. Le gambe andavano e nemmeno sapevo dove, guidate dall’eterna voglia di fuggire con il mio inseparabile eastpack grigio sulle spalle. Ma da cosa? Non lo sapevo. Volevo andarmene dal buio di quella casa che ora mai era solo capace di essere troppo stretta. Quelle pareti intrise di profumo di lavanda e quei tappeti consumati dall’età erano solo un piccolo modo della vita di ricordarmi chi ero. Un modo orribile per chi avrebbe voluto cambiare tutto. Fin dall’inizio sapevo che non andavo bene, ero sbagliata. Ma allo stesso tempo speravo che il tempo avrebbe aggiustato le situazioni e che in fondo anche io sarei riuscita ad accettare le cose così come stavano. Invece il tempo non ha fatto altro che opprimere la mia follia. Volevo essere libera ma in quella casa c’era quell’odore acre di regole, di un passato difficile da dimenticare trascorso giocando con una bambola di ceramica pregiata sotto all’acero del mio giardino. Quell’acero che non faceva mai neanche un fiore. Era il modo in cui mi ricordava il tempo del liceo: trascorso seduta su un’altalena nel parco della scuola ad ascoltare le canzoni dei Beatles pensando a quanto fosse bella la libertà. L’odore della solitudine dei miei vestitini a fiori e dei capelli sempre in ordine con quei boccoli lucidi e con la frangetta perfetta color mogano. E adesso mi trovavo sul marciapiede di via Torino, con le scarpe consumate dai ciottoli di quella strada percorsa ormai troppe volte.

Le mie inseparabili Vans, comprate di nascosto su internet per rimpiazzare gli stivali firmati che mi comprava mia madre, mi accompagnavano in ogni mio viaggio insieme ai jeans chiari consumati dal tempo. Tanto stretti come la mia anima rinchiusa dentro di me dalla razionalità. E urlava, urlava e urlava ancora più forte stringendo tra le mani vaporose quelle sbarre maledette. Era proprio quello l’abbigliamento che odiava mia madre; ed ogni volta che mi vedeva vestita così  scuoteva lentamente il capo delusa. Su di me gravava un freddo umido che nemmeno l’enorme felpa a scacchi che indossavo riusciva a fermare. E non c’era solo i  freddo che era fuori. Così, inevitabilmente, i brividi raggiunsero la schiena e mi corsero lungo tutto il corpo fino all’estremità dei capelli rossi scompigliati e legati con un laccio trovato nel cassetto appena prima di uscire. I mie capelli, che di stare apposto proprio non ne volevano sapere. Li ritenevo un emblema di me stessa. Un emblema di chi non si voleva piegare come un fuscello debole, ma lottava come il ferro ghiacciato.

Che senso aveva camminare ancora così tanto? Dove volevo arrivare? Lontano, credo, più lontano possibile. Ma il viaggio valeva la meta? No, non credo.

   
 
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