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Autore: minerva74    04/06/2012    6 recensioni
"He's not you enemy arch?" "Of course not. He is my brother."
...
"Too much story, too much resignment between us. "
Due ragazzi, una solitudine difficile da colmare. Allora, anche l'indifferenza diventa una medicina buona per sopportare il dolore. Anche a costo di non provare più nulla.
Ecco la mia personale chiave di lettura del legame tra i due fratelli Holmes: di un giovane anarchico Sherlock e di Mycroft, un uomo molto solo che trova forza nell'indifferenza
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mycroft Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Taken
Ovvero Gruppo di famiglia in un inferno
 
Londra Maggio 1994
 
I passi si susseguivano veloci sul pavimento di linoleum, inseguendo le luci livide che piovevano dall’alto. Un corridoio su cui si aprivano decine di porte, una sedia in fondo sotto la vetrata da cui trapelava l’oscurità della notte.
La mente del giovane registrò quei particolari mentre la mano stringeva il manico dell’ombrello umido che si trascinava dietro. Nonostante fosse primavera inoltrata, la pioggia non cessava di sporcare Londra e di rendere ancora più cupo il suo umore.
Giunto all’ultima porta, sollevò la mano per girare la maniglia. Ma in quell’istante, l’uscio si aprì e una donna dal viso segnato dalla stanchezza scivolò fuori dalla stanza, facendogli cenno di tacere.
Il giovane uomo respirò a fondo. “Sono venuto appena ho saputo. Come sta?”
La donna aveva occhi azzurri appesantiti da palpebre violacee. Doveva aver pianto, si rese conto. “È sedato. È un miracolo che sia uscito vivo dall’incidente.” La mano della donna corse al filo di perle che aveva al collo e che illuminava il golf di cachemire scuro, torturandolo con un gesto meccanico. Le dita tremavano.
Nel vedere gli occhi della donna riempirsi di lacrime, il giovane le strinse la spalla. “Non qui, mamma” sibilò in tono di rimprovero mentre una linea dura, spezzata come un crepaccio, affiorava tra le sue sopraciglia.
La madre chiuse gli occhi, respingendo indietro il pianto. Sollevò il viso. “Non è stato piacevole ricevere la telefonata dal college, prima e dalla Polizia, dopo. E non è stato facile venire qui, senza sapere in che condizioni versasse. Credo di avere il diritto di versare una lacrima, Mycroft.”
Mycroft Holmes aggrottò la fronte in una smorfia di assenso e la presa sulla spalla della madre si trasformò in una carezza. Tuttavia, dietro gli occhi grigi si stava solidificando una nube di tempesta. Era una sensazione di disagio che si accumulava alla base della gola e che lo costringeva a respirare profondamente.
Pensava di aver imparato a dominare le sensazioni contrastanti che nutriva nei confronti del fratello minore. Evidentemente non era così.
Non del tutto almeno.
“E lui?”
La madre mosse la mano in un gesto di sconforto. “Malconcio… ma è ancora vivo, ed è questo che conta.” Prese la mano del figlio maggiore e la strinse forte. “Non essere duro con lui. È una persona fragile, nonostante il suo carattere così pungente. Ha bisogno di una guida salda e di comprensione.”
“Ha bisogno di fermezza, mamma. Di severità, non di un buffetto sulla mano.” Ed è quello che avrà, aggiunse tra sé. Senza rancore, senza collera. Una constatazione neutra, dettata dagli eventi che avevano cambiato le loro vite
Aveva ventiquattro anni: il loro padre era morto a seguito di una breve, dolorosa malattia e da allora, Mycroft era divenuto il capofamiglia. Ripensando ai giorni successivi alla morte, Mycroft rivedeva se stesso come una persona capace di affrontare tutto e tutti, in grado di metabolizzare il dolore in fretta, quasi non lo toccasse da vicino. Come se non lo toccasse affatto.
Aveva trovato nell’indifferenza un porto sicuro che lo riparava dalle asprezze dell’esistenza.
Suo padre era morto. Punto. Il dolore sordo che sentiva da qualche parte nella coscienza non lo avrebbe riportato in vita. Il suo compito adesso era di proteggere la madre e indirizzare il fratello minore su una strada che non comprendesse atti di vandalismo, fughe notturne e scenate nei confronti dei professori.
Sherlock era sempre stato un esibizionista, pensò con fastidio. Adesso, il dolore lo stava trasformando in una creatura patetica e schizoide. Non proprio un punto d’onore per una famiglia di piccola nobiltà inglese… ma era la piccola nobiltà a costituire la spina dorsale della Gran Bretagna, a fare il “lavoro sporco per il proprio paese”.
E lui, Mycroft faceva questo, come suo padre prima di lui.
“Con il tuo permesso, vorrei parlare con il medico. Ti troverò qui al mio ritorno?” domandò con gentilezza.
La donna si asciugò un angolo dell’occhio in fretta, e il figlio si rese conto che era invecchiata. Era accaduto così, all’improvviso: sembrava fragile; la pelle del viso si era ingrigita e un reticolo di rughe sottili le circondava gli occhi simili a quelli del fratello.
La vide sorridere piegando le labbra sottili. Nello sguardo splendeva ancora quella luce d’acciaio e forza che la caratterizzava. “No, caro. Andrò a casa a riposare. Domani tornerò e insieme decideremo… cosa fare” concluse gettando un lungo sguardo amareggiato alla porta chiusa.
Mycroft annuì. “Me ne occuperò personalmente, mamma. Sta’ tranquilla.”
Osservò la madre allontanarsi lungo il corridoio. Provò un moto di irritazione verso il fratello minore che la madre aveva sempre protetto in ogni modo. Era l’eco di una rabbia sopita da tempo, che non aveva più cittadinanza nella propria mente.
Allungò una mano per aprire la porta ma la richiuse a pugno un istante dopo.
Prima il medico.
Trovò il dottore nell’astanteria, seduto a un tavolo ingombro di fogli. Era un giovane indiano dal viso reso pallido dalle luci al neon. In un’occhiata, Mycroft comprese che stava trascorrendo il secondo anno alla clinica di Saint Mary, che fumava sigarette arrotolate a mano e che aveva mangiato dell’ananas come spuntino.
“Mi chiamo Mycrotf Holmes. Desidero parlare con lei delle condizioni di mio fratello che è stato ricoverato poco fa” esordì, secco.
“Piacere. Sono il dottor Arundhati. Si accomodi, prego” rispose. Il giovane medico allungò la mano con un gesto impacciato, ma l’occhiata di Mycroft gliela fece ritirare precipitosamente. Allora si fece da parte per lasciar passare quell’uomo imponente e freddo dal viso segnato da rughe precoci. Un accenno di stempiatura si intravedeva tra i capelli rossi appena scompigliati.
Mycroft puntò l’ombrello chiuso dinanzi a se e vi appoggiò le mani. “Preferisco rimanere in piedi.” Scoccò un’occhiata alla porta socchiusa e il medico, bofonchiando una scusa, si affrettò ad accostarla; poi iniziò la sua spiegazione strofinando i palmi sudati sul camice verde. “Allora… comprendo che possa essere doloroso ma devo farle alcune domande che temo possano rivelarsi… spiacevoli. Mi rendo conto che su fratello, e la sua famiglia, intendo… che avete avuto un lutto recente e che questo vi ha messo a dura prova.” Il tono del medico si era abbassato fino a che non aveva terminato la frase in un sussurro, mentre l’occhiata di Mycroft diveniva glaciale.
“Le sarei grato se fosse più esplicito.”
Arundhati aprì la bocca per parlare ma la richiuse. Quell’uomo era… inquietante. Inquietante e vagamente minaccioso. Raccolse le idee in un sospiro pesante e ricominciò a spiegare. “L’incidente stradale in cui suo fratello è rimasto coinvolto, per fortuna senza gravi conseguenze… è stato lui a causarlo.” Sollevò lo sguardo in attesa di un segno di cedimento, di una traccia di stupore. Nulla di ciò incrinò la maschera dell’uomo che si trovava dinanzi. “Ha rubato un’auto ma dopo poche miglia ha perso il controllo della vettura e ha urtato un muro. Grazie al cielo, l’airbag ha attutito il colpo. Ha una forte contusione al torace, ferite da schegge sulla fronte e la spalla destra lussata… oltre a un colpo di frusta. È stato molto fortunato in base alla dinamica dell’incidente.”
“Ah.”
Il silenzio invase gli spazi della conversazione, dilagando tra le parole non dette e i dubbi senza risposte. Il giovane medico si appoggiò alla scrivania, torturando il bordo con le dita. Immaginava di essere tartassato di domande, di assistere a scoppi di pianto, di dover placare scoppi di ira.
Mycroft Holmes, invece, continuava a fissarlo perfettamente immobile, quasi volesse trapassargli il cervello con lo sguardo. Era un interrogatorio senza domande, un’inchiesta di cui Arundhati non riusciva ad afferrare i quesiti.
“Ecco..” riprese, a disagio. “Suo fratello non era del tutto in sé quando ha rubato l’auto.”
“Che auto? E di chi?”
“Un’Aston Martin. Credo appartenesse a un docente: gli ha sottratto le chiavi dalla borsa e lo ha chiuso nella sua stanza.”
Un’Aston Martin.
Complimenti fratellino. Questa bravata ci costerà un occhio della testa.
Mycroft inclinò la testa in un cenno di assenso che il medico interpretò come un incoraggiamento. “Dalla cartella clinica, ho letto che suo fratello ha avuto altri problemi…”
“Sherlock è una persona complessa” ammise Mycroft raddrizzando la schiena “ed è un adolescente. Un mix pericoloso.“
Arundhati prese una cartella di cartone beige dalla scrivania. “Presenta tratti di una personalità sociopatica unita a un quoziente intellettivo superiore alla media. Le relazioni sociali possono essere un fardello difficile… ed è … comprensibile che…” Si fermò, incerto, scoccandogli un’occhiata in tralice.
“Dottor Arundhati, il mio tempo ha un peso.”
“Suo fratello è risultato positivo al test sugli stupefacenti. Aveva assunto della cocaina prima dell’incidente” proruppe il medico in imbarazzo, facendo un passo indietro.
Il silenzio stavolta aveva un nome: stupore. Per la prima volta, un’emozione affiorò sul viso di Mycroft: era collera mista a delusione. “Ne è certo?”
Senza parlare, il medico allungò il foglio delle analisi tossicologiche all’uomo che gli stava dinanzi e indicò una casella a piè pagina. “Purtroppo sì.”
 
La stanza era colorata da una luce opalescente che proveniva dal capezzale sul letto, una lunga striscia di alluminio che emergeva dalla parete bianca come una falesia di metallo. Oltre le finestre, la notte accarezzava i tetti di Londra che splendevano a sud.
Il ragazzo sonnecchiava, intontito dai sedativi. Sotto le palpebre socchiuse, gli occhi vibravano nervosi, inseguendo immagini imprigionate nella sua mente.
Sua madre era andata via da un pezzo. Durante la sua visita aveva finto di dormire per non dover sostenere lo sguardo malinconico che gli causava una fitta allo stomaco.
Poi aveva sentito la voce di suo fratello. Aveva serrato le palpebre, ordinando al corpo di rallentare il respiro e di simulare un sonno profondo, temendo di vederlo entrare e fermarsi ai piedi del letto con lo sguardo carico di riprovazione e le labbra strette. Il pensiero del fratello lo aggredì, facendogli storcere la bocca in una smorfia di rabbia. Era così simile a lui, così prevedibile… e insieme così distante. Non vi era traccia di passione in Mycroft, da molto tempo, e nulla trapelava attraverso la barriera dello sguardo.
Ma non era entrato. Sherlock aveva aperto gli occhi per un istante, richiudendoli subito dopo. La nausea dell’incidente mescolati con i postumi della cocaina lo aveva trascinato in uno stagno melmoso di dolore e sensi alterati da cui non riusciva a riemergere.
Voltò la testa sul cuscino combattendo contro il senso di vomito e aprì gli occhi, fissando la finestra per capire a che punto fosse la notte.
Mycroft era lì, seduto su una sedia ai piedi del letto. Doveva esser entrato pochi istanti prima, quando si era perso tra il torpore e la veglia all’inseguimento di pensieri sfilacciati di cui non aveva memoria.
“Mi domandavo quanto ci avresti messo ad accorgerti della mia presenza.”
La risata di Sherlock risuonò nella stanza come una manciata di sassolini gettati su un vetro e terminò in un accesso di tosse. “Stavo dormendo sul serio fratello. Mi hanno somministrato degli antidolorifici.”
Mycroft aggrottò la fronte e concentrò la sua attenzione sul manico dell’ombrello. Aveva dita forti, diverse da quelle eleganti e affusolate del fratello, forgiate da anni di studio del violino e del pianoforte… e, a quanto pareva, molto abili anche in borseggi e furti.
“Da quanto tempo, Sherlock?”
Il ragazzo si costrinse ad aprire gli occhi e restare vigile. Cercò lo sguardo del fratello, ma questi non lo degnò di attenzione.
Inutile mentire, lo sapevano entrambi.
“Un paio di mesi.”
“Al college?”
“Sì.” Rise di nuovo. Voleva provocarlo. Era così simile a suo padre… quel padre che aveva avuto la dannata idea di farsi venire un cancro lasciandolo solo. “Deluso?”
L’attenzione di Mycroft si appuntò sul pavimento. “Non c’è nulla di te che possa stupirmi o deludermi, Sherlock. Non più.”
Il fratello minore distolse lo sguardo, concentrandosi sulla piccola mosca che ronzava sbattendo contro il vetro. Da lì a poco sarebbe morta, sfiancata dalla fatica di trovare una via d’uscita.
“Solo cocaina o altro?”
“Marijuana. Niente robaccia chimica. Eroina, una volta. E cocaina.”
“La usi abitualmente?”
“Sì.” Sherlock ridacchiò, con aria di sfida. In quel momento non era diverso dagli adolescenti che Mycroft notava alle stazioni della metro: ragazzi dall’aria stralunata, con il viso da adulti e lo sguardo invecchiati e cinico. “Non immagini quanta roba giri a scuola.”
Promemoria: chiedere una perquisizione antidroga nei college di Eton.
“No, non riesco a immaginarlo, infatti.” Mycroft alzò gli occhi e incrociò quelli del fratello: erano lucidi, dilatati. “Però so cosa farai.” Si alzò in piedi e gli venne vicino. “Lascerai il college immediatamente. Terminerai l’anno scolastico nella nostra tenuta e seguirai un protocollo di disintossicazione. Non ti sarà concessa alcuna libertà di movimento: mi occuperò personalmente della tua sorveglianza.”
La voce di Mycroft aveva la consistenza gelida di una rasoiata. Sherlock avvertì una sensazione alla base della gola che non aveva nulla a che fare con la nausea. Era puro, semplice rancore. “Tu non puoi ordinarmi nulla. Non sei nostro padre.”
L’uomo afferrò il braccio di Sherlock, là dove la cannula della flebo entrava nella vena, e lo strinse. Forte. Il ragazzo digrignò i denti mentre il fratello si chinava su di lui. Non vi era traccia di rabbia nello sguardo, nulla che indicasse la traccia labile di un affetto, né un lampo di riprovazione. Solo fredda, ferrea efficienza. “Tu sei un tossicodipendente. Nostro padre è morto e adesso sono io il capofamiglia. Mia è la responsabilità tua e di nostra madre.”
Sherlock provò a liberare il braccio: l’unico risultato che ottenne fu una fitta di dolore immenso che dal braccio arrivò fino al cervello. Strinse la falda del lenzuolo con la mano libera fin quasi a strapparla. Era stato accerchiato e catturato.
Da una prigione a un’altra. No.
“Non dirigerai la mia vita. Non sono uno dei tuoi impiegatucci, né uno degli amichetti con cui trascorri le serate” gli sibilò sollevandosi dal cuscino.
Mycroft si raddrizzò in tutta la sua altezza e gli lasciò il braccio. “Sei in errore. Io dirigerò la tua vita e non ti permetterò di ferire nostra madre. Non sei l’unico ad aver sofferto ma sei talmente egocentrico da non riuscire a comprenderlo.”
Sherlock sogghignò. Il viso stravolto dal dolore, scavato dalle ombre del neon si trasformò in una maschera grottesca. “Stai parlando di te, fratello?”
Mycroft alzò un angolo delle labbra in un sorriso compiaciuto. “Ovviamente no.” Si allontanò dalla sponda del letto e riprese in mano l’ombrello dirigendosi verso la porta. “L’anarchia dell’infanzia è finita, Sherlock. Non siamo più a Little Priory a giocare ai pirati. Provare dolore non porta alcun sollievo e toglie lucidità. Impara in fretta questa lezione e sarai capace di vivere meglio” concluse senza voltarsi.
“Come hai fatto tu?” gridò il fratello a mezza voce.
Non ebbe risposta.
Sherlock respirò per qualche istante con le labbra socchiuse. Era furioso, ma nello stesso tempo estremamente calmo. La collera aveva snebbiato la mente, dandogli il quadro esatto di ciò che sarebbe avvenuto nelle settimane successive. Ansia. Noia. Furia. Crisi di panico legate all’astinenza dalla cocaina. Probabilmente avrebbe perso dei chili, oltre che l’anno scolastico.
Tutte cose che poteva affrontare. Si sarebbe liberato del dolore, avrebbe preso le distanze da ciò che lo circondava, avrebbe imparato a fidarsi solo di ciò che poteva toccare.
Non avrebbe permesso, mai più, alle emozioni di prendere il sopravvento: i sentimenti lo avrebbero reso manipolabile, gli avrebbero tolto lucidità, lo avrebbero reso debole. Come stava accadendo adesso.
Quella sarebbe stata l’ultima volta.

   
 
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