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Autore: Aakane    03/07/2003    6 recensioni
La foresta era stranamente calma, leggermente disturbata dal leggero soffio di una brezza che agitava dolcemente le foglie degli alberi. Il sole sfolgorante di quella fine di mattinata attraversava i loro rami intrecciati per colpire il suolo con migliaia di frecce d'oro. Esse sembravano piovere su quella parte della foresta, scivolando su ogni tronco e su ogni pietra in un gioco di luci e ombre, come nate dalla magia.
Introduzione modificata dall'assistente admin di EFP, solarial

Il titolo dice tutto... deprimente.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il prezzo dell'immortalità

Autore: Aakanee
Tradotto dal francese da Destiny per il sito Erika's Fanfiction Page

NdAakanee: quelli che conoscono un po' la cronologia di Tolkien sapranno che quello che racconto è totalmente AU, ma è comunque così che mi immaginavo le cose.
Inoltre, la maggior parte dei nomi che ho usato sono originali, spiacente, ma trovo che suonino meglio così e infine sono dispiaciutissima di aver scritto una cosa del genere, è depressiva e negativa, gomen!

 

La foresta era stranamente calma, leggermente disturbata dal leggero soffio di una brezza che agitava dolcemente le foglie degli alberi. Il sole sfolgorante di quella fine di mattinata attraversava i loro rami intrecciati per colpire il suolo con migliaia di frecce d'oro. Esse sembravano piovere su quella parte della foresta, scivolando su ogni tronco e su ogni pietra in un gioco di luci e ombre, come nate dalla magia. Si poteva quasi credere che fosse possibile toccarle e gustare il loro sapore delicatamente zuccherato. Raramente le distese boscose di Rivendell erano parse così piacevoli, come isolate dal mondo, meditando in una strana tristezza che tuttavia non toglieva niente alla bellezza dell'istante. Al contrario, essa sembrava addirittura irritarla.

Aveva camminato praticamente per un'ora per arrivare in quel luogo dove era tuttavia già venuto il giorno stesso. Ma voleva essere solo, adesso. Solo con i suoi sentimenti come aveva già fatto a lungo prima di allora, lontano dalle persone che avevano accompagnato la cerimonia. Lontano dai loro sguardi e dalla loro compassione. C'erano state meno persone degli anni precedenti, ma questo rendeva la situazione ancora più difficile.

Sapeva che sarebbe arrivato il giorno in cui non ci sarebbe più stato nessuno.

Il suo dolore si rifletteva in ogni pianta, ogni roccia, ogni particella di quella terra che appiattiva con i piedi, al punto da riuscire quasi a sentire il pianto del mondo. Un dolore che colpiva violentemente le sue orecchie, annegando i suoi pensieri, e che si faceva più forte ora che era arrivato.

Il canto di un uccello si alzò all'improvviso nell'aria per spegnersi quasi subito, spezzando con la sua voce chiara e melodiosa la pace che regnava sul luogo. Una litania stranamente triste, quasi un lamento che lo fece fremere senza volerlo, facendolo uscire da un sogno che lo tormentava da troppo tempo.

Ammirò per un istante la bellezza di quello spettacolo, incapace però di apprezzarne tutto lo splendore, e avanzò lentamente fino ai piedi di un albero millenario e robusto il cui fogliame rigoglioso continuava a coprire la distesa d'erba che correva ai suoi piedi.

Si fermò a qualche passo appena dal suo tronco rugoso, il viso impassibile, e osservò le pietre che si ergevano lì attorno, tutte semplici e profondamente incise in quella lingua che era la sua.

Erano otto ormai. Otto simboli di una parte della sua anima ormai perduta, rotonde e lisce, curate, a qualche centimetro dal bordo di un cerchio ingiallito di mithril in cui si leggevano delle iscrizioni fatte con lo stesso metallo. Esse dimoravano lì eterne, sapendo come ingannare le astuzie del tempo.

Così l'aveva voluto, così era.

Non c'era niente di fittizio in quel luogo, niente di quei decori d'oro e d'argento, di marmo e di seta che i popoli avevano tanto a cuore, ma che erano privi di qualsiasi emozione, di una qualsiasi reale profondità. Non c'era altro che la natura, semplice e tranquilla, guardiana ormai di un altro tempo, della memoria di un altro mondo, di una guerra.

L'ultima pietra era stata posta quella mattina stessa, ma non fu verso di essa che si voltò all'inizio, incapace ancora per il momento di affrontarla.

Avanzò verso la più antica, quella che il tempo aveva già cominciato a macchiare, annerendo leggermente la roccia, ma incapace tuttavia di offuscare lo splendore del metallo che vi era fuso. L'erba cresceva già alta ai suoi piedi, nascondendo quasi le parole che correvano sulla superficie. Appena qualche riga, una semplice dichiarazione, per una terra che non era mai stata turbata, priva di qualsiasi forma fisica a parte un semplice foglio di carta su cui scorrevano i versi di una canzone. La sua storia. Quella di un'anima andata quasi perduta ma che era riuscita a ritrovare il suo cammino. Ma a quale prezzo?

"Boromir…"

Il corpo del guerriero riposava ben lontano da lì, inghiottito dai flutti di un paese per il quale avrebbe sacrificato tutto.

Il suo paese.

La sua forza.

Una forza persa in un mondo che l'aveva ormai quasi dimenticato nonostante tutti i loro sforzi. Non aveva saputo andare fino in fondo, non aveva saputo vincere il potere dell'Unico Anello e, nonostante il suo coraggio, il suo nome si era a poco a poco cancellato dai ricordi in favore di coloro che oggi erano ancora ammirati come eroi.

Detestava quella parola, detestava quello che implicava. Detestava che un uomo tale fosse stato dimenticato. Non pretendeva di conoscerlo, ma sapeva che era stato coraggioso come ognuno di loro, se non di più.

Aveva ceduto al richiamo dell'Anello?

Chiunque l'avrebbe fatto! Aveva ceduto al suo potere prima degli altri solo perché il suo desiderio di aiutare il suo popolo era più pressante del loro.

Molto più pressante.

Non c'era niente di male in quello. L'anima dell'Anello aveva saputo giocare con quella grande debolezza, quell'amore troppo grande per il suo paese.

Ma ben presto il mondo avrebbe conosciuto di nuovo il suo nome e la sua storia, se ne era assicurato.

Lasciò che il suo sguardo scivolasse ancora qualche istante su quella stele che aveva saputo catturare la sua anima, poi si spostò lentamente verso la seconda, posta a tre passi appena.

"Sam…"

Senza dubbio uno dei cuori più ingenui, ma ugualmente uno dei più valorosi che avesse mai incontrato. Il suo affetto per Frodo avrebbe potuto spostare le montagne, e ancor più avrebbe fatto la sua devozione.

Era morto quasi cinquant'anni dopo la distruzione dell'Anello, portato via durante il sonno, appena qualche anno dopo la sua dolce sposa, Rose. Lasciava dietro di sé due magnifiche figlie di cui lui era uno dei padrini e una vita felice e ricca, fatta di piaceri semplici.

Si era dispiaciuto di aver visto sparire un compagno tanto prezioso e la sua perdita era stata dolorosa, ma il sapere che l'Hobbit aveva vissuto bene e a lungo aveva diminuito la sua pena. Gli mancava, innegabilmente, ma sapeva ugualmente che aveva infine trovato un riposo ben meritato.

Frodo non aveva sfortunatamente tardato a seguire il suo più fedele compagno. Benché l'Anello gli avesse conferito, come a Bilbo, una durata di vita maggiore, il veleno che Shelob aveva un giorno iniettato nelle sue vene aveva finito per prendere il sopravvento sul suo piccolo corpo. Si era regolarmente ammalato e benché i rimedi di Gandalf l'avessero aiutato a sorpassare la maggior parte delle crisi, una di esse aveva finito per portarlo via in un bel giorno di primavera, proprio mentre la Contea rifioriva.

La sua morte aveva provocato un grande dolore al cuore di molta gente. Restava per tutti il Portatore dell'Anello, colui che aveva saputo resistere alla sua potenza e aveva saputo distruggerlo.

Non lasciava alcun erede dietro di sé. Come suo padre, Frodo era un solitario, un cuore puro e libero che era riuscito a trovare riposo solo tra i propri ricordi e nella piacevole vita à Hobbiville. Tuttavia, egli aveva lasciato un bene quasi più prezioso, un libro che aveva cominciato a scrivere e che gli aveva domandato di terminare.

La loro storia.

Non avrebbe tardato a tracciarne le ultime righe, lo sapeva. Ancora qualche anno al massimo e sarebbe stato compiuto.

Ma questo significava ugualmente che lui sarebbe stato l'ultimo.

Si chiedeva talvolta se Frodo si fosse reso veramente conto di quello che gli aveva domandato. Ma in ogni caso, gli mancava enormemente.

Così come Merry e Pipino. Quei due guastafeste avevano vissuto appena qualche anno in più, facendo sempre tremare la Contea con i loro scherzi e le loro trovate, anche in età avanzata. Si raccontava ancora di come riuscissero a far impazzire la metà del villaggio quando, raggiunti i centodieci anni, camminavano ancora intrepidi sui sentieri di terra dolcemente profumata. Non ne erano stati veramente colpiti, li sapevano sufficientemente canaglie per divertirsi anche a un'età in cui si avrebbe cento volte preferito restare tranquillamente davanti al camino. Egli si ricordava ancora con un sorriso delle loro dispute e dello sguardo sconfitto di quando venivano a sapere dalla bocca di Aragorn che non avrebbero fatto delle pause perché potessero gustare i loro manicaretti. E dire che i loro discendenti avevano l'aria di essere fatti della stessa pasta. La Contea avrebbe dovuto soffrire ancora molti anni.

Il suo sorriso si fece un po' triste quando fissò le due pietre che portavano i loro nomi, quasi toccandosi, inseparabili anche al di là della morte.

Si spostò ancora per osservare le due seguenti, anch'esse intimamente legate.

Arwen e Estel.

Aveva dovuto insistere per permettere ai due corpi di riposare lì come essi stessi avevano desiderato quando ancora erano in vita. Il popolo di Gondor e molte altre contee avevano ammirato il Re e la Regina, la loro abilità politica e sociale, cullata dal loro amore eterno. Avevano tutti pianto amaramente la loro scomparsa a qualche mese di distanza appena e avevano voluto offrire loro la più bella delle tombe, fatta di madreperla e d'oro, di parure di raso lucido e di muri finemente scolpiti. Solo la forza di persuasione di Elrond aveva saputo far accettare loro che la coppia fosse interrata lontana da tutto quel lusso inutile e quasi inopportuno.

Il giorno in cui li avevano deposti sotto quell'albero a fianco dei loro compagni era stato uno dei pochi giorni in cui aveva pianto. Non tanto a causa della perdita dei suoi amici, ma per la pena incommensurabile che aveva potuto leggere negli occhi di Sire Elrond. Aveva amato Arwen e Aragorn e la loro scomparsa era stata una perdita in più con la quale aveva dovuto imparare a vivere. Ma li aveva saputi felici nel loro amore, più che chiunque avrebbe potuto sperare e sapeva che essi non avevano rimpianto nulla della loro scelta e della loro vita, né della loro morte. Ma non aveva potuto restare indifferente al dolore del loro padre. Poiché se lui era il padre biologico di Arwen, era ugualmente divenuto quello spirituale di Re Elessar.

Sospettava che Elrond avesse sempre sperato di non veder morire almeno uno dei due, o almeno di rivederli ai Rifugi Oscuri. Ma questa speranza impossibile era franata all'annuncio della morte di Aragorn. E quando sua figlia l'aveva seguito poco dopo, era crollato.

Oh, certo, non alla vista del suo popolo né dei suoi cari, ma solo al suo sguardo e gli ci erano voluti dei mesi di sforzi disperati per strappargli di nuovo un sorriso, un momento di relax e anche… una risata. Aveva fatto quello che egli aveva fatto per lui qualche secolo prima. Aveva capito solo allora tutto il cammino e la sofferenza che aveva sopportato per ridargli il gusto di vivere, ma entrambi ci erano riusciti, ognuno a modo suo ma con successo.

Ancora oggi poteva sentire la l'onda di calore che l'aveva invaso quando infine l'aveva visto sorridere a una delle famose storie che amava raccontargli, delle incessanti dispute di Merry e Pipino, alle proprie scaramucce con Gimli. Aveva saputo allora che l'aveva riportato sulla giusta strada e da quella prova era nato un legame tra loro non paragonabile a nient'altro. Un filo che li legava, che esisteva già in passato, ma che si era visto rinforzato.

Tuttavia, egli sapeva che quest'ultimo non l'avrebbe protetto eternamente da quello che sapeva inevitabile, e un brivido lo percorse violentemente.

Scacciando dallo spirito quel pensiero, si diresse con difficoltà verso l'ultima stele. Una di quelle che avrebbe desiderato non veder mai ergersi.

Si inginocchiò sulla terra recentemente rivoltata e mossa che vi si stendeva davanti e non poté impedirsi di toccare le iscrizioni che vi correvano sopra, sperando quasi che quel semplice gesto bastasse a cancellarle.

Ma era impossibile e lo sapeva.

Tracciò lentamente le lettere del nome che rifiutava sempre di comprendere e che tuttavia si formava inesorabile nel suo spirito, facendolo soffrire più di quanto avrebbe mai creduto possibile.

Gimli.

Chiuse gli occhi, tentando vanamente di svuotare la mente, le onde dei ricordi che lo assalivano e la disperazione di non aver saputo arrivare in tempo quando lui lo aveva chiamato.

Il pugno, posato sulla pietra, si contrasse violentemente, tagliando il palmo che si mise a sanguinare, lasciando colare una lacrime vermiglia che lo tinse leggermente.

Gimli.

Era arrivato nel suo regno quasi due ore troppo tardi.

Non era stato là per sostenerlo un'ultima volta, per dirgli in una lingua che lui solo poteva comprendere che non l'avrebbe abbandonato, per tenergli la mano mentre la vita lo lasciava. Sapeva che Gimli avrebbe fatto finta di esserne infastidito e lo avrebbe trattato da "folle Elfo", anche se in fondo l'avrebbe ringraziato. Sapeva che lui stesso avrebbe allora sorriso, replicando con ironia che non capiva mai quello "stupido Nano", e avrebbero forse anche riso insieme per l'ultima volta.

Ma niente di tutto questo era successo. Non era stato là e Gimli era partito da solo, nella sua camera reale, avendo come unico conforto gli sguardi sperduti di qualche servitore impotente mentre la sua famiglia si trovava a migliaia di chilometri di distanza, ancora inconsapevole della tragedia consumata.

Non aveva saputo essere là e quel semplice pensiero lo divorava lentamente. Era stato quello che un Nano non avrebbe mai potuto essere per un Elfo, in precedenza. Un compagno, un amico… un fratello. E l'aveva perduto.

Non avrebbe più potuto discutere con lui, non avrebbe più potuto sentire il tono burbero della sua voce scuoterlo o divertirsi nel vederlo perdersi così facilmente nell'alcool di loro fabbricazione che talvolta bevevano insieme durante i loro incontri.

Tutto questo era ormai perduto senza che egli avesse potuto dire fino a che punto la sua presenza aveva contato per lui, fino a che punto aveva apprezzato la sua amicizia.

Forse l'unico giorno in cui aveva avuto veramente bisogno di lui, non aveva saputo essere là.

Si rese appena conto di stare piangendo prima di sentire una mano estranea che gli asciugava dolcemente le lacrime che gli scorrevano lungo le guance.

Si rialzò all'improvviso, vergognandosi di essersi fatto sorprendere in quello stato, ma si ritrovò di fronte il viso comprensivo e caloroso di Elrond.

"Le tue lacrime ti fanno onore, Legolas." disse con dolcezza, "E sono sicuro che egli ha sempre saputo cosa rappresentava ai tuoi occhi."

Quelle parole erano confortanti, ma l'Elfo rifiutò di lasciarsi consolare.

"Saperlo è una cosa," replicò, "ma sentirselo dire è tutt'altro."

Elrond non rispose, sapendo che nessuna parola avrebbe potuto per il momento rincuorarlo, e che solo il tempo l'avrebbe guarito.

"Ho perduto più di un amico." riprese Legolas per se stesso, "Ho perduto un fratello e non ho neanche saputo essere al suo fianco."

La mano di Elrond si posò sulla sua spalla ed egli si voltò per guardare tutte le pietre che troneggiavano ai suoi piedi. Ne mancava solamente una e il cerchio si sarebbe chiuso. Gandalf viveva ancora, ma sapeva che non gli restavano più molti anni. Un centinaio al massimo. La missione che avevano portato a termine l'aveva spossato più di quanto sembrasse e al momento egli pareva più anziano che mai.

Chi sarebbe rimasto allora accanto a lui?

Elrond… ma per quanto tempo ancora? Cento, duecento, cinquecento, forse mille anni se aveva fortuna, prima che decidesse di lasciarlo a sua volta per raggiungere i Rifugi Oscuri. Sapeva che non l'avrebbe fatto subito, che per il momento il loro legame era sufficientemente forte perché gli restasse vicino, ma poi?

Quanti anni ancora avrebbe dovuto vivere da solo?

Oh, certo, un giorno sarebbe diventato re, avrebbe avuto un popolo da governare e senza dubbio qualche compagno fedele al fianco. Ma niente di paragonabile a quello che aveva scoperto con la Compagnia. Legami così saldi che quando erano stati strappati, era un po' di lui stesso che avevano portato via. Aveva avuto sia la fortuna che la sfortuna di attaccarsi a degli esseri mortali e ora pagava, tanto in bene grazie ai ricordi, quanto in male a causa del sordo dolore che non lo lasciava più, di quella sensazione di perdita irreparabile.

Si sapeva condannato a una vita di solitudine più lunga di quanto potesse sopportare. Già adesso la pena di vedere i suoi amici lasciarlo uno a uno si faceva sempre più pesante, e sembrava consumarlo lentamente dall'interno.

Aveva talvolta l'impressione che fosse il suo essere ad andare in frantumi.

Ci sarebbero stati senza dubbio giorni migliori, giorni in cui quell'idea lo avrebbe fatto soffrire meno, in cui sarebbe stato in grado di comprendere e accettare. Ma oggi, neanche le braccia confortanti di Elrond erano sufficienti a riscaldarlo… perché quello era il prezzo della sua immortalità.

Fine

  
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