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Autore: Klavdiya Erzsebet    10/06/2012    2 recensioni
Emily in qualche modo malsano è riuscita ad amare Jim Moriarty, senza essere riamata granché; è vissuta a gioielli e regali preziosi per tanto tempo ma ora che lui se n'è andato deve ritornare alla sua professione di giornalista, al suo stipendio, alla sua vita normale e noiosa. Unica cosa che le rimane: Sebastian Moran come guardia del corpo e la speranza che Jim sia esistito davvero. La speranza di non essere pazza.
E quindi ecco l'inizio: è passato più di un anno e si convince a cercare l'unica altra persona che crede in Sherlock Holmes. Il dottor John Watson, quello del blog.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Titolo: We Believe in Sherlock Holmes

Rating: …giallo?

Genere: drammatico, introspettivo

Sommario: «Mettiti seduta, focalizzati su un punto della stanza e cerca di trarne più considerazioni possibile» le sta dicendo lui intanto; una tecnica imparata in guerra, o più probabilmente nei primi omicidi in cui si era trovato da solo con il fucile e la vittima – ed Emily si sente come se fosse entrambe le cose, e Sebastian, a reggerla e ucciderla allo stesso tempo, fosse uno a caso tra il panico e la follia.

Non suona efficace, comunque, non per la maggioranza della popolazione – ma all’improvviso lei ricorda la sua, le loro menti ormai fragili e pronte a credere a tutto quello che una porzione immensa e cattiva nascosta in loro sta propinando alla sua controparte debole e sofferente, umana; quella che ha sempre, inconsciamente o meno, pensato che Jim non avesse.

Disclaimer: non mi appartengono, ovvio, e scrivo assolutamente gratis.

Avvertimenti: spoiler sulla seconda stagione.

A/N: saranno una ventina di capitoli in tutto, e ne ho già scritti in totale 12; avranno ognuno circa 1.500 parole, non molte, e io sono sicuramente pazza a pubblicare senza avere finito!

Però dai, sono le vacanze e a parte scrivere non ho praticamente NULLA da fare: ci proverò. Gli aggiornamenti cercherò di mantenerli settimanali, per quelle anime pie che decideranno di seguirmi.

Beh, questa è la mia opera maggiore finora (su tre, capirai). Spero vi piacerà. Bacioni e un grazie in anticipo per avere dedicato anche un secondo del vostro tempo sulla mia creatura,

Klavdiya

P.S. Ho fissato la data di morte di Sherlock al 4 maggio 2011, e la fic è ambientata circa un anno dopo; non ho voluto farne passare tre, anche se mi piace un sacco citare il Canone. A proposito: uno zuccherino a chi trova i riferimenti…

E un’altra cosa: a Sherlock è successo qualcosa di spiacevole, che scoprirete nel prossimo capitolo.

 

 

I Capitolo

 

14 luglio 2012

 

A Londra il cielo è terso, azzurro, macchiato da poche nuvole immacolate dalla forma indefinita, i contorni frastagliati, la consistenza di enormi cuscini. L’estate arriva con violenza sopra la città e un poco anche nelle vie, nei ragazzi in pantaloncini e con le maniche corte. Invece Emily sta così bene, coi jeans lunghi, la felpa slacciata, mantenendo le adeguate distanze con i passanti per strada che non hanno paura a mostrarsi mezzi nudi.

A Baker Street si ferma, si aggiusta la tshirt fino a coprire la cintura, si liscia con le dita i capelli. Si schiarisce la voce. Suona il campanello del 221b, due volte. Insiste per qualche secondo. Le apre una vecchietta stretta un bizzarro vestito viola paramento, il volto da cavallo e un vassoio in mano, con una sola tazzina – triste.

«Emily Keen» si presenta lei. Tende una mano e sorride. Forse è la prima persona nel nuovo millennio a stringere la mano alla donna. «Un’amica di John»

Il viso della padrona di casa si illumina – stringe finalmente la mano di Emily con tutto il calore della sue dita ossute ed esibisce un sorriso che pare finto se non fosse per l’espressione dei suoi occhi.

«Benvenuta, cara! Sei stata così gentile a pensare al povero John…»

«Ho sentito della sua perdita», dice la giovane cercando di apparire ancora triste e non annoiata o stressata o qualunque cosa sia in realtà. «Ma mi è capitato di ritrovare il suo indirizzo solo ora…». John Watson le fa tristezza – John e basta se vuole trovarlo e provare al mondo che non è sola né pazza.

«Una disgrazia» geme contrita la vecchietta. «John ne è rimasto distrutto, e non si è ancora ripreso»

Questa volta Emily non ha bisogno di fingere di essere triste per diventarlo, perché per un attimo si sente terribilmente fuori posto e un momento dopo immensamente vicina a John. «Immagino che abbia… cambiato casa» dice con lo stesso tono con cui constaterebbe qualcosa di estremamente ovvio. Stupido. Passa tra le dita, nella tasca della felpa, le chiavi del suo nuovo appartamento. La vecchietta annuisce, grave, si sistema l’orrido vestito e per un attimo fissa lo sguardo a terra sospirando. «Entra pure» dice a Emily, all’improvviso. All’ospite pare che il favore glielo stia facendo lei stessa ad accettare.

Dentro la casa è scura, triste, e nel salotto dove la vecchia la porta sono ancora chiare le terrificanti tracce della vita di due maschi single che hanno improvvisamente smesso di vivere lì per chissà qualche ragione. Come sui documentari sulla gente ammazzata in strada senza un perché, oppure morta da un momento all’altro senza una causa ben precisa. Così, boom. A parte la polvere Baker Street è ancora viva e accogliente. «Non ho avuto ancora il coraggio di cambiare niente» dice la vecchietta e la sensazione di essere terribilmente fuori posto torna. Poi di nuovo Emily si rivede sul cuscino con la Union Jack e sui tavoli ancora impraticabili da oggetti di ogni tipo.

Vede un violino abbandonato su una poltrona, delle provette ancora piene sul tavolo. Si concentra sui liquidi che contengono, si chiese da quanto siano lì. Ma poi torna allo strumento che giace sui cuscini, e sembra che anche la semplice vita se ne sia andata dal suo legno pregiato e dalle sue corde. È come morto se già sai che ora non lo suonerà nessuno. Si avvicina alla superficie, ci vede se stessa riflessa; decide che nel salotto di due sconosciuti c’è molta più sé di quanta non se ne sia mai lasciata dietro in tutti i suoi articoli.

«Ti porto del tè – scusa il disordine, stavo cucinando» le dice la vecchietta sparendo.

«Lei deve essere la padrona di casa» le grida Emily di rimando. Si siede sull’unica poltrona libera e torna di nuovo con lo sguardo al violino.

«La signora Hudson. Quanto zucchero vuoi, cara?»

«È uguale, davvero»

Ora la vecchia sorride con un aria inquietante ed Emily non se la sente di dirle che ha appena fatto colazione – undici e mezza o qualunque altra folle possa essere. Guarda gli scaffali cercando delle foto, trova solo tanta polvere. Poi vicino a un televisore che pare spento da mesi vede una cornice troppo pulita e troppo poco pacchiana per essere stata lì quando ancora John Watson e Sherlock Holmes abitavano a Baker Street. Quelli in foto sono loro due, capisce subito Emily, e riconosce la carnagione pallidissima e gli occhi cerulei dei giornali di qualche mese prima nel volto dell’uomo più alto. È stretto in una camicia viola e ha le labbra sorridenti, nonostante lo sguardo impassibile. Potrebbe eclissare il John Watson che ha di fianco se non fosse che lo guarda, fisso, e nel suo sguardo non c’è spazio che per lui. Nonostante il cadavere coperto da un telo sullo sfondo, alle sue spalle, la confusione e il fatto che dovrebbe (fare finta di?) cominciare a dare un’occhiata alla scena del crimine, nella foto Sherlock Holmes sta guardando John Watson con l’intensità che molte persone che Emily conosce concederebbero solo alla partita e all’auto nuova.

«Come hai conosciuto John, signorina Keen?»

«Mi chiami Emily, la prego». Allunga la mano e prende la tazzina che la signora Hudson le sta allungando. «Siamo andati all’università insieme» risponde poi e si rese conto che la sua mente l’ha davvero provata innumerevoli volte, questa risposta.

«Hai fatto anche tu medicina, quindi?»

«No, quello no, per quanto non neghi che a mia madre sarebbe piaciuto. È che io aspiravo a diventare cronista di nera, lui medico di guerra – capirà, entrambi sembravamo avere un enorme magnete a trascinarci nelle vicinanze dell’obitorio»

«Capisco» ridacchia la vecchia. «Quindi, per forza di cose, essendo tutto basato su un posto che odorava di cadavere non è durata…»

Emily sorride nel tè, alzando lo sguardo da sopra la tazzina fino a vedere gli occhi apparentemente non maliziosi della vecchietta che la fissano. «Non siamo stati fidanzati…», spiega. «Il mio fidanzato era molto più noioso di lui»

La signora Hudson beve un piccolo sorso dalla tazzina – poi se la allontana dal viso ed esibisce un’altra delle sue smorfie strette ma divertenti, e i suoi occhi parlano di buone maniere estreme ma totalmente in buona fede. È una delle persone più trasparenti che Emily abbia mai visto.

Le sorride a sua volta. «Quindi ora lavora come medico, John?» chiede curiosa.

«Lavora in una clinica, sì»

«Sono felice per lui»

«Tu sei una giornalista?»

«Sì, una freelance»

«Oh, immagino tu abbia sentito quella spiacevole storia sul povero Sherlock, giusto qualche tempo prima della sua scomparsa…»

Emily posa la tazzina, prende un respiro, la guarda in faccia; «Non credo in una singola parola di quello che si disse allora», dice sincera. Anche la signora Hudson ci crede (sono in tre?).

«Sono contenta che tu lo pensi» le risponde la vecchietta, tira fuori dalla manica un fazzoletto di stoffa coi bordi ricamati e si soffia il naso mentre gli occhi diventano lucidi e rossi. «Sherlock era troppo speciale e unico per essere stato falso. Nessuno avrebbe mai saputo fingere così bene…», dice come tante volte ha fatto Emily. Nella sua testa. In tono di scusa.

«Dove abita?» chiede alla padrona di casa.

«Non è lontano. Credo di avere un biglietto con l’indirizzo completo»

 

 

 

Non è lontano. Emily però preferisce prima dormire e lasciare passare un’altra notte, anche se ora non si tratta di non far capire a qualcuno che lo sta pedinando. Quello non lo fa più da quando Jim se n’è andato.

Non vuole andare a trovare un secondo sconosciuto; anche solo parlare con una vecchietta l’ha spossata. Chiude gli occhi, nel suo letto freddo e solitario, e pensa alle mille cose che sarebbero potute andare storte. A come avrebbe potuto reagire se in qualche modo la signora Hudson avesse scoperto che lei non conosceva John – si impone di non pensare a quel qualche modo ma già sente che la sua mente ci sta lavorando, velocemente, troppo: se fosse stata sua madre o sua zia o qualcosa del genere; se John stesso fosse stato lì; se…

Ora è stanca, decise, ed è vero perché nonostante la testa non le faccia propriamente male sente come la sensazione di averla usata troppo. Per lo stress e tutte le cose da fare e cose del genere – e quelle non ancora fatte, ovvio, che a mezzogiorno le erano sembrate vitali. E ora sono inutili.

Cerca di coprirsi ancora di più, si preoccupa di avere le maniche del pigiama ben tirare su per evitare di toccare direttamente la coperta gelida. Lascia completamente andare la testa contro al cuscino e rilassa le palpebre, cercando di non stringerle troppo.

Le lenzuola sono morbide, la avvolgono perfettamente in un bozzo e non ha il coraggio di muoversi tanto è stretto il groviglio, tanto si è agitata stanotte. Ha una visione di se stessa in quella posizione – ma è mattina, le veneziane non sono abbassate e la luce rende bianchissimo il tutto, illumina Emily. Ed Emily dorme, la mente fresca, riposata e non così stanca di tutto.

  
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