Tempus Interius
{ Stop □ Rewind ‹‹
That blood was never there. }
Plic. Plic. Plic. Plic. Pli—Stop.
Silenzio.
8.58 e quaranta secondi.
L’ennesimo ‘plic’—Stop. Torna indietro. Quella goccia non
è mai caduta.
La goccia è gelida, lascia
un percorso ghiacciato lungo il dorso della sua mano, poi scende e macchia la
camicia bianca—rossa. Quella camicia è familiare, è quella con le cuciture del
terzo bottone allentato e il colletto sgualcito. È sempre stata bianca.
‘Plic’ fa un’altra goccia, e il
pulviscolo e i minuscoli detriti e le ceneri vorticano furenti e instancabili
in un’unica danza nell’aria illuminata dai pallidi raggi solari. Dicono che
l’ora più buia sia quella prima dell’alba, ma a Gokudera
il mondo non è mai sembrato così cupo come quella mattina.
Le piccole finestre sono
disintegrate, il pavimento è un oceano di scogli di cemento e baluginii
ingannevoli, finte scaglie lucenti di affilati pesci di vetro. Le pareti sono
decorative, si tengono su per gioco, e tremano sotto gli sbuffi di vapore
provenienti dalla caldaia distrutta.
Le sue gambe sono
insensibili, le ginocchia pungono di un formicolio veemente e le sue mani sono
calde, ma non per il loro calore interno.
La tubatura tranciata
sopra di loro geme minacciosa, vuole cadere, è stanca di stare appesa appena sul
vuoto quasi quanto Gokudera, ma il tempo la tiene su.
Sarebbe già caduta, se il tempo non si fosse fermato. L’acqua continua a
piovere in piccole lacrime luminose e nello stesso modo in cui sa di non poter
arrestare lo sgocciolio incessante, non può frenare il sangue. Sgorga, inonda
le sue dita, i suoi preziosi anelli, il pavimento, i cocci – il mondo si tinge di
cremisi. Lentamente, inesorabilmente, il rosso scaccia ogni altro colore
intorno a lui, come una piaga devastante e impietosa.
Una goccia cade, ‘plic’, e un altro
fiotto di sangue rotola e si allarga per terra.
Le 8.59 e Yamamoto apre gli occhi.
Plic—Stop. Torna indietro. Quel soffitto non è mai crollato.
“Haha,”
comincia Yamamoto, ma quel rantolo stentato gli
ricade subito giù per la gola in un rumore gorgogliante. Lo guarda con fare di
scusa.
“Non avrei mai pensato che
sarebbe finita così.”
Questo perché Yamamoto è stupido, fa finta di trattare la sua esistenza
come un gioco, si rifiuta di pensare a come potrebbe finire, a come immancabilmente finirà, per tutti loro.
Gokudera invece l’ha pensato, lo pensa da sempre. Lo pensa ogni
mattina quando infila la pistola nella fondina, ogni pomeriggio quando sistema
con studiata insofferenza la cravatta dell’altro fuori posto e allentata di
proposito, ogni sera quando vede la vecchia mazza da baseball abbandonata a
prendere polvere dentro un armadio.
O forse Yamamoto si riferisce al fatto di morire per una bomba e
non per una pallottola calibro 22. Forse avrebbe preferito la pallottola.
Gokudera ha sempre creduto che fosse una differenza importante.
Fantastica spesso sulla propria morte. Ella lo scorta a braccetto ovunque, ad
ogni ora del giorno, quasi impaziente di prendere il suo posto, e nell’attesa
gli sussurra sogni di gloria nella curva dell’orecchio. Sacrificarsi per
salvare il Decimo, farsi esplodere sul campo di battaglia trascinandosi dietro
tutti i nemici, essere ricordato per aver combattuto fino alla morte per
difendere la propria famiglia. Un tempo erano le sue ambizioni più grandi, le
migliori amiche che lo cullavano nelle notti senza speranza.
Ma ora si rende conto che
non importa davvero come si muore se sei tu quello che viene lasciato dietro. Una
morte è una morte, e questa morte ha come causa una singola scelta. Così
lontana che sembra appartenere a un’altra vita.
“Non finirà così,” mente,
ignorando il palo di metallo incastrato nel torace di Yamamoto.
Il sangue scivola nelle
scanalature delle piastrelle, irriga il cimitero di detriti, e sbuffi di vapore
ne germogliano come fiori impalpabili.
Solo ora gli echi della
bomba smettono di vibrare nelle pareti. Il silenzio ora è mortale. Così intenso
che a Gokudera pulsano le orecchie, gli prudono in
maniera insopportabile mentre il vuoto preme contro i suoi timpani. Gokudera ha voglia di gridare, ma non lo fa. Non è neanche
sicuro che qualche suono possa uscire dalla sua bocca.
Ma cade un’altra goccia e
il silenzio si spezza.
Le 8.59 e venti secondi e Yamamoto gli dice “Bugiardo”.
Plic—Stop. Torna indietro. Quella bomba non è mai esplosa.
Guarda un frammento di
calcinaccio staccarsi dalla parete, e gli sembra che ci metta secoli a
svolazzare fino a terra e affondare nel sottile strato di bagnato.
“Sono felice che tu sia
qui.”
Gokudera non lo è. Vorrebbe non trovarsi lì a vivere quegli
infiniti minuti fissando la pelle di Yamamoto
diventare sempre più cadaverica, i suoi occhi sempre più spenti. Non vorrebbe
che Yamamoto si trovasse lì. Yamamoto
non avrebbe mai dovuto essere lì.
Eppure ci sono, e l’aria si fa sempre più soffocante, gli scricchiolii sempre
più sinistri, ma Gokudera non ha intenzione di
andarsene. Le sue ginocchia sono inchiodate a terra—e sono rosse, come tutto il
resto.
“Non piangere,” dice Yamamoto, e quando lo dice, per un istante i suoi occhi
castani si inumidiscono, il suo viso si contrae in una violenta smorfia di
dolore. Per un instante, Yamamoto sembra rendersi
davvero conto che il suo momento è arrivato, che la sua vita sta scivolando via
dal suo petto con il suo sangue, che è solo una questione di secondi ormai. Gokudera non ha mai visto uno sguardo così rassegnato, e quasi non riesce a
sostenere quell’espressione di panico, quasi distoglie gli occhi. Eppure non lo
fa, e in Yamamoto legge la silenziosa preghiera: ‘ti prego non renderlo ancora più reale.
Forse questo è solo un sogno’.
E viene quasi facile a Gokudera di immaginare di essere in un sogno, perché solo
nei sogni le cose, le persone, i colori, il tempo hanno così poco senso come ce
l’hanno ora.
“Non sto piangendo,”
risponde, e lo dice con tale fermezza che pare essere vero. E Yamamoto sorride di nuovo, un sorriso triste e allo stesso
tempo incoraggiante, che schiaccia il cuore di Gokudera
sotto un’incudine di ferro. Sta cercando di consolare lui, l’idiota. Non è lui
che sta morendo. E forse è un peccato.
“Okay,” bisbiglia soltanto
Yamamoto. Poi chiude gli occhi, e una lacrima gli
cola da sotto la palpebra lungo la tempia.
Sta in silenzio così a
lungo che Gokudera teme il peggio. Afferra la mano
fredda dell’altro e tasta il suo polso. Il battito è quasi inesistente.
‘Non è un sogno, no?’ Gokudera pensa, e trema
di rabbia. Vuole scuoterlo per le spalle, schiaffeggiarlo, fargli riaprire gli
occhi a forza di urla. Yamamoto non morirà davanti a
lui, non così facilmente. Ha intenzione di disturbarlo così tanto da farlo
svegliare completamente, da non dargli pace né concedergli di cadere in quel
sonno perenne, non ora, non oggi.
Ma Yamamoto
sembra così fragile da spezzarsi al minimo tocco, ed è assurdo ammettere che si
tratta dello stesso Yamamoto che Gokudera
conosce da una vita.
E a quel punto la dura
realtà preme, è evidente. Yamamoto sta per morire, davanti
a lui, e Gokudera non può fare fottutamente niente
per evitarlo.
Sente di dover dire
qualcosa. E di cose da dire ne ha tante, cose che non ha mai detto e cose che
ha detto troppe poche volte, e rimane pochissimo tempo per rimediare alle
mancanze e agli errori di un’intera vita. Eppure la sua mente è completamente
vuota, e uno sferzante “Non morire,” è l’unico, assurdo ordine che gli esce
dalle labbra. Anche se a lui pare che suoni più come una preghiera disperata.
Yamamoto riapre gli occhi a fatica, e ride. È una risata
orribile. Se la morte potesse ridere, suonerebbe esattamente in quel modo,
pensa Gokudera. E quando finisce, Yamamoto
lo guarda dritto negli occhi. “Grazie,” mormora lentamente, ignorando il suo
ordine. “Per tutto, Hayato.”
Gokudera ha voglia di dargli un pugno. Perché Yamamoto sembra sapere sempre cosa dire e quando dirlo, a
differenza di lui, e perché questa era la cosa più crudele che potesse dirgli.
Stringe con forza la mano gelida nella sua, entrambe sporche di sangue. “Sei un
idiota.”
Yamamoto chiude gli occhi e tenta un’altra risata. Questa volta
suona più pulita. “Lo so.”
Le 9.00 e Yamamoto muore con un sorriso sulle labbra.
Qualcosa dentro Gokudera muore insieme a lui.
Plic—Stop.
Manda avanti velocemente.
Gli anni passano, e in un
martedì piovoso di primavera Gokudera viene colpito
al cuore da una pallottola calibro 22 saltando di fronte a Tsuna
nel tentativo di difenderlo da un attacco improvviso.
Gokudera sarebbe fiero di una morte del genere, pensa Tsuna, ma per lui che viene lasciato indietro una morte è
una morte, e la morte di Gokudera ha come causa una
singola persona.
E i secondi che impiega il
corpo di Gokudera a raggiungere il suolo sono i
secondi più lunghi della vita di Tsuna, così lunghi
che gli sembra che il tempo vada all’indietro.
La cosa divertente è che io odio le deathfic. Infatti sarà l’unica che scriverò nella mia vita
suppongo, haha, per una questione di principio.
Questa fic non ha senso ed è deprimente, e l’ho
scritta al liceo dopo aver fatto Svevo lol. Avete
presente il ‘tempo interiore’ dell’autore, quando si parla di come i suoi
romanzi stiano a lungo su singoli fatti importanti per il protagonista mentre
passino rapidamente sulle cose insignificanti (spiegato in modo very riduttivo xD ) ? Beh da lì è
nata l’idea ‘cosa succederebbe alla percezione del tempo di Gokudera
se Yamamoto morisse?’ Dopo la morte di Yamamoto ho riassunto tutta la sua vita seguente in ‘gli
anni passano’, giusto per enfatizzare in modo assolutamente spiacevole
come il dopo sia stato vissuto in modo assolutamente apatico IL CHE E’
MOLTO TRISTE ED E’ PER QUESTO CHE QUESTA FIC FA SCHIFO LOL, SALVATEMI. TUTTA
QUESTA ANGST. Sarà che ero al liceo. Nonostante questo, spero che in qualche
modo vi sia piaciuta, e come al solito, reviews are lòf :)