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Autore: Ely79    13/06/2012    3 recensioni
Colombe è in attesa di un ospite, ma la sua mente fugge altrove mentre contempla l’ultima follia di suo padre: un giardino giapponese. Non sa che la persona che sta aspettando sarà sconvolta dai suoi sogni.
Storia partecipante al "Fly to the Infinite, Because everything is possible" contest indetto da Luna Ginny Jackson e terza classificata al "Questo colore è per te" indetto da Sky.blue.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kir alla violetta
NICK: Ely 79
FANDOM: Originali
AVVERTIMENTI: one-shot
GENERI: science-fiction, romantico
RATING: giallo
INTRODUZIONE: Colombe è in attesa di un ospite, ma la sua mente fugge altrove mentre contempla l’ultima follia di suo padre: un giardino giapponese. Non sa che la persona che sta aspettando sarà sconvolta dai suoi sogni.
NDA: l’ambientazione è steampunk. Ci sono riferimenti all’aromaterapia e alla cristalloterapia, oltre che all’arte dei giardini orientali. Il mistero attorno alla figura dell’Ambasciatore è volutamente lasciato senza spiegazioni.


Colombe stava alla portafinestra, scrutando pensierosa il giardino racchiuso nella grande struttura di ferro e vetro.
Era la moda del momento e i Theeuwen, come membri dell’elite borghese del regno, non potevano esimersi dal mostrare ai propri ospiti il più splendido, elaborato capolavoro d’arte del giardinaggio orientale di tutta la città: elegante e composto nella sua ascetica semplicità, era uno scorcio del meditativo Giappone trasportato nello sferragliante caos della città belga. Azalee dai fiori candidi affiancavano aceri contorti, i cui rami si protendevano sopra l’acqua secondo linee zigzaganti. Macrobonsai di tasso attiravano lo sguardo dell’osservatore verso lanterne di pietra dalle luci colorate e sugli elaborati disegni di metallo brunito che reggevano la grande teca.
Un variopinto branco di carpe koi pinneggiava placido nel laghetto bordato di pietre nere, increspandone la superficie. Portarle attraverso oceani e terre in rivolta non era stato affatto semplice: in Europa era giunto poco meno di un ventesimo del carico iniziale. Quelle dei Theeuwen erano tra le fortunate sopravvissute e venivano ripagate per la loro tenacia con abbondanti dosi di mangime, che le stava rapidamente portando alle dimensioni di un gatto persiano. Seguivano l’avanzata di una famigliola di anatre meccaniche che starnazzavano attraverso il becco spalancato ed immobile. I paperotti procedevano dondolando sulla scia della madre, le zampette che si agitavano frenetiche sott’acqua, quasi fossero vere.
La fanciulla teneva gli occhi fissi oltre lo specchio d’acqua, sulla distesa di muschio e pietruzze candide da cui svettava un taido1. La sua forma allungava, percorsa da sottili e profonde scanalature verticali, fitte quanto le pagine di un libro, pareva possedere poteri ipnotici. La pietra grigio cupo suscitava in lei emozioni e ricordi tanto intensi da accorciarle il respiro, impedendole di allontanare lo sguardo.

Un abito.
Un abito maschile.
Bello, perfetto, caldo, vicinissimo al suo viso.

Il gorgogliare sommesso della fonte artificiale risvegliava nella sua mente una voce che l’aveva toccata con dolcezza, tracciando un segno di velata malinconia nel suo spirito.

La sua voce, arrochita dal fumo e dai troppi discorsi con i padroni di casa.
Parole gentili, eleganti, colte, appassionate.
Vocaboli attentamente modulati sulla musica in sottofondo.

Non c’erano fiori ad ornare il giardino. Nessuna esplosione di colore nel freddo inverno, così come non c’erano altri profumi che il muschio umido, le resine nascoste nelle cortecce o la polvere sulle rocce.

Il sentore pungente del tabacco.
Lo spunto amaro dello champagne nel suo respiro.
E una nota bassa, antica, avvolgente, che sapeva di eternità.

Aveva riconosciuto subito quell’aroma: mirra2. Suo padre ne faceva arrivare ingenti carichi un paio di volte l’anno dall’Africa. Non aveva osato dirlo a nessuno, ma da giorni ne nascondeva alcuni grani nel fazzoletto che portava con sé, per perdersi nel ricordo di ogni dettaglio, di ogni vaga sfumatura, di ogni minuscolo frammento di tempo.
Le sfuggì un sospiro carico di tenerezza e nostalgia.
Faticava a capacitarsi del meraviglioso sogno vissuto; sogno da cui era incapace di separarsi. Era la prima volta che si trovava invischiata nella rete dei sentimenti e pur dibattendosi per emergerne, sentiva di non desiderare affatto fuggirne. Amava quello stato di fluttuante benessere che la pervadeva.
Su un’altalena fatta di riccioli dorati si dondolava un uccellino dalle piume smaltate. Colombe lo staccò delicatamente dal supporto e lo rigirò tra le mani, con grande attenzione. Scostò le penne del dorso, rivelando una minuscola leva. La sollevò e la spinse delicatamente nella schiena dell’animaletto, facendola ruotare alcune volte. Molle e rotelle dentate scattarono in posizione al suo interno, man mano che la carica aumentava. Chiuse il piumaggio variopinto al suo posto, riposizionando l’uccellino sul posatoio con un debole clic.

***

Verso le tre del pomeriggio, un valletto impomatato annunciò l’arrivo dell’ospite.
Colombe aprì lentamente gli occhi, emergendo dalle romantiche fantasticherie in cui l’avevano accompagnata le note dell’usignolo a molla. Si alzò dal divanetto dov’era rimasta in assorta contemplazione, sistemando le pieghe dell’abito e i lunghi boccoli castani che le ricadevano sulle spalle, solleticandogliele.
Dalla porta fece capolino una donna. Era un poco più bassa della giovane e decisamente più robusta. Indossava un abito di un bel giallo indiano, ornato di pizzi color terra d’ombra3 su maniche, petto e tornure4.
«Ti aspettavo l’altra sera, al ricevimento di Madame Renier. Mi hai fatta preoccupare» esordì la ragazza, dopo averla abbracciata con affetto.
La donna prese un profondo respiro, terminando di slacciare il pilulier5 che consegnò al domestico. Alcuni riccioli scuri sfuggivano ai fermagli che tenevano in ordine la bizzosa capigliatura bruna.
«Devi scusarmi, Colombe, non era mia intenzione lasciarti sola. Alcuni noiosi problemi mi hanno relegata in casa all’ultimo minuto e non ho potuto avvertirti della mia rinuncia».
«E questi problemi hanno un nome?» ammiccò impacciata.
«No» replicò lei, afferrando l’allusione ad alcune sue frequentazioni maschili – una in particolare. «Problemi molto femminili e decisamente meno piacevoli di un intrigante quarantenne antiquario che nega di farmi la corte».
Colombe chinò il capo imbarazzata, volgendo lo sguardo al pavimento di legno.
«Perdonami, Lavinia. Non… non volevo essere indiscreta».
L’amica sorrise indulgente prendendola sottobraccio e conducendola in direzione della veranda. L’erede dei Theeuwen era fatta così, alcune sue uscite potevano apparire ambigue e pungenti, talvolta inopportune. In realtà non erano altro che innocenti tentativi di emergere dal protrarsi dalla fanciullezza, vissuta nella campana di vetro impostale dai genitori.
«Non pensarci. Conoscendomi, la tua era una curiosità più che lecita».
In effetti la giovane era sempre molto incuriosita dalla vita un po’ disinibita dell’amica. Le ricordava le eroine dei romanzi d’amore che leggeva di nascosto; donne forti e indipendenti che amavano la vita e ne assaporavano ogni istante, prede di avventure mirabolanti e passioni travolgenti. Lavinia era un’orafa ed una metallurga, di certo non avrebbe mai attraversato l’oceano su un trabiccolo in fiamme, né sarebbe stata coinvolta in sanguinosi intrighi internazionali, né avrebbe avuto per spasimante un conturbante principe ottomano. Il massimo delle sue trasgressioni stava in qualche bicchiere di liquore e nel trascorrere serate frequentando i salotti culturali della città, in compagnia di uomini affascinanti, che entravano ed uscivano dalla sua vita come rondini. Nonostante ciò, la caparbietà e la fierezza con cui affrontava le sfide di ogni giorno erano le stesse di un’avventuriera.
Colombe la invidiava. Si sentiva piccola ed insignificante al suo fianco, noiosa, banale, vuota, ma non aveva mai avuto il coraggio di confessarglielo. Nonostante sapesse di poterle raccontare ogni cosa senza timore di essere mal giudicata, quell’intimo segreto, quella punta di gelosia, la brama di vivere una vita diversa, era un concetto che le riusciva difficile esternare. Nata e cresciuta entro la prigione dorata di quelle mura, le era stato concesso il lusso di una prestigiosa istruzione che però le aveva consentito solo d’imparare ad immaginare. Per quanto agognasse una vita avventurosa e travolgente, non aveva la benché minima idea di come intraprenderla: pianificare una fuga era facile, ma all’atto pratico sarebbe risultata un fiasco, perché era digiuna del mondo e delle sue scelleratezze. Senza contare che il solo pensiero di varcare la soglia di casa per inseguire quel sogno le metteva addosso una grande inquietudine, per via del dolore che avrebbe dato ai propri genitori.
Raggiunsero la portafinestra e rimasero ad osservare il giardino giapponese.
«Veramente delizioso» sentenziò Lavinia, lo sguardo attratto da una pietra la cui forma stranamente accartocciata6 ricordava quella di una colata di fonderia.
«Papà ha fatto impazzire fabbri e giardinieri per quasi tre settimane e non è ancora finito. Non vedo l’ora che sia pronto» ammise, incapace di nascondere il proprio disappunto.
Il battere dei martelli, il cigolio degli strumenti di serraggio e la cacofonia di strilli degli operai le davano il mal di testa.
«Davvero? Eppure, ha un senso di grande unità, di… “concluso”».
«È quello che ho cercato di dirgli anch’io, ma sai com’è fatto».
Il motto di suo padre era “se possiedi qualcosa, mostralo senza timore nella sua magnificenza”, nel miglior stile capitalista del secolo.
Negli occhi scuri dell’ospite passò un lampo di perfidia femminile.
«Posso dirlo?» domandò Lavinia con desiderio.
Moriva dalla voglia di esternare i suoi pensieri riguardo il padrone di casa.
«Che è un… t-testone… ott... ottuso?» boccheggiò lentamente la ragazza, stupendosi d’essere capace di pronunciare quelle poche parole.
In genere era l’altra a snocciolare epiteti simili nei confronti si suo padre, ma con una dose ben superiore di cattiveria nella voce.
«Fai progressi, mia cara. Chissà cosa sentirò uscire dalla tua dolce boccuccia la prossima volta che verrò a trovarti!» scherzò, sinceramente colpita.
Vedendo però che le sue parole avevano causato un lieve disagio, si affrettò a domandare scusa.
«No, no, scusami tu, Lavinia» si schermì invece Colombe. «È colpa mia, che mi ostino a sentirmi imbarazzata da alcuni modi di dire che… invece… condivido, anche se non riesco ad ammetterlo. Il fatto è che… mi sento… è difficile dire cosa penso».
«E… cosa vorrebbe fare ancora, tuo padre? Costruirci un tempio a grandezza naturale? O un bel vulcano con la cima innevata da cui volano fuori delle gru?» chiese l’orafa, per distoglierla dal pensiero dei propri difetti.
Non le faceva certamente una colpa della sua timidezza, anzi. Era convinta che con l’età avrebbe potuto dimenticarla in un cassetto senza tanti problemi. Dopo tutto, Colombe solo diciannove anni: aveva tempo per percorrere tutti e quattordici gradini che le dividevano all’anagrafe, e una volta superati sarebbe stata certamente meno timida nel parlare.
«No, ma suppongo ne sarebbe capace» sospirò abbattuta. «Ha ordinato un automa musicale. Una specie di grande bambola meccanica, capace di suonare uno strumento. Ne ha vista una all’ambasciata giapponese a Parigi. Dice che era splendida, pareva una donna vera: muoveva le mani, gli occhi, oscillava il capo! Però ha deciso che la quiete di questa dimora non dovesse essere turbata con presenze troppo… ecco, sì… troppo…»
«Sensuali?»
Colombe annuì, mordendosi il labbro, le guance colorite dall’imbarazzo.
«E così ha optato per un musico. Un monaco o un musicista di teatro, non saprei dirti esattamente» aggiunse esasperata.
Proprio non capiva che razza di pensieri muovessero le idee del genitore. Pensava forse che un automa con le fattezze di una komachi7 potesse suscitarle risentimento o invidia? Credeva che la sua presenza avrebbe avuto un effetto deleterio su di lei? E in che modo? Sfinendola con melodie arcane? Spingendola a pungersi con qualche protuberanza avvelenata dello strumento, come accadeva nelle fiabe? Iniziandola alla via delle geishe?
Aveva finito col convincersi che la scelta non fosse dettata da un riguardo nei suoi confronti, quanto piuttosto alla buona pace di sua madre. L’aver tanto sentito parlare della beltà e della sottile lussuria che promanava da quei giocattoli, unito alla pessima nomea che accompagnava le donne del lontano Oriente, doveva aver convinto suo padre ad optare per la versione maschile dell’automa, più austera e onorevole, per non incorrere nei pianti dolenti della consorte.

***

Lavinia sorrise, accomodandosi sul divanetto e guardando attorno con vivo interesse. Le alte pareti del salottino sfoggiavano una carta da parati color avorio dalle eleganti decorazioni floreali: solitari iris, festoni di passiflora, gruppetti di crochi, spruzzate di minuscoli fiori di campo s’inerpicavano verso le cornici di stucco candido. Una ghirlanda di viole, lillà e glicine era dipinta sul soffitto.
Il rivestimento di seta del divano, delle poltroncine e di ogni stoffa presente nella stanza riprendeva il colore dei petali, declinandole in tonalità più intense e vibranti. I mobili laccati di bianco rilucevano nella bassa luce di quell’uggioso pomeriggio. Vasi di porcellana e ninnoli d’argento punteggiavano di tremuli riflessi le pareti.
«Viola» commentò la donna con una punta d’ammirazione nella voce. «Adoro le tonalità che hai scelto, molto distensive. È un colore purificante, meditativo, spirituale. Stimola la concentrazione, la riflessione, aiuta ad acquietare gli stati d’ansia, le tachicardie, l’insonnia…»
S’interruppe, fissandola dubbiosa. Colombe era un’affezionata cliente della sua gioielleria curativa, non tanto perché la sua salute fosse peggiore di quella di altre fanciulle dell’alta società, quanto per la predilezione verso lo stile dei gioielli che creava.
Negli anni si era impratichita a sufficienza delle teorie legate alle proprietà terapeutiche di colori e cristalli da potersi considerare un’appassionata cultrice. Era chiaro, pertanto, che la scelta delle tonalità della stanza fosse stata dettata da una scelta ponderata.
«Tesoro, non ti senti bene?» domandò, improvvisamente preoccupata.
Colombe impallidì, presa alla sprovvista dalla rapidità dell’intuizione e cominciò a tormentare le dita sottili. Rigirò più volte gli anelli, quasi sperasse di scorgervi incisa la risposta. Infine guardò l’altra, titubante.
«Diciamo che… di recente… ho… ho avuto dei mancamenti» confessò.
Lavinia si accigliò, accostandosi un poco e prendendole la mano.
«Avresti dovuto parlarmene nel tuo invito» la rimproverò pacata, tastando attorno ai gioielli e controllando la lucentezza delle gemme che vi erano incastonate per verificarne l’efficacia. «Sai che preferisco non portarmi appresso gli attrezzi del mestiere quando sono in visita di piacere, ma se occorre posso…»
«Non sono ammalata, Lavinia. Credimi, posso fare a meno delle tue capacità» la rincuorò.
A dispetto del tono tremulo, qualcosa nella voce di Colombe disse alla taumaturga che era la verità.
«E dei miei gioielli? Potrai fare a meno anche di quelli?» domandò, sgranando gli occhi con un’espressione talmente buffa da strappare un risolino ad entrambe.
«Giammai. Di quelli non potrò mai fare a meno, mi piacciono troppo!» esclamò.
La sua risata schietta e divertita fu sufficiente a deviare il discorso dagli ipotetici malanni. L’orafa ne fu sollevata. I malesseri dell’amica erano stati fino ad allora paragonabili a quelli di qualunque donna avesse a che fare giornalmente con stecche, lacci, crinoline e le bizze del clima belga, nulla più. Saperla afflitta da un qualunque male l’avrebbe gettata in un profondo sconforto.
Bussarono e dalle porte entrò una domestica, spingendo uno sbuffante carrello. In realtà la cameriera non spingeva assolutamente nulla: si limitava a sedere su una sorta di sgabellino dotato di ruote, agganciato al carrello. Un minuscolo motore sibilava nascosto dalle gonne, lasciandosi alle spalle fili evanescenti di vapore. Sembrava che a muoverla fosse una teiera gorgogliante.
Era in quei momenti che la ricchezza dei Theeuwen emergeva in tutta la sua opulenza: le raffinate porcellane dipinte, la stoffa ed i pizzi della tovaglietta, i fiori recisi che ornavano i bordi del piano, i manicaretti disposti con eleganza,… in ogni elemento raccontava la grandezza economica dei Theeuwen, come se ce ne fosse bisogno.
Ma al di sopra di ogni cosa, un dettaglio pareva gridare al mondo quanto la famiglia di Namur fosse potente: svariati tipi di biscotti e dolci al cioccolato facevano bella mostra di sé su piattini di porcellana Limoges decorati in oro. Il cacao era molto più che un bene di lusso, era l’essenza stessa, il simbolo indiscusso del prestigio. Presentarne una simile profusione e con tanto sfarzo equivaleva a gridare al mondo intro il proprio benessere economico.
Dimentiche del precedente discorso, le due amiche parlarono a lungo di cioccolato, di moda, delle nuove ricerche in campo metallurgico e litologico, delle tendenze dell’oreficeria e delle serate a cui avevano preso parte di recente. Incontri di quel tipo si svolgevano di frequente fra le due, eppure ogni volta avevano la sensazione di non vedersi da molti mesi e di dover ricucire il vuoto nel più breve tempo possibile.

***

La cameriera si ripresentò quando ormai il buio aveva invaso la stanza e delicate lampade avevano preso a spandere luce dalle pareti. Portò un altro carrello, con cui sostituì il precedente. Questa volta, oltre ai dolci, era stata portata una coppia di bottiglie e dei bicchieri a stelo. Ciò che colpì maggiormente la curiosità dell’ospite fu il contenuto dei calici: un liquido violetto dagli insoliti riflessi paglierini, punteggiato di minuscole bollicine che salivano avvitandosi verso la superficie.
«Kir alla violetta8» spiegò Colombe, la cui voce aveva assunto improvvisamente un tono sognante.
«Kir? Alla violetta?» ripeté confusa l’amica, sporgendosi verso il carrello.
Aveva assaggiato infinite versioni di quella bevanda, ma era la prima volta che sentiva parlare di quella. Cominciò persino a trovare un po’ stucchevole l’ossessione dimostrata da Colombe per il colore viola.
«Mio bell’uccellino, se posso permettermi, ti hanno mal consigliata. Il kir non è affatto un elisir rinvigorente o terapeutico. Anzi, spiegherebbe i tuoi mancamenti».
Eppure, qualcosa le diceva che monsieur Theeuwen non poteva aver deciso senza motivo apparente che la figlia fosse abbastanza matura per quel genere di trasgressione. Altrimenti non avrebbe amato definirlo “un testone ottuso”.
«Da quando tuo padre ti permette di sperimentare l’ebbrezza alcolica? Se non ricordo male, l’ultima volta che tentai di traviarti con una goccia di vino di Borgogna ho rischiato di essere sbranata viva. E in pubblico, per giunta».
«L’ho assaggiato la sera del ballo» sospirò allungando la mano e scrutando sognante il contenuto del calice. «Ho conosciuto un uomo. È stato lui ad ordinarlo per me e non ho potuto declinare l’offerta».
La taumaturga non l’interruppe, limitandosi ad una muta esclamazione con le labbra. L’argomento era estremamente interessante.
«Abbiamo parlato. E danzato».
«E sei sopravvissuta?» la stuzzicò.
Le due scoppiarono a ridere. Colombe aveva la tendenza a soffrire di mancamenti quando si agitava o si trovava in compagnia di sconosciuti. Cosa che, sfortunatamente, accadeva con frequenza crescente da quando i genitori avevano deciso di trovarle un marito ad ogni costo. L’accompagnavano ad ogni ballo, serata di gala o ricevimento possibile ed immaginabile, sfruttando l’ombra ossequiosa che si spandeva ovunque al solo citare il nome dei Theeuwen.
«Ecco… non so come spiegartelo. Non avevo bisogno di parlare. Sembrava capirmi, come se conoscesse già ogni mio pensiero prima ancora che fossi in grado di formularlo» sospirò rapita. «Pensa che si è accorto prima di me che stavo per svenire. Mi ha offerto il braccio, mi ha sorretta ed accompagnata in un salottino tranquillo e ha fatto portare del kir alla violetta. Diceva di trovarmi un poco pallida e che quello era l’unica bevanda che si sarebbe intonata alla mia carnagione ed all’abito che indossavo».
Per qualche istante le due tacquero. Colombe assorta nei ricordi, Lavinia presa nella degustazione di un biscotto d’orzo ricoperto di cioccolato fondente.
«Ecco spiegato il perché di questo peccato di Bacco. Ho proprio sbagliato tutto. Avrei dovuto infilarmi un paio di calzoni per convincere tuo padre che non saresti morta per un po’ di liquore» sogghignò, facendosi subito seria. «Tesoro, non staremo parlando di qualche mentalista da quattro soldi? Ti ricordo che l’intera Europa ne trabocca e che la legge è piuttosto severa nei confronti di questi truffatori. Non potrei sopportare che un approfittatore ti spezzasse il cuore».
«No, puoi stare tranquilla, Lavinia. È una brava persona. Ci ha presentati Madame Renier».
L’onestà e la correttezza della seconda miglior cliente di Lavinia furono sufficienti a convincerla della veridicità dell’affermazione.
«Una cosa seria, dunque. E come si chiama, quest’uomo meraviglioso caduto dal paradiso solo per offrirsi a te?»
«Falier. Sante Falier» rispose, contemplando la bevanda con struggimento.
A quel nome, la donna trasecolò. Tentò di ricomporsi, posando il calice sul tavolino ed interessandosi con forzata noncuranza ai dolci al cioccolato.
Improvvisante, il volto di Colombe s’illuminò di speranza. Conosceva troppo bene l’amica per non aver colto quei segnali.
«Lo conosci?» chiese trepidante.
«L’Ambasciatore di Venezia? Sì e no» rispose, affrettandosi ad addentare una fetta di torta di caramello e cacao, armeggiando con le bottiglie posate lì accanto per prepararne dell’altro per lei sola.
Incurante dell’espressione della giovane, che pendeva dalle sue labbra, tergiversò per lunghi minuti tra paste, kir e biscotti. Non poteva dirle la verità.
Conosceva il rappresentante della Nuova Repubblica di Venezia, sapeva perfettamente chi fosse in realtà. Di certo era un uomo che non passava inosservato, il cui indiscusso carisma ben si sposava all’aspetto ammaliante ed ai modi raffinati. Tuttavia, quello era solo un lato della medaglia, quello nobile ed abbagliante, adatto alla politica ed alle feste. Era l’altra faccia, quella taciuta, nascosta, che avrebbe potuto spaventarla e ferirla.
Proprio per questo si trovava nella situazione più spinosa della sua vita: non poteva rivelarle nulla del suo beneamato, ma, se avesse taciuto, probabilmente l’avrebbe spinta nel baratro di un inutile struggimento.
«Com’è possibile?» pensò, cercando di domare lo sconvolgimento che provava fissando lo sguardo sui colori del proprio abito. «Com’è possibile che di tutti gli uomini sulla faccia della terra, lei abbia perso la testa per lui?»
Le dita di Colombe tremavano lievi stringendo il vetro sottile, in attesa delle parole che Lavinia evitava di pronunciare. Le incrostazioni d’argento mandavano tenui baluginii, seguendo l’aumentare delle pulsazioni del cuore della giovane.
«Credo di amarlo» dichiarò.
Per la prima volta in vita sua, sentì le guance scaldarsi per la felicità.
Il kir andò di traverso a Lavinia, che cominciò a tossire.
«A-amarlo? Per carità, Colombe, ma cosa ti salta in mente?!» esclamò, sgranando gli occhi.
Lei chinò il capo da un lato, poggiandolo sulla spalliera del divano.
Un pettirosso svolazzava lungo la veranda, cercando invano di raggiungere i rami spogli e nodosi dell’acero. Si sentiva come lui, incapace di raggiungere ciò che bramava, pur avendolo dinnanzi agli occhi in ogni momento.
«Lo so. Tu mi reputi una folle, pensi che la mia sia solo un’infatuazione momentanea, un capriccio ma posso assicurarti che è come ho detto» tentò d’insistere timidamente, il cuore che le batteva forte per l’emozione della rivelazione. «Sono innamorata di Sante».
Nel suo sguardo, reso lucido dall’emozione, vagava l’immagine dell’uomo in abito scuro che le porgeva il calice di champagne e liquore. Lo stesso che l’aveva tenuta stretta durante il più soave e romantico dei valzer, nella penombra di una piccola stanza dove la musica filtrava appena. L’uomo di cui aveva respirato il profumo intenso, che le aveva sfiorato il volto col proprio respiro, che l’aveva tenuta stretta rendendola consapevole del proprio corpo per la prima volta in vita sua.
«Ti prego, non chiamarlo per nome. Non sei così in confidenza con lui da potertelo permettere. Nessuno al mondo lo è» obbiettò, sprofondando il volto tra le mani guantate di pizzo.
Colombe sorrise benevola alle rimostranze dell’amica. In un angolo della sua mente era sicura che parlasse per il suo bene, ma allo stesso tempo sapeva che Lavinia non avrebbe potuto comprendere il trasporto che provava ogni volta che ripensava al suo incontro con l’ambasciatore veneziano. L’orafa viveva l’amore da un punto di vista diametralmente opposto al suo: più coinvolgente forse,  ma vissuto alla giornata, preso e consumato al momento come il biscotto che teneva fra le dita. Per lei invece, l’amore era una favola eterna ed assoluta, intessuta di dolcezze, gesti quotidiani, inattaccabile dal dubbio, priva di ombre.
«Lo rivedrai?» domandò appena riuscì a riaversi della sorpresa.
La giovane annuì entusiasta.
«Sì, al ricevimento dai Cooreman».
«Non mi inviteranno mai» sbuffò piccata, l’aria di chi si sente impotente di fronte allo scorrere sordo del destino. «Onde per cui, ti chiedo di farmi una promessa».
La gravità di quelle parole parve incupire la luce nel salottino.
«Dimmi».
Colombe ritenne doveroso dimostrare che non le serbava rancore per l’aperta contrarietà a quella frequentazione.
«Visto che dovrai rivederlo, e che pare averti colpito tanto, e che ho una vaga idea di quanto possa essere difficile sottrarsi al suo magnetismo, non lasciare che ti baci».
Colombe pensò di aver capito male.
«N-non devo l-lasciare che… che mi…»
«Non ti devi far baciare per alcun motivo, chiaro?» continuò, decisa ma calma.
«P-perché?»
«Perché non lo si fa mai prima del terzo incontro» mentì, seguitando a mantenere un tono pacato. «È una regola non scritta, ma va assolutamente seguita, guai a non rispettarla».
Sapeva di passare per una sciocca, ma sperava ardentemente di convincere la ragazza a non farsi trascinare in situazioni disdicevoli. La reputazione di Falier era ineccepibile, qualunque cosa fosse accaduta ne sarebbe uscito a testa alta; ma una giovane in età da marito, che si faceva scoprire in compagnia di un uomo, vittima di un corteggiamento non dichiarato, avrebbe avuto seri problemi. E con lei la sua famiglia. Non poteva permetterlo.
«Colombe, promettimelo, per favore» insisté di nuovo, sporgendosi in avanti e prendendole le mani.
Perplessa da tanta veemenza, Colombe si ritrasse. Era la prima volta che vedeva Lavinia comportarsi a quel modo e ne era spaventata, oltre che addolorata.
«Non posso. Mi dispiace».
«Ti scongiuro… non verrai a dirmi che ha osato…» esclamò sconvolta, strozzandosi con l’ennesima sorsata di kir.
Falier poteva avere dei lati oscuri, ma di certo l’educazione non gli faceva difetto.
«No, Sante è stato un perfetto cavaliere. Non ha fatto altro che tenermi compagnia» confermò, incapace tuttavia di tranquillizzarla. «Però non posso farti questa promessa, perché non posso mantenerla».
La donna si raddrizzò a fatica, litigando con le stecche del busto.
«Che vuoi dire? Vuoi che quello ti baci?»
Si odiava per averlo domandato a quel modo. Era conscia dei romantici desideri che occupavano la mente dell’amica, ma aveva bisogno di sapere.
«Sogno ogni notte l’attimo in cui lo farà» rispose Colombe, arrossendo. «Ma non è il solo motivo» soggiunse.
«E che altro motivo ci dovrebbe essere perché tu non possa mantenere una promessa tanto semplice?»
«Ho acconsentito alla proposta di mio padre di combinare il mio fidanzamento con Sante» spiegò, ostentando un misto di orgoglio e gioia che raramente le era appartenuto.
All’improvviso, le delizie del cioccolato persero d’attrattiva agli occhi di Lavinia.


1 Taido: pietre alte e verticali. Simboleggiano i grandi alberi e, per il loro aspetto fallico, la fertilità. Nei raggruppamenti di pietre all'interno del giardino, vengono disposte verso il fondo, dietro a tutte le altre.
2 Mirra: in aromaterapia serve ad armonizzare mondo spirituale e materiale, infondendo forza ed ottimismo. Aiuta le persone che hanno paura di rivelare i loro sentimenti.
3 Giallo indiano, terra d’ombra: il primo che è un arancione tenue, in cromoterapia ha un’azione riscaldante, rallegrante ed energetica. Induce serenità, entusiasmo, allegria, voglia di vivere, aumenta l’ottimismo, rende positivi sentimenti e le sinergie fisica e mentale. Il secondo simboleggia mancanza di radici e al contempo aiuta ad essere pratici e non dispersivi. È il colore delle persone forti e solide con grande capacità di resistenza e pazienza.
4 Tornure: sellino di crine rigido.
5 Pilulier: tipo di cappellino rigido, detto anche “pillbox” o “a tamburello”. Ornato con nastri, piume e passamaneria, la cui forma ricorda una “scatola da pillole”.
6 Dette kikyaku, sono principalmente pietre prostrate o reclinate. Vengono utilizzate per armonizzare gli altri raggruppamenti di pietre presenti nel giardino. Sono simbolo della terra e sono utilizzate a fini completativi.
7 Komachi: secondo la tradizione giapponese, donna di particolare avvenenza.
8 Kir alla violetta. Il kir è un aperitivo, a base di vino bianco e crema di ribes. In questo caso, la crema di ribes è sostituita dal liquore alla violetta.
   
 
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