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Autore: Adrienne Sunshine    15/06/2012    5 recensioni
Due vite sospese tra sogno e realtà.
Nuove verità, del tutto sconcertanti.
Barbara e Dario, nemici da cinque anni. Nemici inseparabili, sia chiaro.
Lei, ragazza dal cuore puro. Testarda e orgogliosa come poche. E lui, alle prese con problemi troppo grandi per un ragazzo della sua età.
Il destino li sta preparando a qualcosa di più potente? Forse.
Gli amici scommettono su Cupido, mentre loro si dichiarano odio a cuore aperto.
Chi avrà ragione? Lo scopriranno presto.
Anche se si sa, la vita non sceglie sempre il percorso più semplice.
E la loro storia ne è l'esempio più eclatante.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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5. False steps


Betato da Gnesina

 
Mi era sempre piaciuto pensare che chi non fosse più fisicamente raggiungibile, continuasse a vegliarmi dal luogo in cui si trovasse. Questa speranza era una magra consolazione al grande vuoto che queste scomparse, improvvise o previste, fossero solite lasciare.
L’esempio più banale della sofferenza che queste perdite lasciano è l’ostinazione di chi resta nel continuare a non voler utilizzare il termine appropriato, Morte, conciso ed efficace.
Eppure la maggior parte delle persone lo snobba in favore di un più generico “scomparsa”, “perdita”, o “mancanza”.
 Non è certo difficile capirne il motivo, ma io credo di averlo compreso appieno quella notte, quando finalmente mi decisi ad elaborare il lutto.
Nei giorni precedenti, mi ero decisa a ignorare la presenza costante di quello sguardo familiare e stranamente reale, intorno a me; Ma non potevo permettermi di abbandonarmi a una simile illusione, perché lui non poteva essere lì e io non avrei dovuto crederci. Tutto ciò, però, si era rivelato molto più complicato di quanto potessi immaginare.
Dario appariva nei momenti meno opportuni, mentre cercavo di concentrarmi su di una qualsiasi mansione domestica oppure mentre sfogliavo il giornale in cerca di lavoro. E il risultato era sempre lo stesso.
La mia testa scattava come una molla, così come le gambe, che si sollevavano leggermente da terra per lo spavento; Il secchio con l’acqua si rovesciava, e le pagine venivano immeritatamente chiuse con violenza.
Di solito mi risparmiava chiacchiere di circostanza; evitava accuratamente l’argomento “pistola, proiettile, decesso” e mi teneva compagnia nei pomeriggi in cui ero sola in casa. Le uniche eccezioni erano dettate da una mia disattenzione o da un capriccio; a quel punto interveniva Maltese e nei panni di un perfetto moralista mi spiegava dove avessi sbagliato.
Tutto questo era assurdo. Avevo accettato la sua silenziosa presenza con un grande sforzo, senza via d’uscita dal momento che quel ragazzino era ormai una costante ingestibile.
Voleva esserci, perché o per quanto tempo ancora non mi era dato sapere. Era una situazione frustrante, odiavo non capire e, ancor di più, non potergli impedire di partecipare alla mia vita, seppur passivamente.
Non mi restava altro da fare se non ignorarlo, un atteggiamento che lui sembrava a tratti apprezzare. Preferiva essere preso in considerazione quando s’impegnava in una delle sue filippiche su quanto viziata fossi e sullo scarso valore che davo alla vita; discorsi, insomma, dove faticavo a riconoscere lo stesso Dario Maltese che aveva reso gli ultimi cinque anni della mia vita un incubo. Proprio quello che stavo vivendo in quella estenuante situazione di irrealtà, come se aver rimosso i precedenti cinque mesi non fosse stato sufficiente a dimostrargli qualsiasi cosa egli volesse che gli fosse dimostrato.
Il momento in cui però, entrambi preferivamo il silenzio era quello dei pensieri confusi, delle frasi mozzate in gola, della curiosità inespressa. In quei casi, averlo vicino era meno fastidioso e lui sembrava gradire la mia mancata voglia di considerarlo.
Non voleva fornirmi spiegazioni coerenti, niente più di un “Non posso farti niente” o “Mi dispiace”, immancabilmente accompagnato da quello stupido soprannome che sembrava ancora in grado di donargli quel ghigno di scherno che tanto odiavo. Lì ero certa di aver di fronte Dario Maltese, e la cosa non mi era per niente di conforto.
La routine voleva che quel ragazzino impertinente arrivasse nei momenti più imprevedibili e che sparisse quando più gli convenisse. Quello che più mi spaventava, però, era la sensazione di tranquillità che m’invadeva in sua presenza; le mie giornate sembravano costruite attorno alle sue improvvise apparizioni, come se aspettassero solo lui per poter avere inizio.
Ad ogni modo, non avevo smesso di odiarlo. Continuavo a farlo, nonostante lui fosse diventato quella misera figura evanescente, solo per salvare me; scaricavo addosso a lui ogni tensione, ogni più piccola arrabbiatura sebbene spesso non avesse colpe. E, forse, era proprio per questo motivo che riversavo su di lui ogni mia frustrazione.
Avrei voluto litigare con lui per un valido motivo, prenderlo a pugni per essersene andato senza una parola; Ma lui continuava imperterrito nel suo totale rifiuto a raccontarmi come stessero realmente le cose.
La prima domanda che avevo pensato di porgli era perché?, ma anche quella era stata risucchiata dalla strana sensazione di dover parlare con una figura inconsistente, alla quale mi ostinavo a credere, pur consapevole del suo essere irreale e frutto della mia fantasia.
In cuor mio, a dire il vero, ero sicura che nemmeno lui avesse delle risposta chiare da darmi. Quando sarebbe stata pronta, la mia immaginazione gli avrebbe fatto pronunciare la soluzione tanto attesa;
Ma era ancora troppo presto.
Comunque, anche quella notte ero decisa più che mai ad ignorare la sua presenza.
Mi ero ovviamente chiesta cosa lo portasse lì in quell’ora buia del giorno, quando fuori dalla finestra i lampioni rischiaravano le strade e la città risplendeva sotto la luce della luna che dominava il cielo; ma non volevo dargli soddisfazione anche questa volta, abbassandomi a chiedere nuove spiegazioni. Una soddisfazione che lui era convinto, avrebbe prima o poi ottenuto.
 
“Non volevo svegliarti, anche se non ho intenzione di scusarmi per averlo fatto” esordì con i suoi soliti modi educati, un tipo affabile insomma. “Ero solo curioso di sentire cosa farneticassi durante il sonno”.
Non sarebbe stato Maltese se non avesse ucciso quella poca dignità che ancora gelosamente preservavo al fine di non impazzire del tutto. Come sarei mai più riuscita a dormire ora, sapendo che ci sarebbe stato lui in ascolto?
Mi aspettava una notte in bianco, naturalmente.
Ad ogni modo, non demorsi e continuai ad ignorare la sua presenza - un po’ meno le sue parole - fino a che non udii un leggero rumore alla porta. Qualcuno o, per meglio dire, qualcosa stava tentando di rovinarne la vernice con le sue unghiette.
“Credo che Bratz voglia la tua attenzione” fece eco ai miei pensieri Dario. “Sentirà il richiamo del bellissimo nome che porta” continuò imperterrito, deciso ad uccidere la poca pazienza che ancora mi restava.
Per non rischiare di sputargli addosso tutto il veleno accumulato in quei pochi minuti, e quello ancor precedente, mi alzai diretta alla porta. Abbassai lentamente la maniglia per evitare di fare troppo rumore e svegliare così i miei genitori, affacciando solo la testa al di là dell’uscio.
Bratz - e solo Dio sa quanto odiassi pronunciare quel nome, soprattutto se rivolto ad una bestiola - aveva smesso di graffiare la porta e mi fissava con le zampe anteriore sospese per aria. Lo sguardo da cucciolo indifeso, lo stesso che sfoderava ogni qualvolta volesse ottenere qualche coccola.
Lo lasciai trotterellare fino al mio letto, richiudendomi la porta alle spalle. Nel frattempo la piccoletta aveva raggiunto il letto e stazionava lì di fianco, in attesa che la sollevassi per portarla con me sul materasso.
“Non vorrai mica viziarla come te, spero. Potrei pentirmi di avertela affidata, o quasi” ghignò l’infame, consapevole di quanto lo avessi odiato nel momento esatto in cui avevo scoperto la verità su quel bassotto. “Certo, riconosco la mia parte di responsabilità. Dovevo immaginare che sarebbe andata a finire così quando ho deciso di dare alla bestiaccia quel nome, ma non che…” s’interruppe, allargando il sorriso.
Sarebbe stato meglio dire che fui io ad interromperlo, con un piccolo sbuffo. Purtroppo mi resi conto tardi di quel tremendo errore, quando sul suo viso faceva già capolino un’espressione vittoriosa.
Non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere a tal punto dal suo ennesimo tentativo di esasperarmi; dovevo sottostare alle regole che mi ero autoimposta per quei momenti, quelli dove Maltese sembrava di buon umore e in vena di chiacchiere.
I am the champion, mmm” canticchiò, osando profanare la famosa canzone dei Queen. “Non lo sento, ma sono sicuro che il profumo di vittoria aleggia nell’aria. Ti sta accarezzando proprio adesso l’orecchio e sta per urlarti…” rimasi immobile, cercando di ignorare quei passi nella mia direzione, “vincerò!”ululò poi, stordendomi. Una pessima imitazione di Luciano Pavarotti, inconcepibile per me e per il mio povero udito.
Balzai all’indietro, sbattendo contro il letto e cadendo pesantemente sul materasso. Intanto quel vigliacco se la rideva, tenendosi la pancia e non trattenendo la voce grossa che riempì la stanza. Se avesse potuto, ero sicura che avrebbe pianto per quei violenti spasmi che lo pervadevano da cima a fondo. Maledetto, gliel’avrei fatta pagare cara.
In quel momento, mi balenò per la testa un’idea per niente rassicurante.
Maltese voleva la guerra, questo era un dato di fatto. Fisicamente presente o meno, era tutto ciò che aveva sempre voluto e ottenuto da me. Quindi, lo avrei accontentato ancora una volta.
 
“Sai Bratz,” esordii lasciando che il cucciolo di cane si accoccolasse sulle mie gambe, “in queste settimane mi sono affezionata a te contro ogni pronostico.
Piccola e indifesa, trotterelli per casa in cerca di grattini e di qualcuno che giochi con te; in particolare, sembri desiderare le mie attenzioni, e questo mi riempie di una strana soddisfazione”.
Mentre parlavo, mi accorsi che quell’assurda presenza che mi sostava di fronte aveva di poco allungato il collo, in ascolto. E io non avrei potuto chiedere di meglio.
“Mi sono spesso chiesta”,continuai quindi, “se ciò fosse semplicemente dovuto alla tua giovane età oppure se questo dipendesse da una precedente mancanza di affetto. Insomma, posso solo immaginare cosa volesse dire vivere con quel ragazzino; non deve essere stato per niente facile dover condividere con lui gioie e dolori” terminai, sfoderando lo sguardo più commiserevole che avessi in repertorio.
 
“Stronza” lo sentii mugugnare in risposta. E il sorriso si allargò sul mio viso.
 
Al termine di quella piccola schermaglia e decisa più che mai ad ignorare la presenza ingombrante di Maltese, mi riaddormentai con Bratz accoccolata ai piedi del letto.
Inizialmente non era stato facile fingere che Dario non fosse seduto sulla poltrona, poco distante da me; poi, però, non avevo avuto scelta e il sonno mi aveva vinta, ancora troppo stanca per poter restare vigile.
Stranamente, non avevo sognato alcunché. La mia mente era svuotata di ogni pensiero e turbamento, il mio cervello aveva deciso di concedermi un riposo sereno e certamente meritato.
“Barbie” udii una voce distante chiamarmi. “Barbie, alzati o faremo tardi”.
Mia madre irruppe in camera, spegnendo il pesante sbuffo di aria fredda che rendeva quell’estate afosa sopportabile e spalancando la finestra, lasciando che i caldi raggi del sole mi svegliassero definitivamente.
 
“Mmm, ancora dieci minuti” tentai, invano, di girarmi dall’altro lato; ma la signora Gaiti non era così facilmente intortabile e mi fece rotolare senza remora giù dal materasso.
 
“Li hai sprecati cadendo dal letto, che peccato” esclamò, falsamente dispiaciuta per avermi riservato un risveglio tanto crudele. “Adesso alzati e scendi a far colazione. Così poi potremo uscire” ed abbandonò la mia stanza, lasciandomi a terra, ancora avvolta nel lenzuolo.
Fortunatamente, quella mattina Maltese sembrava aver deciso di non voler violare la mia privacy, qualcosa che avevo ormai perso da tempo, viste le sue continue ed improvvise incursioni nel mio mondo.
Da quando erano cominciate quelle strane visite, lo stress psicologico a cui ero stata sottoposta mi aveva impedito persino di ricavarmi un angolino privato tra i miei pensieri. Avevo il terrore che lui potesse entrare anche nella mia testa, oltre che apparire dal nulla comodamente adagiato sulla poltrona che avevo in camera; e se così fosse stato, avevo paura di cosa avrebbe potuto leggervi.
Per evitare di soffermarmi troppo su questioni angoscianti o pensieri che riguardassero quegl’ultimi cinque mesi, avevo persino cominciato a scrivere un diario. Annotavo ogni cosa, i particolari più minuziosi di cui volevo ricordarmi a distanza di tempo; tutto aveva un senso e tutto andava incastrato tra carta e parole.
Riuscii a portare avanti questo progetto per pochi giorni; poi subentrò il terrore di essere scoperta.
Mi comportavo come una criminale in latitanza, scrutando la stanza alle mie spalle una decina di volte prima di piegare la testa sulla pagina bianca e risollevandola pochi secondi dopo per un ultimo rapido controllo.
Ero spaventata da un suo possibile arrivo, le solite improvvisate che mi lasciavano con il fiato sospeso e il cuore appeso alle corde vocali. Odiavo essere presa alla sprovvista e questo sembrava renderlo euforico; la nuova capacità di comparire dal nulla lo entusiasmava a tal punto da indurlo ad attentare alla mia sanità mentale più e più volte durante il giorno. Insopportabile.
Il più delle volte mi era capitato di pensare a Maltese come ad un bambino troppo cresciuto. Età cerebrale pari a due anni e fisico di un ventenne.
Purtroppo quel suo aspetto era l’unico che non avevo mai potuto mettere in discussione. Era un bel ragazzo, tenebroso e affascinante come il peggiore degli stronzi; i muscoli erano fasciati da una carnagione olivastra che si scontrava con il verde di quegl’occhi furbi e penetranti. La bocca leggermente carnosa era da sempre un invito esplicito per tutte quelle oche che amavano sguazzare nel suo stagno; stagno nel quale sicuramente avrei fatto anch’io un tuffo se solo non si fosse trattato di quel ragazzino insolente.
Forse era per questo, che alcune voci insistenti mi volevano protagonista di una bizzarra infatuazione nei confronti di Maltese. Chi non lo sarebbe stata a prima vista?
Qualche temerario aveva persino azzardato il termine amore, prima di incorrere nella mia ira funesta e nello sguardo ammonitore del mio compagno di classe. Oltre a questo, però, Dario aveva sempre mostrato indifferenza di fronte ad ipotesi del genere. Probabilmente era cosciente dell’odio reciproco che ci impediva di comportarci come due persone civili; e io non potevo che trovarmi d’accordo con lui, sebbene il mio spirito battagliero mi impedisse di mostrare lo stesso grado di noncuranza.
 
Naturalmente, come in fondo ogni altro essere umano, Dario non era perfetto.
Aveva la tendenza ad ingrassare non appena allentasse un po’ i ritmi della dieta, cosa che lo aveva portato a passare gli anni del liceo più in palestra che sui libri. La carnagione scura e lo spigoloso taglio del viso gli conferivano un aspetto duro e un poco più adulto della sua età, cosa che ero convinta gli facesse un gran piacere. Il calcetto della domenica pomeriggio era la sua unica debolezza sociale.
tutto sommato, però, non si trattava di nulla che compromettesse la sua immagine di “bello e dannato” che tanto mandava in brodo di giuggiole le ragazzine assatanate.
Il problema era solo uno. Nessuna di loro lo conosceva.
Con questo non volevo certo proclamarmi unica intenditrice della specie Maltese, lungi da me farlo.
Solo che, con il passare degli anni e con il maturare dei nostri battibecchi, ero arrivata al punto di poter dire di conoscerlo per come fosse veramente.
 
 “Se non scendi subito, inforco la scopa e ti costringerò a stringere amicizia con il manico. Sono stata chiara, Barbara?” Forse era giunto il momento di lasciare quel lenzuolo a cui ero ancora aggrappata e, con lui, i pensieri per raggiungere mia madre al piano di sotto. Non mi piaceva molto l’idea di essere suonata come un tamburo da quella donna, soprattutto appena sveglia. 
Così mi trascinai svogliatamente fino in cucina, dove mi attendeva la colazione pronta in tavola. E mia madre, con il piede che batteva furiosamente a terra.
 
“Ho dormito male questa notte, avevo bisogno di recuperare” tentai di inumidire gli occhioni e di sbattere le palpebre più del necessario.
 
“Mi pareva ti chiamassi Barbie, non Bambi” mi sorrise lei, fintamente.
 
“E questo cosa…? Oh, hai mangiato pane e simpatia per colazione, mamma?” L’assurdità delle battute di mia madre a volte mi lasciava esterrefatta. Solo lei poteva ricollegare il soprannome con cui erano soliti chiamarmi tutti al modo da cerbiatta indifesa con cui avevo agitato le ciglia lunghe. E, in questo caso, non si era nemmeno impegnata per dare il peggio di sé!
 
“Sbrigati a mangiare, altrimenti faremo tardi come al solito. E sempre per colpa tua, naturalmente” sentenziò mia madre, chiudendo definitivamente il discorso. Peccato che ancora mi sfuggisse un particolare…
 
“Posso sapere dove siamo attese, signor colonnello?”
La donna che avevo di fronte mi riservò dapprima un’occhiataccia, probabilmente infastidita dalla mia sbadataggine; poi sembrò rifletterci sopra e ammorbidì lo sguardo. Me lo aveva detto lei stessa, poche settimane prima. “Sai cosa le hai risposto? Sopravvivo.”
Quindi non era poi così strano che la mia mente avesse rimosso anche quel dettaglio.
 
“Dai signori Maltese, per accudire la figlia mentre loro sono a lavoro”.
La figlia, la sorella di Dario che io non sapevo neppure esistere.
Forse allora non era così corretto dire di conoscere quel ragazzino, perché in realtà nemmeno io sapevo molto di lui e della sua vita al di fuori della scuola e della gang.
“Ci prendiamo cura di lei da qualche mese. Prima era Dario a pensare a lei, quando i genitori non potevano. Giada ha quattro anni e frequenta la scuola materna; quindi per lui non era un problema frequentare le lezioni la mattina e poi occuparsi di lei. Naturalmente adesso l’asilo è chiuso per le vacanze estive e la bambina necessita di qualcuno anche alle prime ore della giornata” finì di spiegarmi mia madre, consapevole del fatto che non ricordassi nulla dei mesi precedenti.
 
“Oh” mi limitai ad annuire.
Tornai in camera, dove finii di prepararmi per raggiungere casa Maltese. Poi raggiunsi nuovamente mia madre e, insieme, ci dirigemmo verso la nostra meta.
Durante il tragitto, rimuginai molto su quanto scoperto solo poco prima. Ripensai a quanto ipocrita fossi stata nel credermi una di quelle persone vicino a Dario, anche se negativamente. A quell’idea, ebbi uno strano vuoto allo stomaco, come se mi avessero privata di una certezza sino ad allora consolidata.
In fondo, con Maltese non avevo mai stretto un legame da grandi amici; banalmente, ero la sua peggior nemica… forse.
Se non potevo dire di conoscerlo, come avrei potuto pretendere di sapere chi rientrasse nella categoria di persone da essere tanto importanti da meritare un superlativo relativo?
L’unica cosa di cui fossi certa al momento era l’inspiegabile desiderio che lui confermasse quel pensiero; avevo bisogno disapermi la sua peggior nemica.
“Essere stata” probabilmente sarebbe stato più corretto, ma questo proprio non riuscivo ad accettarlo. Lui continuava a vivere nei miei pensieri, questo non sarebbe mai cambiato. Se anche io non fossi stata la sua peggior nemica, lui sarebbe sempre rimasto il mio peggior nemico. Di questo ero stranamente certa.
 
“Sai, l’altro giorno, mentre tu eri a casa per via di quel capogiro nel camerino” mia madre interruppe la catena di pensieri che mi aveva accompagnata per gran parte della strada, “la signora Maltese mi ha confessato una cosa” si voltò a guardarmi negli occhi, in cerca probabilmente di un cenno d’assenso per continuare o di un lampo di curiosità sfuggito al mio sguardo. Trovò qualcosa, perché continuò.
“Mi ha detto quanto sia felice che tu ti prenda cura della piccola Giada, insieme a me. Averti per casa, anche se per poco tempo al suo rientro, le fa bene al cuore. Le ricordi piacevolmente quello scapestrato di suo figlio e le dai la certezza di aver insegnato a suo figlio…”
Non ebbi modo di ascoltare le ultime parole di mia mamma perché qualcosa mi distrasse.
Maltese si era silenziosamente accostato a me e, nel momento meno opportuno, aveva urlato qualcosa che non compresi. Il difficile venne quando dovetti spiegare alla donna che mi stava affianco a cosa fosse dovuto l’urlo di rimando che aveva provocato il forte spavento.
 
“Scusa, un insetto” le sorrisi fintamente, sperando che mi credesse.
 
“Santo cielo, Barbie! Così finiranno per rinchiuderti in un manicomio, altro che ricovero di qualche giorno per esami di routine” sospirò lei, alzando gli occhi al cielo e deviando su di un vialetto.
Non capivo di che esami stesse parlando, ma decisi di rimandare a dopo. In quel momento, mi premeva concludere il discorso iniziato poco prima.
 
“Dicevamo?”cercai di riprendere il filo della conversazione . Fu in quell’istante che mi ricordai del ragazzino impertinente che avevo accanto. Maledetto, pensai prima di rivolgere nuovamente l’attenzione a mia madre.
 
“Un’altra volta, Barbie. Siamo arrivate” mi rispose la signora Gaiti, prima di suonare il citofono a cui rispose una gentile voce femminile.
 
“Entrate pure” e il cancello all’ingresso si aprì.
 
“Tratta bene mia sorella. Buon divertimento, Bratz” Dario le strizzò l’occhiolino e svanì nel nulla, così come era apparso. Ed io mi trovai costretta a seguire mia madre all’interno di quella villetta che mai avevo veduto in vita mia. Stavo entrando nella casa del mio peggior nemico.
 
L’interno di casa Maltese si presentava come un ambiente accogliente, completamente differente dallo stile poco curato di Dario. All’ingresso spiccavano diverse fotografie appese e incorniciate da piccoli quadretti, molte delle quali raffiguravano una donna di giovane aspetto con in braccio due bambini. La più piccola indossava sempre eleganti abitini di raso e cotone; il bambino aveva i jeans sporchi di fango e i capelli disordinati. Solo un’istantanea sembrava aver immortalato un raro momento in cui tutta la famiglia Maltese fosse composta ed unita, dove i sorrisi fossero spontanei e contagiosi.
Nessuno scatto nel quale Dario fosse più grande dei quindici anni; solo fotografia della sorella più piccola che pian pianino cresceva sotto gli occhi di genitori orgogliosi a cui però sembrava mancare qualcosa. Il figlio probabilmente, sebbene fosse stato il padre stesso a cacciarlo di casa.
La signora Maltese ci attendeva in cucina, dove era intenta a preparare il pranzo che avrebbe lasciato per la figlia.
 
“Salve, signora Gaiti. Scusi il caos, ma sono in un tremendo ritardo e stamattina abbiamo un’importante riunione di lavoro” sorrise lei a mia madre, scusandosi. “Barbara” aggiunse poi a mo di saluto, passandomi affianco ed allargando il sorriso.
 
“Signora Maltese” risposi quindi io, titubante.
 
“Oggi temo ritarderemo entrambi nel rientrare a casa. Se per voi è un problema, potete lasciare Giada a casa della signora Belli, qui di fronte. Passerò a prenderla non appena arrivo”.
Si leggeva nel suo sguardo, lasciare la figlia in mani pressoché sconosciute la rendeva inquieta; purtroppo però non poteva farne a meno, non dopo quel maledetto 9 Febbraio. Quel giorno, l’unica persona a cui la signora Maltese avrebbe affidato la figlia se n’era andata per sempre.
 
“Mi spiace, ma oggi proprio non…”
 
“Me ne occupo io”. Mia madre s’interruppe e tre paia di occhi si puntarono su di me.
La mia genitrice mi guardò dubbiosa, chiedendomi una silenziosa conferma che ricevette dal mio sorriso accennato; la signora Maltese traboccava di riconoscenza, non smettendo un solo secondo di domandarmi se ne fossi certa e ringraziandomi ad ogni “sì”.
Dario, riapparso all’improvviso alle spalle delle due donne, mi fissava con sguardo indecifrabile. Sembrava impegnato a capire cosa mi avesse spinta ad accettare di occuparmi di sua sorella, nonostante mia madre stesse per rifiutare. In verità, nemmeno io ero sicura del motivo per cui l’avessi fatto.
Le parole erano uscite da sole; indipendenti e libertine, avevano ignorato i pensieri di fuga che mi affollavano la mente. Qualcosa, un sentimento sconosciuto, mi aveva indotta a prendermi quell’impegno senza esitazione. Volevo avere un po’ di tempo per capire quel mondo a me sconosciuto; il mondo nemico, che solo allora capivo essere tutt’altro. Non mi piaceva essere una ragazzina ipocrita che pretendeva di conoscere la sua vita e di farne parte senza esserlo stata davvero. Dopo quel pomeriggio, avrei potuto finalmente dire di conoscere, anche se infinitamente poco,  il mondo Dario Maltese.
E, senza rendermene ancora una volta conto, avevo lasciato che un’altra crepa solcasse la corazza che mi ero costruita intorno. Stupido impiccione!
Avevo notato il suo sguardo e, anche se involontariamente, avevo fatto un altro passo falso rendendolo partecipe del mio interno turbamento.
 
La giornata si svolse tranquillamente fino all’ora di pranzo, quando mia madre mi chiese di far mangiare la piccola Giada. La bambina aveva quattro anni, quindi era in grado di imboccarsi da sola; nell’ultimo periodo però, da quando il fratello l’aveva lasciata sola, lei sembrava non avere un grande appetito.
Per questo motivo la signora Maltese si raccomandava spesso di tenerla sotto controllo durante le ore dei pasti, per evitare che questa li saltasse completamente o che giocasse con il cibo per evitare di nutrirsi.
 
“Ehi Giada, il pranzo ti aspetta” la incitai, entrando in salotto dove lei stava guardando i cartoni animati alla tv. “Forza, andiamo di là, altrimenti si raffredda” continuai sorridendo, sperando di convincerla.
 
“Non posso. Sto guardando questo” mi rispose lei, indicando lo schermo illuminato.
 
“E’ un vero peccato, sai? Perché oggi la mamma ti ha preparato il pollo che piace tanto a te”.
Due grandi occhi verdi si puntarono addosso a me che, sorridendo vittoriosa, la invitai con la mano a precedermi; lei, non potendo resistere al richiamo della sua pietanza preferita, scese a tentoni dal divano e afferrò il telecomando per spegnere la televisione. Prima di compiere quell’ultimo gesto, però, mi fissò ancora una volta e mi disse: “Tu accendi la tele in cucina, così io spengo qui”.
 
“Ma non si mangia con la tv accesa tesoro. Ne guardi già tanta la mattina e durante la merenda delle quattro.” tentai di dissuaderla, abituata ai rimproveri di mia madre che mai aveva permesso una libertà simile se non per guardare lei il telegiornale con mio padre.
 
“Dario guardava sempre i cartoni con me, quando mangiavamo”. E, per l’ennesima volta in quella stessa giornata, un peso all’altezza dello stomaco mi impedì di replicare e finii per accontentare la piccola.
Dario mi avrebbe rovinata di quel passo; la sua assenza-presenza non era affatto salutare per me, ma ancor meno lo erano tutte quelle persone di cui mi ero circondata e che non facevano altro che ricordarmelo.
Mia madre aveva ragione. Il manicomio mi avrebbe presto accolta a braccia aperte.
 
Nel pomeriggio la mia genitrice si affrettò verso il supermercato, dove aveva promesso che avrebbe fatto un po’ di spesa per i Maltese prima di scappare dai miei nonni, l’impegno per cui era stata costretta a rifiutare di occuparsi della piccola Giada, oltre il solito orario.
Così decisi di visitare la casa, mentre la sorella di quel ragazzino dormiva beatamente nel suo lettino.
M’introdussi nella camera di Dario in punta di piedi, sperando che Giada non si svegliasse proprio in quel momento. La stanza si affacciava su di un fazzoletto di erba verde, probabilmente mantenuta in vita da un irrigatore; avevo da poco scoperto della passione del signor Maltese per la botanica, un hobby che mai avrei ricollegato al padre di un teppista come Dario.
La madre invece si limitava a coltivare i gerani sul balcone, non senza il tempestivo intervento dell’uomo di casa nel caso di un improvviso peggioramento.
La tapparella era di poco alzata, il giusto per lasciare intravedere il tronco dell’albero in giardino e nulla più. Era evidente la silenziosa gelosia con cui la signora Maltese custodisse quella stanza, lì dove aveva dormito, giocato e pianto il suo primogenito. Lì dove non era stata casa sua, nemmeno  prima di andarsene per sempre.
L’armadio a muro era stato lucidato di recente, probabilmente il giorno prima al rientro dal lavoro. Gli indumenti erano perfettamente ordinati al suo interno, lasciando quasi intendere che qualcuno li avrebbe potuti usare in qualsiasi momento. In realtà, entrambe sapevamo che nessuno avrebbe più toccato una sola maglia tra quelle riposte nei cassetti.
La scrivania era lucida e vuota, fatta eccezione per un portapenne appoggiato sul lato sinistro del piano, al suo interno un pennarello indelebile e una penna nera. Un classico indizio di quella che era stata la vita di Dario.
Quel ragazzino non era mai stato avvezzo alle fotografia e nessuno era così legato a lui da spedirgli cartoline dai luoghi di villeggiatura dove trascorreva le vacanze. Quindi non mi stupii troppo nel non trovare tracce di colla sui muri o sull’armadio, dove io ero solita attaccare gli scatti fatti in compagnia.
A catturare la mia attenzione fu l’angolo colorato di un cartoncino che spuntava dall’agenda pasticciata appoggiata accanto al portapenne. Mi avvicinai per indagare meglio e scoprii l’unica istantanea presente in quella bolla privata di caos e maniacale disperazione.
La fotografia ritraeva Dario con una buffa espressione e i capelli scompigliati ad incorniciargli il viso. Il colletto della sua maglia era sollevato verso l’alto, strattonato da due mani molto più piccole delle sue, che stringevano a loro volta le dita sottili della ragazza che gli stava di fronte nel vano tentativo di strapparle la stoffa dalle grinfie.
Leinel frattempo sembrava agguerrita, poco intenzionata a restituirgli l’aria che, con quella morsa al collo, gli stava togliendo. Un sorriso sadico dipinto sulle labbra, la determinazione negli occhi.
Avrei potuto anche indovinare chi si nascondesse dietro l’obiettivo. Floriana aveva immortalato quel momento, convinta che avrei voluto avere un ricordo di quella clamorosa vittoria contro Maltese. Peccato che quest’ultimo le avesse strappato di mano l’istantanea non appena libero della mia stretta e del mio ginocchio tra le gambe che lo costringeva quasi a terra.
Da quel momento in poi, non avevo più saputo che fine avesse fatto quella fotografia.
Proseguii l’ispezione della camera con un peso all’altezza del petto, una sensazione inspiegabile per me. Rovistavo con lo sguardo tra i pochi soprammobili e i numerosi poster appesi sopra la testiera del letto, senza mai toccare nulla per paura che qualcuno se ne accorgesse. In realtà, la paura più grande e inconscia che avessi era quella di risvegliare le allucinazioni che mi accompagnavano da settimane ormai.
Mi ero abituata a quell’insolita presenza, una costante nella mia vita che aveva cambiato molte cose. Avevo affrontato un periodo di assestamento, in cui mi ero dovuta convincere di non essere uscita di senno; poi tutto era tornato più o meno nella norma quando mi ero decisa ad ignorare la sua figura.
Se fosse scomparso all’improvviso, così come era riapparso nella mia vita dopo quel tragico incidente, non avrei saputo come reagire; Non avrei potuto sopportare una seconda volta lo stesso sordo dolore, non dopo che la prima fosse già risultata sufficientemente disastrosa per me e le persone al mio fianco.
Fu mentre pensavo a tutto questo, continuando a guardarmi distrattamente intorno, che notai un piccolo pacchetto adagiato sul comodino accanto al letto. Probabilmente la signora Maltese non aveva avuto il coraggio di toccare niente se non per dare una leggera spolverata e richiudere così la porta di quel piccolo tempio.
Mi accostai al mobile e sfiorai con la punta delle dita la carta regalo rossa, diversa dal verde spento del mio diciassettesimo compleanno. Quella piccola scatola sembrava essere stata impacchettata con maggior cura, come se custodisse qualcosa di importante agli occhi di chi l’avesse incartata.
 
“Il regalo per i tuoi diciannove anni”, la voce di sempre alle spalle. “Perdona il ritardo. Auguri, Bratz”.
E, ancora una volta, era ritornato da me. Un altro passo falso, l’ultimo in quello strano e altalenante rapporto di odio reciproco.
 




Non è un miraggio, giuro!
Ho aggiornato (non so come, ma l’ho fatto) e adesso sono pronta a farmi tirare le uova.
Dunque, qui vediamo qualcosa in più del rapporto tra Dario e Barbara, ma scopriamo anche che questo bel fanciullo ha lasciato una mini-Maltese tutta sola soletta e di cui adesso deve occuparsi Barbie.
Inoltre ci sono diversi passi falsi che la protagonista commette e che, nel prossimo capitolo, la porteranno a reagire in un determinato modo (che, naturalmente, non spiegherò adesso. Sono sadica, sì!)
Passando alle questioni più pratiche, ogni tanto noto dei piccoli cambiamenti tra seguite, preferite &co. Mi piacerebbe sapere, anche per via privata, cosa vi spinge a cambiare idea. Giusto per averne un’idea e migliorare in ciò che non vi piaccia, se possibile.
I pareri lasciati sottoforma di recensione fanno sempre piacere, sarei un’ipocrita a negarlo, ma mi accontento tranquillamente di un messaggino privato in cui mi dite “Mi fa schifo questo, questo e quest’altro!” ;)
 
Intanto un grazie speciale ad Agnese, che ha betato il capitolo, e a Greta che ormai vanta la nomina di mia consulente personale nonché fanciulla che ascolta le mie paranoie. Sante donne, io e la mia pigrizia ve ne siamo grate!
Grazie anche alle 16 persone che hanno inserito la storia nelle preferite, le 6 nelle ricordate, le 32 nelle seguite e le 5 che mi hanno tra gli autori preferiti. Per me è tantissimo, come tante sono le 21 recensioni che mai mi sarei aspettata.
Spero di continuare a meritare tanto.
 
Alla prossima, sebbene un po’ in ritardo per via della maturità.
Un bacio grande,
Adrienne

  
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