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Autore: Nyappy    18/06/2012    4 recensioni
«Hippolyte?» La voce di lei interruppe i suoi pensieri. «Stavi dicendo…?»
Lui non riuscì a trattenere un sorriso. Piccola impertinente. «Avete una splendida collana di smeraldi che sfiora i primi lacci del vostro vestito.»
Quello era il loro piccolo rituale mattutino, un gioco innocente che nessuno poteva rubare loro, l’unico vezzo di Camille.

[Ambientazione pseudo-storica, collocabile tra il XVII e il XVIII secolo] [Accenni a relazioni incestuose, pur trattate marginalmente]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Wunderkammer

«Oggi avete le perle tra i capelli.»
Camille inclinò il capo e gli sorrise, congiungendo le mani davanti al viso. Era il suo modo per chiedergli di proseguire.
Lui si voltò e scostò le tende leggere, l’unico elemento moderno in quella camera di antichità, a parte loro due. Si specchiò nel vetro impolverato: aveva ancora gli occhi arrossati dalla sera prima, dalla discussione che aveva avuto con i genitori. Si sentiva un bambino nel ricordare la discussione. Contrasse le labbra e trattenne un sospiro: aveva ancora una possibilità, per quanto disperata. Chiuse gli occhi e distese il viso; si passò una mano tra i capelli neri per ravvivarli – gesto inutile.
«Le vostre labbra sono più rosse delle amarene» continuò. Aprì la finestra e lasciò che l’aria fresca gli accarezzasse il viso e lo lasciasse respirare; l’odore di polvere e antico della camera non gli dispiaceva, ma quel giorno lo opprimeva.
«Sono convinta che tu non abbia scelto le amarene a caso.» La voce di Camille era bassa, appena udibile. Il ticchettio dei mille orologi di quella stanza rischiavano quasi di sovrastarla.
«Non sbagliate.» Lui si voltò e si accorse di aver contratto ancora le labbra, un movimento involontario che gli riportava alla mente le discussioni e le preghiere della madre.
“Non approfittare della tua fortuna!” Scosse il capo come per cacciare quelle parole. “Non avere niente a che fare con i Morel!”
«Mi reputi così cattiva?» Il sorriso di Camille era civettuolo e curioso, anche se stava soffocando, lo stavano facendo in due.
Lei era seppellita nelle trine e nei gioielli, tra i fiori intessuti nel broccato color panna e le perle; lui non riusciva a respirare, deconcentrato da quella stanza e da lei.
«Non voi» replicò, avvicinandosi di un passo. Non era Camille ad essere cattiva, era… il resto. Nemmeno lui era buono; abbassò lo sguardo nel ricordare i primi pensieri che aveva fatto su di lei, il pezzo più unico della collezione pluricentenaria di quella stanza.
Mentre stava per aprire bocca di nuovo, un ticchettio più pronunciato degli altri attirò la sua attenzione. Sotto alla finestra, sul tavolino di legno lucido mangiato dai tarli, le lancette di un orologio da taschino in argento avevano iniziato ad accelerare.
«È un nuovo pezzo che ha portato mio fratello questa mattina, viene dalla Spagna» lo informò Camille, con l’ombra di quel sorriso ancora sul viso.
Non era mai stato in Spagna. Bastò quel pensiero per renderlo di nuovo cosciente della stanza in cui si trovava – soffocante. Prese un respiro profondo e i suoi occhi si persero negli intagli floreali di quel tavolino, nell’acanto reso con dettaglio bizantino nel legno, foglia per foglia, piega per piega. Le sue scarpe stavano quasi affondando in quel tappeto, così morbido da ricordargli un cuscino – e così polveroso. Si sarebbe ricordato per sempre l’odore di quella stanza, vecchio e nuovo, di foglie e animali, di elementi chimici e della pelle di Camille.
«Hippolyte?» La voce di lei interruppe i suoi pensieri. «Stavi dicendo…?»
Lui non riuscì a trattenere un sorriso. Piccola impertinente. «Avete una splendida collana di smeraldi che sfiora i primi lacci del vostro vestito.»
Quello era il loro piccolo rituale mattutino, un gioco innocente che nessuno poteva rubare loro, l’unico vezzo di Camille.
Lei chinò appena il capo ed il suo sorriso si fece più ampio. Sollevò una mano per sfiorare le gemme che le impreziosivano lo scollo del vestito. «Poi?»
La pelle candida del suo collo assomigliava a quella delle bambole dai visi di avorio o porcellana, con i vestiti soffocanti come i suoi.
Hippolyte si inginocchiò davanti a lei e prese un respiro profondo. La figura di Camille gli nascondeva i serpenti attorcigliati nei barattoli di vetro, gli scaffali colmi di boccette e il cincillà Robert, l’ultima opera del tassidermista di fiducia dei Morel.
Allungò una mano per sfiorarle la guancia. «Avete una piccola perla che scende ad accarezzarvi la fronte.» Una gemma del mare candida come quella intessuta nei suoi capelli castani.
«Mi sembri più materialista del solito» notò Camille con leggerezza.
Lui sbatté gli occhi.
«Hai lodato i miei vestiti, non me» continuò lei inclinando il capo.
«Perdonatemi.» Hippolyte le appoggiò le mani sulle ginocchia – non l’avrebbe potuto fare, ma quello era un loro segreto – e si sporse per darle due baci leggeri sulle palpebre. Le ciglia di Camille gli solleticarono il viso. Chissà se li avrebbe aperti – forse sì, forse no.
Lei corrucciò le labbra. «Devi proprio andare?» Sollevò una mano e lui la strinse nella propria, la guidò sul proprio viso.
«La biblioteca mi reclama.» Hippolyte chiuse gli occhi. La pelle di Camille sulle sue guance era morbida e tiepida, e anche se si conoscevano da mesi, il suo tocco non smetteva di essere delicato. Perdeva tutta la spavalderia che mostrava con le parole.
«Ci incontreremo domani?» Lei aprì finalmente gli occhi e Hippolyte le guidò il viso perché quelle pupille vacue lo fissassero ed incontrassero le sue. Gli smeraldi che le ornavano il collo potevano solo invidiare i suoi occhi.
«Domani» promise lui. Non doveva tremargli la voce, sapeva di essere un pessimo bugiardo.

«Mi avete riportato il volume che vi avevo prestato?» La figura di Donatien Morel si stagliava sul cielo livido fuori dalla finestra; Hippolyte avrebbe voluto vederlo in viso.
Lui annuì e aprì la borsa di cuoio; quella mattina aveva dato un’ultima letta al libro per poi infilarlo tra due strati di giornali, in modo da proteggerlo. Lo estrasse e lo appoggiò sul tavolo, accarezzandone il dorso per l’ultima volta.
Donatien si stava sistemando i polsini della giacca. Terminò la sua opera e passò al ravvivare il jabot, prima di voltarsi verso di lui, senza guardarlo, Hippolyte lo sapeva.
«L
’ho lasciato sul tavolo» spiegò per gli occhi ciechi delluomo. Deglutì. Ora lui poteva andarsene: aveva usufruito della biblioteca dei Morel, il giorno dopo avrebbe ricevuto la laurea e sarebbe sparito dalla loro vita – no.
Camille.
«Monsieur Morel, volevo chiederle…» Hippolyte si fermò subito.
«No.» Donatien gli diede le spalle e incrociò le braccia. Non si era ancora voltato verso di lui
non gli aveva ancora prestato davvero attenzione.
Era per i soldi che non poteva sperare di entrare nella loro famiglia? Persino dalla stoffa tesa del gilet di Donatien si poteva comprendere la sua condizione agiata, mentre il suo era un completo grigio da pochi soldi, con le ginocchia bianche per la polvere del tappeto.
«Voglio sposare sua sorella.» Hippolyte alzò gli occhi per guardarlo. Non aveva timore di lui, non doveva averne. Strinse i pugni e raddrizzò le spalle. Aveva ancora una speranza.
«Non possiedo alcuna sorella» sibilò l’altro. Sciolse le braccia e recuperò il bastone che aveva appoggiato al muro.
Hippolyte strinse gli occhi. Quell’uomo non gli era mai piaciuto, anche se gli aveva concesso di accedere alla biblioteca del maniero; per ragioni di quieto vivere, ovviamente: dovevano ricordare ai cittadini di non essere mostri. Dovevano convincerli di non esserlo. «Esatto, non la possiede, ma Camille esiste» ribatté.
«Esca subito e potrà avere salva la vita.»
Fu allora che gli tornarono in mente le parole della madre, della nonna, del fratello, la sera prima. Gli avevano ricordato che i Morel erano maledetti – come se ce ne fosse il bisogno. “Luridi incestuosi” aveva sibilato la nonna, come se parlarne fosse un’offesa a Dio.
“Il loro sangue è maledetto!” Non si sposavano e non seppellivano i loro morti, rimanevano segregati nella loro roccaforte in cui pochi osavano entrare. Hippolyte ce l’aveva fatta – e aveva trovato Camille.
«Mi sono innamorato. Sa cosa vuol dire?»
«Di un’invalida.» Come se anche Donatien non fosse storpio, come se tutti i Morel non avessero la malattia mescolata al sangue. Come se anche le membra dell'uomo, così come quelle di Camille, non fossero intaccate da qualcosa che non avevano commesso, ma che Donatien difendeva.

«Di una splendida creatura» lo corresse Hippolyte, conficcandosi le unghie nei palmi. «Mi sono disgregato, ho cessato di esistere e sono entrato nel suo cosmo.» Era entrato nella vita di Camille come un ninnolo, un nuovo giocattolo con cui interagire, poi era diventato di più.
Camille non era una bambina, non voleva un giocattolo: era una giovane donna e bramava l’amore, anche se non lo conosceva.
«Mi sono innamorato – non di un volto, di un nome, di una voce, ma di un tutto. Non riesco a distinguere dove finiscono le carezze ed iniziano le parole.» Dove iniziavano le loro ricerche di meraviglie in quella camera polverosa e dove le risate, dove i respiri vicini e le discussioni su un libro trovato per caso che Hippolyte le leggeva.
«Siete disgustoso.» Donatien colpì il pavimento con la punta metallica del bastone, facendogli venire i brividi.
Non si sarebbe fatto spaventare così facilmente. «Sono finalmente vivo» disse, ed solo in quel momento realizzò quanto fosse vera quella cosa. Camille gli aveva fatto dimenticare tutte le notti che aveva passato chino sui libri, solo, con una coperta sulle spalle. Camille gli aveva fatto scoprire la lettura ad alta voce, i perché, i colori – li aveva visti per la prima volta solo quando aveva dovuto spiegarli a lei.
«Camille non esiste per il mondo.» Donatien era teso, pronto a scattare su di lui da un momento all’altro, anche se c’era un tavolo a separarli. Ma Hippolyte voleva solo parlare. «Mi dia un giorno» lo pregò. Solo uno.
«Vuole ingravidarla con il suo sangue bastardo?» Il sorriso dell’altro si riempì di scherno.
«Non parli di lei in questi termini.» Era la prima volta che lui usava quel tono autoritario con un Morel, con uno dei padroni di mezza Cuir.
Donatien aprì gli occhi e Hippolyte rivide quelli di Camille, vacui, che non riuscivano ad individuarlo davvero. Gli occhi del fratello e della sorella lo stavano cercando, gli uni per amarlo, gli altri per ucciderlo. Era quello che voleva fare Donatien, lui lo sapeva.
«Tu, nato nel fango, non puoi capire.» Doveva essere un insulto? Non lo era.
Era un diversivo. Dietro le sue spalle sentiva delle voci concitate ed il calpestio degli stivali. I gemelli?
«Siete pazzo, voi ed i vostri fratelli» si limitò a dire. Era morto. Le spade dei gemelli lo avrebbero raggiunto non appena Donatien avesse fatto loro un cenno. Sarebbe morto tra le risa sguaiate di quei bambini nel corpo di adulti. «Tutti pazzi.»
«La famiglia è tutto.»

«Hippolyte! Guardate qua.»
Come aveva fatto a riconoscerlo? Arrancò verso la sedia di Camille, cercando di non trascinarsi. Non smetteva di sanguinare, anche se si stava premendo il ventre con le braccia. Lo avevano lasciato andare per farlo morire lentamente.
«Camille» la chiamò. Quella era la sua voce? Non sembrava. Era troppo debole. Lei aveva in mano il gioco cinese che le aveva fatto scoprire una settimana prima, le palline scolpite l
una nellaltra. Si era innamorata di quei piccoli capolavori di avorio che solo le sue dita delicate riuscivano a non rompere.
«Il tuo respiro…» Camille abbandonò le sfere e la forcina con cui stava giocando in grembo, allungando le braccia per cercarlo. Aveva gli occhi spalancati – vuoti come sempre, anche nel panico.
«Camille.» Un altro passo e lui crollò in ginocchio. Non poteva sporcarle il vestito di sangue, chissà poi in che guai sarebbe incorsa con la madre. Non dovevano picchiare Camille, non la dovevano toccare – quanto era egoista? Le stava morendo tra le braccia. Gli mancava l’aria.
Le stava facendo incontrare la morte. Sarebbe potuto sparire, invece voleva vederla un’ultima volta.
«Stai male? Cosa succede? Hippolyte?» lei iniziò a toccargli il viso con mani febbrili. «Devo chiamare Judith? La chiamo! Judith!» Lui iniziava a non vederla più. Nella morte le sarebbe assomigliato. No, non doveva chiamare la sorella, a lui andava bene così.
Forse lo sapeva già dall’inizio.
«Camille» rantolò. La sua testa era pesante, così pensate e non riusciva più a respirare.
«Perché? Judith!» Lei trattenne il respiro quando scese sulle braccia. Hippolyte aveva le maniche della giacca zuppe di sangue. «Hippolyte!»
Gli piaceva il suo nome pronunciato da Camille.
«Ti amo.»


Okay, questo è, tipo, un esperimento x) ho una scrittura molto più diretta, qui ho cercato di… barocchizzare? Senza esagerare, spero. Ho provato a vedere se riesco a superare i miei limiti :) quindi sì, anche i loro discorsi sono abbastanza sfrilli. Non ha una collocazione temporale precisa per scelta consapevole: ho puntato più all’atmosfera che al ritratto di un periodo. Riguardo ai Morel, pensavo di calcare di più la mano sulla loro autarchia e il fatto che si sposassero tra consanguinei, ma l’argomento non è dei miei preferiti così ho optato per un accenno.
Per le sfere cinesi, su Bizzarro Bazar c’è un bellissimo post a riguardo :D e parte dell’atmosfera della storia la devo a quel bellissimo blog.
Spero vi sia piaciuta :)
   
 
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