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Autore: Meahb    04/01/2007    15 recensioni
Cameron ha deciso di abbandonare il Princeton per seguire il dott. Sebastian in KenYa. House è rimasto al Princeton a difendere la sua fama di dottore infallibile. Eppure qualcosa non torna... chi raggiungerà chi? E' la mia primissima fanfiction su Dott.House. Feedback graditissimo!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allison Cameron, Greg House
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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L'UNICO ATTO RAZIONALE

DISCLAMER:

Autore: AmarantaB

Summary: Cameron è partita per il Kenya, House è rimasto al Princeton…chi raggiungerà chi?

Spoilers: No one peeps!! ;)

Pairs: House/Cameron...

Timeline: Seconda stagione.

 

 

 

 

 

L’UNICO ATTO RAZIONALE

Da una citazione di Levine

 

 

Nella vita la cosa più importante è imparare ad offrire amore e a riceverlo, lasciandolo penetrare dentro di noi. Noi crediamo di non meritare l’amore, temiamo che farlo entrare dentro di noi ci renda sei rammolliti. Ma un saggio di nome Levine ha detto giustamente “L’amore è l’unico atto razionale”

(Tuesday with Morrie)

 

 

Dai vetri dello studio si diffondeva una luce calda, quasi fastidiosa.

Greg prese la pallina gialla tra le mani, soppesandola lentamente, fuori dalla porta le voci basse del team.

Tutte, tranne una.

Era buffo pensarci proprio adesso. In fin dei conti Cameron non era nient’altro che una collega, ma la sua assenza gli stava finalmente facendo capire, quanto la sua presenza contasse.

Lui, il cinico bastardo che ammetteva di sentire la mancanza di qualcuno.

Di qualcuno che aveva rifiutato e che stava ancora tentando di rifiutare.

Lanciò la pallina contro il muro, ripetutamente. Il rumore sordo prodotto dall’impatto sembrava sparpagliare i suoi pensieri.

Allison Cameron era semplicemente una collega.

Non poteva lasciarsi prendere da infantili romanticismi, non lui.

Gregory House aveva fatto un patto con se stesso, e non intendeva infrangerlo. Nemmeno per un paio di occhi blu come quelli della sua Cam… un momento!

Da quando usava aggettivi possessivi parlando di Cameron?

Cameron non era sua.

No, per Dio!

Non pretendeva di possederla, non pretendeva nemmeno di essere legato a lei.

Voleva semplicemente essere lasciato in pace.

Un lieve bussare alla porta lo fece voltare di scatto.

“Salve! Sono il segretario del Dottor House. Il dottore non c’è ripassate più tardi, grazie!”

La dottoressa Cuddy aprì spazientita la porta, “Greg non fare l’idiota. Ho bisogno di te. Subito”.

Il dottore la guardò, alzando un sopracciglio.

“Non guardarmi così”, l’ammonì lei volandogli le spalle, e incamminandosi verso l’uscio, “C’è un caso interessante che voglio sottoporre alla tua attenzione.”

Lui si portò una mano alla nuca, “Da quando in qua parli come un fax?”

“Uhm?”

Finalmente si alzò dalla sedia, cercando a tastoni il suo bastone, “Sì, parli come un fax. Gentile dottore, stop. Con la presente vogliamo sottoporre alla sua attenzione un caso piuttosto particolare, stop. In allegato la cartella clinica, stop. Aspettiamo sue notizie, stop. Distinti saluti.”

Lisa Cuddy scrollò le spalle, quindi lo fissò negli occhi, “Un ragazzo di vent’anni. Non si sa cos’abbia…”

“Cosa dice l’anamnesi?”

“Nulla!”

Lui sbuffò, incamminandosi verso il corridoio, “Come nulla?”

Lei lo guardò spazientita, “Greg, per cortesia seguimi!”

 

 

 

“I sintomi sono gli stessi della meningite.”

House fissò la lavagna senza prestare attenzione alle parole di Chase.

“Però potrebbe semplicemente essere polmonite” commentò Foreman sfogliando la cartella clinica.

“Certo!” esclamò House voltandosi, “Potrebbe essere anche raffreddore! Non avete avuto anche voi l’impressione che il paziente avesse il naso chiuso?” domandò ironico.

I due assistenti chinarono il capo, concentrandosi sulle loro rispettive cartelle.

“Chase vai a parlare con i genitori.”

“Perché proprio io?”

“Perché sei bianco, biondo e hai la faccia pulita!”

“Se è per questo anche la mia, di faccia, è pulita” chiosò Foreman, con disappunto.

“Non dire idiozie!” si spazientì House, “La tua faccia è nera, non potrà mai essere pulita.”

“Sei un bastardo razzista”, lo ammonì Foreman.

“Non sono io ad essere razzista. E’ il mondo là fuori che lo è. Test scientifici dimostrano che i familiari dei pazienti si fidano più di un medico bianco incompetente, piuttosto che di un nero preparato.”

Chase si alzò dalla sedia, lo sguardo infuocato, “Mi stai dando dell’incompetente?”

House alzò gli occhi al cielo, “Andiamo angioletto, non essere presuntuoso. Non parlavo di te” alzò il bastone in direzione della porta, “Avanti, va da loro.”

Il giovane medico sbuffò sonoramente, buttando gli occhi al cielo, “Quand’è che torna Cameron?”

House alzò le spalle, e gli sorrise, “Non ora”.

Ma il suo tono di voce, tradiva il viso sereno.

Foreman se ne accorse, e decise di farlo notare anche al suo capo, “Cosa c’è House? Ti scoccia che Cameron ti abbia abbandonato per un medico più giovane ed aitante?”

L’uomo non lo degnò di uno sguardo, continuò a concentrarsi sulla sua lavagna bianca, “Se non hai nessun argomento di conversazione che ti permetta di mettermi in imbarazzo, fatti un favore… taci.”

Foreman ridacchiò, “Ti brucia più ti quel che pensavi, non è così?” non gli diede il tempo di rispondere, “Oh, guarda che lo capisco sai? In fin dei conti non piace a nessuno essere scalzati dalla top ten degli uomini preferiti. Posso capire l’effetto che abbia su un egocentrico come te”.

Finalmente Greg si decise a guardarlo negli occhi, “Foreman, c’è un paziente che aspetta solo di essere visitato da te.”

 

 

Allison Cameron si apprestò ad ultimare le sue valigie.

L’indomani mattina sarebbe ritornata a casa… al Plainsboro… da Greg.

Aveva tentato in ogni modo di non pensarci, di ignorare quel peso che le gravava nello stomaco da tutta la settimana, me ahi lei, non ci era riuscita.

Nonostante fosse volata dall’altra parte del mondo, il pensiero di lui, non l’aveva mai mollata.

Non la mollava mai.

Doveva ammettere, che spesso, immaginarsi il suo viso spigoloso, le aveva dato un bizzarro senso di conforto, ma sapeva perfettamente che un conto era viverlo nei sogni, un altro era viverlo nella realtà.

Per quanto non avesse mai dubitato che lui nutrisse un certo qual tipo di interesse per lei, sapeva anche che non sarebbe mai stato pronto ad ammetterlo.

La piccola ed ingenua Allison, aveva imparato a sue spese che amare una persona, non fa in modo di farsi amare di rimando. Anzi, nel suo caso, sembrava quasi che i suoi sentimenti procurassero in Greg una sorta di… allergia.

Lo vedeva allontanarsi, allontanarla, e non poteva fare niente per impedirlo.

“Miss Allison, il dottore desidera vederla”.

L’infermiera Jenny era comparsa alla porta, e le sorrideva incoraggiante.

Era felice di essersi fatta nuove amicizie, laggiù in Kenya.

Le sembrava quasi di essersi costruita una scappatoia dalla realtà di New York, da Greg.

In qualche modo, era convinta di poter tornare laggiù, se le cose si fossero fatte troppo pesanti da sostenere. Era… rincuorante.

Finalmente sorrise a Jenny, “Arrivo subito”.

Fissò per un breve momento la pila di panni sul letto, quindi, sbuffando, si diresse al piano inferiore.

 

 

Lavorare in Kenya non era una cosa semplice.

A volte, anche un semplice raffreddore poteva avere complicazioni devastanti.

Cameron sapeva che andare a lavorare lì sarebbe stato difficile, ma non aveva mai immaginato quanto.

Durante quei sei mesi, aveva pensato spesso di ritornarsene nella sua bella casa, al suo bel lavoro, ma c’era qualcosa che l’aveva costantemente bloccata.

Temeva che Greg la deridesse per aver mollato la presa.

Si ricordava ancora la sua espressione quando l’aveva informato di voler partire, e si ricordava ancora meglio le sue parole, “Se vuoi farlo, fallo fino in fondo”.

E così, aveva sempre stretto i denti tentando di non farsi prendere dal panico.

Doveva ammettere che l’aiuto del Dottor Sebastian, era stato fondamentale.

Lui era un uomo particolare…aveva subito provato interesse per il suo modo di lavorare, e si era resa conto che le caratteristiche che più apprezzava in lui, erano le stesse che non sembravano far parte della personalità di Greg.

No!

Non era il caso di pensare a lui anche adesso.

Entrò nell’ufficio del dott. Sebastian bussando leggermente alla porta. Lui, come sempre, l’accolse con un gran sorriso, “Accomodati Allie!”, le propose indicando la sedia.

Allison si sedette, sorridendo imbarazzata.

“Allora”, comincio lui, poggiando il mento sul dorso delle mani, “Domani mattina parti”.

“Parto, si!” disse lei, quasi sollevata.

“Stavo pensando”, il dottore si accomodò meglio sulla sua seduta, “Dato che dovrei parlare con alcuni legali di una casa farmaceutica, forse sarebbe conveniente per me partire insieme a te”.

Allison lo guardò stranita. Aveva pensato ad un incontro di commiato, non ad una proposta del genere. Anzi, a dirla proprio tutta, la cosa non le piaceva nemmeno un po’. Non voleva che Greg la vedesse con lui, non voleva travisasse il loro legame.

“…andarci insieme! Che ne pensi?”

La voce del dottore la richiamò alla realtà.

“Come, scusi?”

“Pensavo di venire anche al Plainsboro a fare un saluto alla Cuddy e ad House, magari potremmo andare a mangiare qualcosa tutti insieme!”

Allison inghiottì un fiotto di rabbia, “Io… veramente…”

“Allie, non essere imbarazzata! Voglio solo fare i complimenti ai tuoi superiori… hanno scelto un’ottima assistente!”

Lei gli sorrise, ancora rossa in volto. So domandava incessantemente come sarebbe andato quell’incontro.

“Va bene dottor Swain, adesso se vuole scusarmi, ho delle valigie da finire. In ogni caso se vuole…”

“Passerò da te più tardi per prendere accordi, Allie!” concluse lui, per lei.

 

CAPITOLO UNO

 

 

 “Posso sapere cosa diavolo è successo con Tom Carlyle?”

La Cuddy era entrata nell’ufficio, sbattendo violentemente la porta.

“L’abbiamo salvato. Credo che adesso sia ad Aspen a sciare!” le rispose House con un sorriso.

“Non fare l’idiota House!” lo ammonì, puntandole contro il dito indice, “I suoi genitori sono nel mio ufficio, e dire che sono furiosi è un eufemismo.”

Il dottor Wilson, che fino ad allora era rimasto in silenzio a guardare la scena, prese la parola, “Cosa c’è che non va?”

La Cuddy si porto entrambe le mani ai fianchi, “C’è che il ragazzo ha dato di matto, ecco cosa c’è”.

“Anche io do di matto”, puntualizzò House facendo volteggiare il bastone il larghi cerchi, “Eppure i miei genitori non vengono mica a lamentarsi da te!”

“Tu!” il viso della Cuddy era livido di rabbia, “Tu adesso ti alzi e vieni immediatamente nel mio ufficio a spiegare a quei due poveri genitori cosa sta succedendo al loro figlio.”

House alzò le spalle, “Sai, a dir la verità sono un po’ impegnato”

“A fare cosa?”

Organizzo il comitato di benvenuto per Cameron”.

Wilson ridacchiò, non senza rendersi conto di come l’amico fosse felice per quel rientro.

“House!” la Cuddy adesso stava gridando, “Se non vieni nel mio ufficio entro dieci secondi, giuro che ti sbatto fuori.”

House la guardò interdetto, “Va bene Adolf, giuro che arrivo. Dammi dieci minuti. Do le direttive per la festa a Jimmy e sono immediatamente da te!”

Lisa Cuddy gli scoccò un’occhiataccia.

“Parola di lupetto!” precisò lui, incrociando le dita sul cuore.

La donna uscì dall’ufficio sbuffando.

“Cos’è questa storia della festa?” domandò Wilson alzandosi.

“Una balla per guadagnare dieci minuti” fece spallucce l’altro.

Entrambi preferirono non dilungarsi sull’argomento.

 

 

La luce pallida del neon illuminava prepotentemente la stanza.

Foreman si strofinò le tempie, sbuffando. Quel caso lo stava facendo impazzire.

Tom Carlyle sembrava semplicemente affetto da una sinusite cronica. La malattia si era manifestata con violenza il mese precedente a questo, ma una cura di antibiotica, prescritta dopo una lunga serie di analisi, sembrava aver risolto la situazione.

E invece no.

Tom Carlyle, dopo quindici giorni di calma apparente, aveva cominciato a manifestare segni di squilibrio. Come se il suo sistema nervoso, avesse deciso da un momento all’altro, di funzionare al contrario.

Alternava momenti di euforia, quasi di onnipotenza, ad altri in cui si sentiva depresso e altamente ansioso. Sintomi che non potevano dipendere da un stupida sinusite cronica.

Sbuffò ancora, quindi si stiracchiò contro lo schienale della sua sedia.

“Non riesco a capire…”, borbottò.

Chase lasciò un foglio pieno di dati, e scosse il capo, “E’ possibile che sia stata la cura che abbiamo prescritto noi, a causare un danneggiamento al sistema nervoso centrale?”

Foreman scosse la testa, poco convinto, “Non è plausibile”, obbiettò, “Temo che la causa non sia dei nostri antibiotici.”

Chase non rispose. In quel momento non avrebbe saputo cosa dire.

Era un giorno intero che studiava la cartella clinica del paziente, e ogni volta gli sembrava di leggere una sciocca filastrocca, in cui le parole perdevano di significato.

Apparentemente Tom Carlyle stava bene, ma nella realtà, qualcosa sembrava inceppare il regolare funzionamento del suo cervello.

Cosa?

Non avrebbe saputo dirlo.

Un lieve bussare alla porta, costrinse i due medici a mollare il loro lavoro.

Si voltarono entrambi verso la porta, e fu in quel momento che Cameron fece il suo ingresso.

Era più abbronzata del solito, e il suo viso sembrava rilassato. Tuttavia, i suoi occhi blu, tradivano un certo nervosismo. Saettarono da un lato all’altro della stanza, e solo quando furono sicuri di non aver rilevato nessuna presenza importante, sorrisero.

Foreman e Chase salutarono felici la loro collega.

Nonostante qualche dissapore, era bello rivedere il team riunito.

“Ragazzi! Sono felice di rivedervi!”

“Anche noi!”

“Allora, raccontaci del Kenya!” la incoraggiò Chase.

Allison fu volutamente evasiva. Voleva serbare qualche vicenda per se, per permettersi di rifugiarsi nel ricordo, quando altri tipi di vicende l’avrebbero travolta.

Sorrise di nuovo, quindi sbirciò la scrivania coperta dai fogli.

“Cosa abbiamo?”

Chase sospirò.

Foreman, dal canto suo, prese in mano la cartella ocra, porgendola alla donna.

“Tom Carlyle…”

Mentre Foreman parlava, nel petto di Allison, si spanse un bizzarro calore.

Finalmente, era al lavoro.

 

 

Rimandava quell’incontro dalla mattina, eppure sapeva che prima o poi avrebbe dovuto rivederla.

Non che la cosa lo straniasse, beninteso, ma non lo lasciava nemmeno così indifferente come avrebbe voluto.

Cameron Allison era tornata.

Dopo sei mesi.

E con lei erano ritornate anche quella miriade di sensazioni che non voleva fronteggiare.

Sensazioni che si ostinava di non provare, di non vedere.

Già, era così.

Si era reso conto che non serviva a nulla, ma non riusciva a fare a meno di mascherare quello che effettivamente sentiva. Non sapeva chiamarlo per nome, ma comunque sapeva che c’era, vivo, pulsante.

Sospirò di nuovo. Gli sembrava di non fare altro da quando aveva messo piede nell’ospedale quella mattina.

Il caso Carlyle, Allison che era lì, la Cuddy che lo incalzava continuamente, e Wilson che, malgrado volesse nasconderlo, si chiedeva costantemente cosa passasse nella testa del suo amico. Glielo leggeva negli occhi.

Li leggeva sempre gli occhi.

E sapeva leggere bene anche i suoi.

Ma questa volta, come quelle precedenti, non se la sentiva di analizzare quello che gli passava per la mente. C’erano troppe cose da fare, un caso importante, delle vite da salvare.

Non era il momento di digressioni romantiche, per lui. Forse, non lo sarebbe mai stato, non più.

“Mi ha assunta per portarmi a letto?”

“Ti dispiacerebbe?”

E come un vortice, ogni dialogo ruotava nella sua testa, impedendogli di riflettere.

Doveva vederla.

Esorcizzare quella presenza che lo rendeva tanto inquieto.

Solo così, forse, avrebbe potuto lavorare lucidamente.

 

 

Non lo vedeva dalla mattina.

Non che si fosse prodigata alla ricerca del suo boss, doveva ammetterlo, ma le sembrava strano che lui non si fosse fatto ancora vivo.

In fin dei conti lo conosceva, ma questa volta non riusciva a capire cosa stesse succedendo.

Aveva la strana sensazione che tutti i suoi colleghi fossero in attesa.

Fantasticò molto su questa cosa.

Si immaginava Greg affranto che parlava di lei con tutti.

Se lo immaginava al piano, suonare arie struggenti, pensando a lei.

Ma poi, come in ogni sogno, si risvegliava.

E lì, nella realtà, capiva immediatamente che Greg non aveva pensato a lei.

Per niente.

Aveva lavorato, scherzato, sfottuto il suo team.

Di sicuro c’era scappata qualche partita a carte con Wilson e qualche discussione con la Cuddy. Magari, perché no, aveva rivisto anche Stacy.

O forse aveva incontrato una giovane donna, in grado di fargli battere il cuore, come lui lo faceva battere a lei.

Il cuore!

Che stupida cosa. Nient’altro che un muscolo. Una pompa che lavora continuamente, cercando di far quadrare i conti.

Nient’altro.

Da brava medico, doveva sapere che le emozioni non avevano nulla a che fare con gli organi.

Ma, purtroppo per lei, aveva anche seguito diversi seminari di Antropologia Medica.

Eh già, antropologi.

Quelli che difendevano con le unghie e con i denti l’importanza del “sentire”.

Quelli che sostenevano che il paziente, prima di essere un corpo, era una persona, con emozioni e sentimenti, e loro –i dottori- non avrebbero mai dovuto dimenticarlo.

Forse era questo che la fregava.

Lei, era sempre in ascolto, sentiva i suoi sentimenti.

E nonostante quei sei mesi trascorsi all’estero, si rendeva conto che non erano cambiati di una virgola. O forse si. Magari erano semplicemente…. aumentati.

Li sentiva vivi, pulsanti.

Si massaggiò lentamente le tempie, e fissò il legno della porta chiusa.

Sospirò.

Sapeva benissimo quello che voleva.

 

 

Ad un tratto la porta si aprì, e un bastone nero, l’avvisò che Greg, era finalmente venuto a salutarla.

 

Occhi negli occhi.

Come era inevitabile.

Due tonalità di blu che si scontravano, fondendosi, dando vita ad un oceano che vibrava al suono delle emozioni che li animava.

Niente da dire.

C’era solo da ascoltare.

Gli sorrise timidamente, abbassando lo sguardo. Un chiaro gesto di civetteria, che si affrettò a mascherare.

Ma lui parve non accorgersene.

Se ne stava lì, a fissarla, immobile. Come ad imprimersi il suo viso nel cervello. Come a voler impedire alla memoria di cancellare quel momento.

Allison era tornata.

E adesso non sapeva come comportarsi.

La fissava, e non sapeva parlare.

Lei se ne stava ferma immobile a guardarlo a sua volta, il respiro accelerato, un adorabile rossore a dipingerle le guance.

Sarebbe bastato poco, lo sapevano entrambi.

Sarebbe bastata una parola, un passo, e quello che avevano trepidamente sognato, sarebbe finalmente divenuto realtà.

Ma nessuno dei due si muoveva. Come se entrambi avessero paura di rovinare quell’attimo; di spezzare quella magia.

Fu lei la prima a parlare.

“Sei qui…” sussurrò.

“Sono qui.”

Lei gli sorrise, “Credevo non volessi vedermi. E’ tutta la mattina che tento di incontrarti…inutilmente.”

Lui si appoggiò al bastone, come se non riuscisse più a sopportare il peso che gli gravava sulle spalle.

“Non ti stavo evitando, se è questo che vuoi sapere”, usò un tono volutamente brusco.

“Non l’ho detto, infatti.” Precisò lei.

Greg mascherò un sorriso. La piccola Cameron, sapeva sempre come tenergli testa.

“Allora, quanti koala hai curato, giù in Kenya?”

“Non ci sono koala in Kenya, semmai scimmie.”

Lui ridacchiò, mettendosi a sedere.

“Non fare la presuntuosa. Lo leggo anche io il National Geographic”.

La stava prendendo in giro, ma sentiva una nota di dolcezza in quelle parole. E questo bastò al suo cuore per accelerare i battiti.

“Sto bene”, lo rassicurò, “Sono stata bene”.

Però, mi sei mancato così tanto da star male.

“Fantastico!” fischiò lui. Inclinò il capo a destra, stringendo leggermente gli occhi, “Come mai allora non ti sei fermata un po’ di più? Ti mancava il tuo camice bianco stretto in vita?”

“Sono più utile qui”, lo liquidò lei.

Starti accanto mi da la carica necessaria per lavorare meglio.

Lui la guardò intensamente.

“Ce la siamo cavata sai?” borbottò.

Ma la tua assenza era più viva della presenza di chiunque altro.

Lei annuì, “Lo so, mi hanno informata”

“La Cuddy eh?” le fece l’occhiolino.

“A dir la verità mi arrivavano informazioni anche quando ero in Africa!”

Lui si finse impressionato, “Avevi delle spie?? Oh mio Dio! E cosa ti dicevano?”

Ti parlavano di me?

“Al solito. Il dottor House è un figlio di puttana, ma accidenti! Il suo lavoro lo sa fare meglio di chiunque altro”.

Lui sorrise, sinceramente. Era strano sentirla parlare in quel modo.

“Bene! Riscuoto sempre un gran successo nelle riviste mediche!”

Lo riscuoto anche con te Cam?

“Si.”

Secco, duro.

Come se lei avesse letto la sua mente, rispondendo ad un’altra domanda. Alla domanda che in realtà avrebbe voluto farle.

“Si.” Ripeté, “Sempre.”

 

CAPITOLO DUE.

 

Il sole risplendeva sulla città.

Era insolitamente caldo per essere marzo. Cameron accolse quella novità con gioia.

Il caldo dell’Africa, inutile negarlo, le mancava.

Anzi, probabilmente le mancava tutta la sua vita laggiù.

Era tornata da un paio di settimane, e all’infuori di quella volta, lei e Greg avevano ripreso a trattarsi con freddezza.

Dialoghi formali.

Niente che lasciasse intravedere qualcosa di più.

Eppure, lei sapeva che non era tutto lì. Sapeva perfettamente che poteva succedere qualcosa. In qualunque momento.

Spinse la porta a vetri dell’entrata principale e si diresse all’ascensore, senza guardarsi intorno.

Si voltò verso la pulsantiera, e quando le porte si accingevano a chiudersi, un bastone le bloccò.

Greg.

“Signorina, darebbe un passaggio ad un povero storpio?” la canzonò.

Lei scrollò il capo, premendo il secondo bottone.

Greg, come era solito fare, si appoggiò di peso allo specchio.

“Cos’hai donna? Sembra che ti abbia investito un panzer!”

Non seppe mai quello che le prese in quel momento. Sentì solo un fuoco accendersi nel suo stomaco. Come se la rabbia per quella situazione ridicola, stesse chiedendo il conto.

Si voltò furente, piantandogli gli occhi addosso.

“Ho dormito male”, sibilò.

Greg la fissò senza capire, o forse capì fin troppo bene, ma in ogni caso decise di scherzarci su.

“Il caso Carlyle ti prosciuga uhm? Non temere, è successo a tutti di prendersi una cotta per un paziente fuori di testa! E’ una sorta di rito di iniziazione. E’ la prassi.”

Lei non raccolse. Non aveva la benché minima intenzione di scherzare.

Era stufa.

Passò al contrattacco.

“Anche innamorarsi del proprio superiore, è la prassi?”

Greg non rispose.

Non sapeva cosa rispondere, a dirla tutta.

Allison…”

Era la prima volta che la chiamava per nome. E le sembrò infinitamente più dolce di quello che aveva immaginato.

“Allison cosa?”

Lui sospirò, portandosi una mano nei capelli.

Accidenti!

Ma queste cose non accadevano solo nei film?

Che diavolo le passava per la mente? Dichiararsi in un ascensore? In quel modo poi?

“Allison per favore…”

Lei sbuffò, quindi si voltò e bloccò la corsa.

 

“E adesso cosa diavolo stai facendo, di grazia?”

“Blocco l’ascensore!”

“Oh! Non l’avevo capito!”

“Non prenderti gioco di me, House.”

“Sei tu che ti prendi gioco di me.”

“Non ti azzardare neanche a dirlo…”

“Cosa stai facendo Cam?”

“Blocco l’ascensore”.

“Credevo che questo l’avessimo già precisato”.

“E allora perché continui a domandare cosa sto facendo?”

“Perché non capisco cosa stai facendo”.

“Blocco l’ascensore per parlarti”.

“Potevi venire nel mio ufficio”.

“Ho sempre avuto un debole per gli ascensori”.

“Mi piacerebbe poter dire lo stesso. Temo di essere claustrofobico”.

“Sono un dottore. Se dovessi sentirti male, mi occuperò io di te”.

“Non per essere scontroso, ma la cosa non mi rassicura”.

“A me rassicurerebbe se ti occupassi tu di me”.

“Stai flirtando con me?”

“Tu lo fai in continuazione”

“Non mentire. Non è conveniente.”

“Potrei dirti la stessa cosa”.

“Io non mento mai”.

“Ah! Cos’è questo? Un eufemismo?”

“Perché credi che menta?”

“Perché non sei l’unico a saper leggere gli occhi della gente”.

“E cosa ti dicono i miei occhi?”

“Quello che i miei dicono a te”

“Vale a dire?”

“Non voglio dirlo io. Voglio sentirtelo dire”.

“Non essere egocentrica”.

“Non essere falso”.

“Non lo sono, te l’ho già detto”.

“E allora perché continui a startene appoggiato a quello specchio?”

“E’ una posizione congeniale”.

“Temi che starmi vicino possa renderti più sincero?”

“Odio il tuo profumo”.

“Non è vero”.

“Oh! E invece si”.

“Smettila di fare il bambino”.

“Non sono un bambino”.

“E allora smettila di ripetere ogni cosa che dico”.

“Non ripeto. Preciso.”

“Non stai precisando un bel niente.”

“Questo lo dici tu”.

“Questo, lo sai anche tu”.

“Non fare i giochetti con me, Cam!”

“Non sto giocando. Sono serissima”.

“Quindi sei convinta che non odio il tuo profumo?”

“Sono convinta che mi ami”.

“Prego?”

“Hai capito benissimo”.

“Possiamo discuterne in un altro momento?”

“NO.”

“Bene”.

“Bene”.

“Non ripetere quello che dico, Cam”.

“Sei tu quello che ripete quello che dico, House”.

“Ci risiamo…”

“Dottore, lei mente sapendo di mentire. Non lo trova terribilmente vigliacco?”

“Allison…”

“Non chiamarmi Allison”

“Sandra…”

“Chi è Sandra?”

“Tu hai detto di non voler essere chiamata Allison”

“Greg ti prego…”

“Cosa?”

“Smettila”.

“Di fare cosa?”

“Di parlare”.

“E cosa dovrei fare?”.

 

Lei non rispose. Prese coraggio, e avvicinandosi, lo baciò.

 

 

La tensione, nella sala riunioni, era talmente alta da percepirne la presenza tutto intorno.

House, accanto alla lavagna, se ne stava immobile a studiare i sintomi di Carlyle.

Decorso fasico, ora espansivo ora depressivo.

Mania confusa.

Ematomi nella zona toracica.

Ipertensione.

Tutto il team, se ne stava in silenzio a fissare quelle poche parole, scritte di nero, con grafia quasi incomprensibile.

Nessuno diceva una parola, e la situazione sembrava irrimediabilmente stantia.

“Qualcuno ha qualcosa da dire?” domandò House, con aria pensierosa.

“Penso che dovremmo concentrarci sulle malattie mentali. Non credo si tratti di una conseguenza causata da farmaci.”

House annuì, “Perfetto. Malattie mentali”, guardò Foreman, “Dimmene tre, e ti aumento lo stipendio!”

L’uomo di colore controllò la cartella che aveva davanti, “Isteria, schizofrenia, depressione cronica”.

House alzò un sopracciglio, “Oh per favore!” sbuffò, “Tre malattie che hanno a che fare con Dan!”

“Chi è Dan?” domandò Foreman, senza capire.

House buttò gli occhi al cielo, “Sveglia Pisolo! Il nostro paziente!”

“Mi duole contraddirti, ma si chiama Tom” precisò Foreman, con una scrollata di spalle.

“Whatever!” sputò House, “Allora? Che tipo di malattia mentale potrebbe avere il nostro Tom?”

“Psicosi maniaco depressiva”, era stata Cameron a parlare, con voce bassissima, “Spiegherebbe il decorso fasico, la depressione, e la sensazione di immortalità”.

House la guardò, non senza ammirazione, “E i lividi al torace?”

“Potrebbe essersi colpito durante il decorso fasico espansivo”, azzardò Chase.

“La madre ci ha detto che spesso, per dimostrare la sua immortalità, faceva cose…diciamo strane.”

“Avanti Ciop! Spiegati meglio. Anche io faccio cose strane, e mai nessuno mi ha dato del maniaco depresso.”

“Potrei aver qualcosa da dire, a riguardo”, ridacchiò Foreman.

“Cioccolatino, ti sei appena giocato l’aumento.”

“Perché?” domandò Foreman stringendosi nelle spalle, “Avevi davvero intenzione di darmelo?”

House fece per ribattere, ma fu interrotto dalla dolce voce di Cameron.

“Cosa dobbiamo fare, dunque?”

Greg si riscosse, “Chase parla con i genitori, senti se c’è qualche caso di malattie mentali in famiglia. Foreman, fai tutte le analisi del caso, se necessario stimola il sistema nervoso, Cameron tu…”

La donna puntò i suoi occhi chiari, in quelli del dottore.

“Cameron fa una tac al paziente. Chiamatelo istinto, ma qualcosa mi dice che quegli ematomi hanno un’origine diversa.”

La dottoressa non attese oltre. Si alzò dalla sua sedia, e se ne andò.

 

 

Era stanca.

Se qualcuno le avesse permesso di stendersi, probabilmente sarebbe crollata subito.

Sentiva la schiena dolerle, sentiva un buco nello stomaco, e sentiva il sapore di Greg sulla sua pelle.

Come una nuvola che la circondava, imprigionandola.

Non voleva pensare a quello che era successo la mattina, ma non poteva farne a meno.

Non poteva non domandarsi, se anche lui ci stesse pensando.

Rivedeva nella sua mente quelle immagini, ancora, e ancora, e ancora.

Rivedevi i suoi occhi stupiti, risentiva le sue mani tra i capelli, il respiro corto, l’odore di buono.

Anche volendo, non avrebbe dimenticato quel bacio tanto facilmente.

Lo aveva sognato troppo a lungo, per permettere alla memoria di portarselo via…

“Cameron?”

La voce della Cuddy, la fece sobbalzare.

“Mi dica, dottoressa.”

La donna aggirò la scrivania, prendendo posto accanto a lei.

“Ho bisogno del tuo aiuto”. Cameron la guardò perplessa. Non era usuale vedere la Cuddy domandare aiuto a qualcuno. Lei, personalmente, l’aveva sempre immaginata come una donna tutto fare, che dava aiuto, non che lo riceveva.

“Mi dica pure…”

“Si tratta di House”.

House.

Sempre lui.

“Cos’è successo stavolta?”

La Cuddy ridacchiò. Se c’era qualcuno che si aspettava il possibile e l’impossibile da Gregory, bhè, quella era Cameron.

“Tralasciamo la sua puerile fissazione che nel corpo di Tom Carlyle ci sia una massa tumorale grossa quanto un pacchetto di sigarette, ti va?”

“Direi di si”, le sorrise l’immunologa, ammiccando.

“Bene. Allora andiamo subito al sodo.” Prese fiato, “E’ strano”.

“Più del solito?”

“E’ sempre un bastardo depresso, però c’è qualcosa che non mi quadra. Stamattina è venuto nel mio ufficio con un muso lungo fino ai piedi, ed ha evitato per più di mezz’ora qualsiasi battuta cinica o sarcastica che sia.”

Allison la guardò, senza capire, “Perché lo sta dicendo a me, dottoressa?”

La Cuddy la guardò in tralice, “Perché anche tu hai un muso che si srotola fin fuori la porta”.

L’immunologa abbassò lo sguardo, colpevole.

Aveva creduto di aver mascherato bene, ma sapeva che la Cuddy era un sergente attento e puntiglioso.

“Cosa avete combinato, Cam?”

Quel tono amicale, la indusse per un momento a confidarsi. Ne aveva davvero bisogno.

Ma non si dimenticò che la donna accanto a lei, oltre ad essere un suo superiore, era anche amica del suo personalissimo tormento.

“Niente” arrossì, “Abbiamo avuto una breve ma intensa discussione stamattina, mentre salivamo in ascensore”, la Cuddy la fissava, sembrava non credere neanche lontanamente alle sue parole, “Purtroppo ci siamo lasciati prendere la mano, e sono volate parole pesanti. Sa com’è… House riesce sempre a tirare fuori il peggio, dalle persone.”

La Cuddy si alzò dalla seduta, incamminandosi verso la porta.

Solo quando fu per metà fuori dalla stanza, si decise a parlare, “Parlaci”, disse solo.

 

 

Wilson intercettò la parabola della pallina da tennis che House stava lanciando contro il muro. Da più di mezz’ora.

“Greg vuoi smetterla?”

“Di fare cosa?”

L’oncologo scosse la testa, “Dimmi cosa caspita è successo con Cameron stamattina, altrimenti giuro che vado da Lisa e ti faccio aumentare le ore di ambulatorio.”

House scosse la testa, fingendosi schifato, “Guardatelo! Quello che si dice il mio migliore amico!”

“Non essere infantile”.

Greg sospirò. Da quella mattina, un po’ troppe persone lo avevano definito in quel modo.

“Cosa vuoi, Jimmy?”

“Il racconto dettagliato di quello che è successo”.

“Oh che noia!” sbuffò l’altro, “Non è successo niente. Io l’ho punzecchiata, lei si è arrabbiata, ci siamo presi vicendevolmente a male parole, e poi abbiamo cominciato a lavorare. Soddisfatto?”

Wilson allungò i piedi sulla scrivania, stringendo gli occhi.

“Chissà perché, ma ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa…”

House si finse impressionato, “Oh Jimmy!! Ma come hai fatto?? Ok, lo ammetto, l’ho uccisa. Il suo corpo ora giace nel giardino del Princeton. A quest’ora dovrebbe aver cominciato a decomporsi, ma non sarà facile identificarlo. Le ho buttato dell’acido in faccia.”

Wilson lo fissò, alzandosi in piedi.

“Credo che il fantasma del tuo cadavere stia venendo a chiedere il conto…”

 

 

Più che un fantasma, sembrava un angelo.

I capelli sciolti lungo le spalle, gli occhi leggermente gonfi… sembrava avesse pianto.

Non dubitò nemmeno per un secondo che la causa delle sue lacrime fosse proprio lui.

L’aveva fatta piangere.

Di nuovo.

Lei aveva seguito con lo sguardo la sagoma di Wilson uscire dall’ufficio, quindi aveva delicatamente chiuso la porta.

Non sembrava arrabbiata.

Sembrava… sconfitta.

Questo, inaspettatamente lo ferì.

“Greg…” sospirò.

Lui la prese in contropiede.

Si alzò dalla sedia, e in un istante le fu addosso. Non le permise di dire nulla, affondò il volto tra i suoi capelli morbidi, stringendola in una presa d’acciaio.

Cosa avrebbe dovuto dirle?

Non gli veniva in mente nulla che permettesse alle parole di esprimere quello che si agitava in lui.

E lì, tra quelle braccia morbide, si sentì stranamente protetto.

Come se fosse approdato in un porto sicuro, dove le acque chete lo dondolavano ritmicamente, permettendogli finalmente di risposare…

“Greg…” sussurrò di nuovo lei.

Lui si scansò quel poco che bastava per guardarla negli occhi.

Smeraldo lucente. Vivo.

“Greg mi dispiace”, disse lei.

“Di cosa?”

Allison si staccò da quell’abbraccio, lasciandolo improvvisamente solo. E quella distanza lo raggelò.

“Non avrei dovuto…”

Lui allungò una mano, prendendola tra le sue. Era calda, morbida.

Un pensiero un po’ più ardito si insinuò tra gli altri.

“O forse avresti dovuto. Magari avrei dovuto farlo io. O magari non avrebbe dovuto farlo nessuno dei due. Ma dimmi…” la fissava con ostentazione, “Quanto pensi che sarebbe durata? Per quanto ancora le nostre strade sarebbero rimaste divise? Credi davvero che per me sia stato facile negare quello che sentivo? Non è facile nemmeno adesso Allison, non lo sarà mai. E non lo sarà perché io sono un misantropo depresso. Sono danneggiato. Ma non ho bisogno d’aiuto. Ho bisogno di sentirmi vivo. E lo sai che stamattina, per la prima volta dopo tanto tempo, ho sentito il mio cuore battere?”

Quel fiume di parole aveva sconvolto Allison.

Le aveva sognate per mesi interi, e adesso, sentendole, si era resa conto che i suoi, erano solo pallidi miraggi di quello che invece risultavano essere nella realtà.

Ma qualcosa, tuttavia, la bloccava.

“Ho paura”.

Greg la trasse a sé, aspirando a pieni polmoni il suo odore.

“Anche io…”

 

*****

Cos’è poi la paura?

Greg se lo domandò, fissando il corpo caldo di Allison, sdraiato accanto al suo.

Trasudava grazia e dolcezza, anche quando sembrava immersa in un mondo totalmente diverso, e lui, aveva bevuto dalla sua fonte come un assetato per troppo tempo rimasto senza acqua.

Si era scaldato nel suo grembo, aveva respirato il suo respiro, e per la prima volta dopo tanto, tanto tempo, aveva permesso alla malinconia di abbandonarlo per un po’.

Sorrise, guardandola.

Fare l’amore con lei, gli aveva spezzato il cuore.

Era stato come navigare in acque calme, come sentire il sole bruciare sulla pelle.

Era stato assoluto. Totalizzante.

E probabilmente, il non aver indugiato troppo su quella fantasia, aveva reso la realtà assolutamente perfetta.

La bocca di lei che lo baciava dolcemente, il suo respiro accelerato, il suo corpo caldo che bruciava di passione e amore per lui.

Aveva ancora paura, questo si.

Ma non sapeva dirsi di cosa.

Aveva paura di lei che se ne andava? Aveva paura di sentire il freddo nel cuore, di nuovo?

Oppure aveva paura di lasciarsi andare ancora?

Perché Allison era come una droga.

Una droga potente, che ti entrava in circolo nelle vene infettando ogni più piccolo anfratto, spingendoti  a chiederne sempre di più.

Anche ora, mentre la guardava dormire, avrebbe voluto prenderla di nuovo tra le braccia e farla nuovamente sua.

Voleva lenire tutte le sue ferite, dondolando con lei in quella linea labile che divide amore e disperazione.

Voleva amarla. Nient’altro.

Ma aveva paura di non esserne in grado.

 

Allison aprì gli occhi lentamente.

Greg le sorrise, sfiorandole il viso con dolcezza infinita.

“Sei qui…” mormorò lei, stringendosi contro il suo petto.

Greg l’accolse senza riserve, baciandole i capelli.

Rimasero per un po’ in silenzio, ascoltando il battito dei loro cuori, il contrarsi ritmico dei loro respiri.

“Potrei non essere capace…” sospirò lui, fissando un punto lontano.

Allison si alzò a sedere, coprendosi il seno con il lenzuolo chiaro.

“A fare cosa?”

Lui la fissò negli occhi, sprofondando in quel verde smeraldo.

“Potrei non saperti amare”.

Allison sorrise, inaspettatamente, e lo baciò a fior di labbra.

“Non ti sto chiedendo nulla, Greg”.

“Ma potresti farlo”, obbiettò lui, imbronciandosi.

Lei si accoccolò di nuovo tra le sue braccia, depositandogli un lieve bacio sul collo.

Dammi quello che vuoi Greg. Io ti darò quel che posso”, mormorò ad occhi chiusi.

Lui la strinse. Capiva perfettamente la portata di quelle parole. Capiva che era l’amore a parlare, quell’amore che aveva sempre tentato di non leggere negli occhi di lei, quell’amore che aveva disperatamente tentato di non leggere nei suoi, di occhi.

Con un dito le alzò il mento, costringendola a guardarlo negli occhi.

“Non sono un tipo facile.”

Lei ridacchiò, “Oh se non lo so!”

“Potrei renderti la vita un inferno…” mormorò pensoso.

Lei lo baciò, prepotente, decisa, giocando con la sua lingua, bevendo dalla sua bocca, come se solo in quel modo potesse mangiare la vita. Letteralmente.

Si staccò ansimante, “Potrei rendere la tua un paradiso…”

Greg la baciò di nuovo, tuffandosi tra i cucini, vagando per la sua pelle di pesca, morbida, calda.

Lei gli prese la nuca, approfondendo il bacio, lasciando spazio ad un sicurezza che mai, prima di allora, aveva provato.

Lo senti entrare in lei con delicatezza, muovendosi piano, quasi rispettoso del suo corpo, quasi rispettoso di lei.

E ad ogni movimento, il piacere li pervadeva, cancellando ogni dubbio, ogni perplessità.

Si accorse che Greg la stava fissando, aveva lo sguardo smarrito, quasi incredulo.

Come se, nel giro di una manciata di attimi, avesse scoperto una verità che stentava a riconoscere tale.

“Cosa c’è?” gli domandò.

Lui la baciò ancora, ansimando.

Non ti amo Allison”, mormorò.

Lei lo fissò senza capire.

“Non ti amo”, ripeté lui, “Ma sono pronto a darti tutto me stesso”.

Allison lo baciò di nuovo.

Non era forse quella, la prima regola dell’amore?

 

 

 

                                                                                                          FINE.

  
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