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Autore: wolfstar    18/06/2012    1 recensioni
[...]Non ho bisogno di voltare la testa di lato per vedere chi è, so già che c’ è solo una persona che avrebbe il coraggio di avvicinarsi a me così sfacciatamente.[...]
Medusa x Stein
Genere: Dark, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Franken Stein, Medusa
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note: i protagonisti hanno diciassette anni.



Ascolto il vento che soffia tra le foglie verdi. La suola delle scarpe che striscia contro l’ erba producendo un suono sintetico, quasi inudibile. Ascolto finalmente il suono del silenzio, che da tanto, troppo tempo, non si faceva strada nella mia mente. Quel continuo tic tac cominciava a farmi impazzire più di quanto già non sia e a farmi esplodere come una bomba a orologeria. Perché io sono così, talmente fragile da poter esplodere in mille pezzi da un momento all’ altro, il mio equilibrio mentale è costantemente appeso a un filo. Basta un niente per spezzare quel filo, per fare esplodere quella bomba; almeno quel fastidioso ticchettio cinico dettato dalla follia smette di far rumore e si spezza, in contemporanea al filo.
Qualsiasi cosa che fa rumore è da eliminare, qualsiasi cosa che fa rumore diventa un ticchettio nella mia testa, un rumore che la follia mi ordina di annientare all’ istante.
Questa volta è il cinguettare allegro di un uccellino a rompere il silenzio nella mia mente, a far ripartire quel tic tac laconico dettato da una voce folle e sconosciuta.
O forse è solo la mia immaginazione a scandire quelle parole, quei tic tac, con il suono stridulo dell’ acciaio che mi lacera le orecchie e che mi divora la mente, che uccide piano, dilaniandomi il petto con atroce lentezza. Forse quei tic tac sono solo ologrammi di una mente cinica e malata, forse non guarirò mai da questa tortura, neppure se scaccio l’ uccellino che sta uccidendo il silenzio, quel silenzio interiore a cui ambisco da una vita. Quella normalità.
Tic tac tic tac
Dov’ è quel fastidioso uccellino?
Tic tac tic tac
Oh, è finito proprio tra le mie mani.

Lo guardo dimenarsi tra le mie dita pallide, lanciando versi striduli e disperati, mentre il mio braccio è ancora sospeso in aria, a tangere il vento.
Quasi mi dispiace per quell’ uccellino, è finito nel posto sbagliato e il predatore pazzo lo ha catturato. Stringo più forte la presa e mi chiedo se sia normale provare piacere nel sentire quei piccoli e sottili ossicini frangersi tra le dita e nel vedere un’ altra piccola vita che si spegne lentamente. Le mie nocche sono ancora più pallide, i miei occhi si spalancano come due fari e la follia mi dice di continuare, continuare finché quegli stridii si vaporizzano nell’ aria e finché non sento il sangue freddo inebriarmi la pelle. E nonostante io mi faccia schifo da solo continuo a stringere con un ghigno in viso che mi si allarga ogni secondo di più, con la follia che mi sovrasta urlando di continuare la mia tortura. Nonostante io abbia paura del mostro che sto diventando non ho altra scelta, sono costretto a stringere sempre di più, è la follia, è la mia pazzia che me lo dice. Ed è la paura che mi da la forza di stritolare quel corpicino, dettata dalla pazzia. Quando sento che gli stridii dell’ uccellino si fanno sempre più insignificanti e che il suo corpicino è diventato molle allento piano piano la presa e il mio ghigno sparisce quasi del tutto, lasciando posto a un’ espressione seria. La mano si schiude lentamente, come un uovo, dando alla luce il piccolo volatile in fin di vita. Qualche rivolo di sangue si ramifica seguendo le sottili e bianche linee sul mio palmo, non riuscendo però ad arrivare fino alla fine della spanna.
Finalmente il silenzio torna di nuovo ad inebriare le mie orecchie ed io infilo la mano libera, quella destra, nel camice, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che mi capiti in mano andrà bene. Oh, perfetto, proprio quello che mi serviva.
Mi siedo di nuovo all’ ombra, sotto la protezione dei rami di quell’ albero che lasciano trapelare piccoli raggi di luce del sole. Ed ecco il primo affondo, ecco la punta acuminata della mia forbice d’ acciaio che perfora il petto della vittima, inerme, che può solo affogare nel suo stesso sangue e lanciare gli ultimi flebili stridii, che sentirei se non fosse per quel tic tac ingombrante nella testa. Sembra quasi come affondare un coltello affilato nel burro, e lacerare, lentamente e inesorabilmente.
Non mi stupirei se gli Dèi mi punissero per questo. Per il mio sadismo, per il mio cuore di pietra grigia. In realtà non so neppure se un cuore ce l’ ho, sento qualcosa battere alla sinistra del mio del petto, ma non può essere il cuore. Il mio cuore è stato divorato dalla follia.
Il sangue abbandona velocemente quel piccolo corpicino e si riversa sulla mia mano, colando anche a terra, sull’ erba che era pura un’ attimo prima. E la terra risucchia in un’ istante le gocce di sangue che la punta delle mie forbici lascia cadere, sembra che anche lei sia assetata di sangue, questa Terra malata.
Riesco ad immaginare il ghigno sadico che ho in questo momento, quando la forbice torna a straziare il piccolo corpo. Rido, ma non è una risata pura, non è la risata cristallina di un bambino, è solo un ghigno sadico. È così bello sviscerare quel corpo, scoprire cosa c’ è dentro e come funziona, capirne a fondo tutti i meccanismi.
La mia curiosità mi ha portato però al limite, un limite che la maggior parte degli umani hanno paura di superare, e che io ho varcato spinto dalla curiosità, che si è poi fusa con la follia.
Per questo la gente scappa quando mi vede e le voci si fanno più basse mentre cammino per i corridoi. Nessuno osa avvicinarsi a me, a meno che non voglia finire vivisezionato, come l’ uccellino che ho appena abbandonato a terra. Ma a me non importa, ho sempre continuato a fare come mi pare senza interessarmi di ciò che pensa la gente. Non me ne è mai fregato niente, sono contento finché faccio ciò che voglio.

Appoggio la schiena all’ albero e sento dei passi venire verso di me. Sento chiaramente che si siede, dall’ altro lato dell’ albero, dietro di me, appoggiando la schiena alla corteccia. Non ho bisogno di voltare la testa di lato per vedere chi è, so già che c’ è solo una persona che avrebbe il coraggio di avvicinarsi a me così sfacciatamente. Sento la sua mano veloce rovistare e intrecciarsi tra i sottili fili d’ erba e poggiarsi sulla mia, pallida, colorata solo dalla tintura sbiadita di sangue. La sua pelle è fredda, ma il contatto con lei sembra così piacevole, così disinvolto e naturale, senza alcun timore. Ma allo stesso tempo quelle dita sembrano potermi stritolare da un momento all’ altro dopo avermi coccolato.
Per qualche secondo cala il silenzio.
-Vattene Medusa-
Il mio tono di voce non è autoritario come immaginavo. Le parole mi escono di bocca lente, calme, in tono tranquillo come se mi sentissi rilassato. Anche lei se ne accorge e si lascia scappare una risata, ma non capisco se sia di scherno oppure se è sincera.
Poi le sue dita si intrecciano con le mie, e il tic tac si fa sempre più rarefatto, fino a scomparire completamente.
-La tua bocca dice una cosa ma la tua mente ne pensa un’ altra, Stein-
Ridacchia, e la sua voce provocante ha sempre il solito effetto su di me. Sembra quasi che mi legga nel pensiero, che mi capisca, che riesca a leggermi dentro. Ed è questa sua abilità arrogante che mi fa irritare. E poi, quando pronuncia il mio nome, sento dei brividi corrermi lungo la schiena. Ma non so se sia per la voglia di stare tra le sue braccia o per il desiderio di squartarla facendo schizzare il sangue ovunque. Credo di più per la seconda.
-Si, resta qui… così ti potrò vivisezionare-
L’ ironia pungente della mia voce la fa ridere ancora, di scherno questa volta.
-Oh come sei carino-
La sua voce è come veleno, soprattutto quando esce sarcasmo dalla sua bocca da vipera. E le sue dita sono come serpenti che si attorcigliano alla sua preda. Io sono sempre stato la sua preda, sin da quando ci siamo conosciuti. Mi ha subito individuato come una preda intrigante, diversa dalle altre, come un’ esperimento interessante; era curiosa di conoscere ogni lato più oscuro della mia mente e della mia anima.
Io e te siamo uguali mi ripete sempre con voce calma, e non ha tutti i torti, anche se non mi piace ammettere che ha ragione. Medusa non parla, lei ascolta. Medusa non fa rumore, lei fa silenzio. Medusa non mi guarda con lo sguardo con cui mi osservano tutti, lei non dice “sei solo un’ ammasso di pelle e ossa senza un cuore, con le emozioni congelate nel cervello e con la follia che pervade ogni parte del tuo corpo. Sei solo il parto di una mente malata, sei solo l’ ingranaggio sbagliato del mondo, sei solo lo scarto della crudeltà umana”. In realtà nessuno me lo dice, ma so leggere gli sguardi delle persone, e di fronte a me sono tutti uguali.
Tranne lei.
Comincia ad accarezzarmi la mano lentamente, con un gesto ipnotico e quasi ingannevole che mi fa pensare che da un momento all’ altro potrebbe rompermi tutte le ossa delle dita.
Dopotutto penso che non sia poi così male stare in silenzio, senza quei tic tac perché lei non fa alcun rumore, separati solo da un tronco d’ albero.
Magari penserò più tardi a vivisezionarla.

   
 
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