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Autore: None to Blame    18/06/2012    5 recensioni
Era una brutta giornata e John lo sapeva.
E' sempre una brutta giornata quando ti ritrovi a parlare di un omicidio con un gatto grosso e grigio.
*
Il gatto che gli aveva appena fatto "pssss" aveva gli occhi gialli piantati sul viso del dottore – che, nel frattempo, era morto d’infarto e poi risorto faticosamente.
Ritrovando la capacità di articolare frasi di senso compiuto propria degli esseri umani – e dei gatti – finalmente John si decise a dire qualcosa di sensato.
«   Oh.   »
Genere: Demenziale, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Lime, Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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«   Siamo nelle tue mani, Sherlock.   »

«   Non è una novità, Lestrade. Ma è tutto piuttosto semplice.   »

«   Bene. Illuminami.   »

«   Rebecca Bwath è stata uccisa dalla fidanzata.   »

«   No, intendevo.. Accendi la luce!   »

Nel buio, si sentì un verso non meglio identificato provenire dal geniale consulente investigativo.
Poi, l’elettricità iniziò a scorrere all’interno dei fili e la luce inondò la stanza.

Era una camera da letto arredata in modo stomachevolmente rosa.
Copriletto e federe e lenzuola rosa antico, tende rosa shocking, pareti rosa cipria, vestiti rosa buttati alla rinfusa su sedie rivestite di rosa.

E poi rosso.
Proprio per terra, sulla moquette a righe rosa e bianche, una chiazza rosso sangue si allargava intorno al corpo di una donna in deshabillé.

«   Non è stata la fidanzata.   »

«   Certo che sì.   »

«   Ti dico di no.   »

«   Ti dico di sì. Perché dici di no?   »

«   Perché è in ospedale. Caduta dalle scale dieci giorni fa.   »

Sul volto dell’investigatore si dipinse un’espressione di disapprovazione.

«   Dimmi chi frequentava.   »

Lestrade tirò fuori dalla tasca un taccuino rosa – pardon, nero – e ne sfogliò le pagine.

«   Aveva alcuni amici: due colleghe, Hannah Kelly e Olivia Pollosh, e ogni tanto usciva con i vecchi compagni di scuola, più spesso con un certo John Treeman, Kenneth Nelson e Alicia Rowen. Gente che vedeva più raramente, invece, era..   »

«   Sherlock!   »

In mezzo a tutto quel rosa, era comparso anche John Hamish Watson.

«   Io sono quasi in ritardo.   »

«   Devi vederti con Sarah.   »

«   No, con una tirocinante in ambulatorio, Beatriz Faith.   »

«   E non è più eccitante questo caso? Porte e finestre chiuse, nessuno ha sentito o visto nulla, arma del delitto scomparsa, la donna che si vedeva di nascosto con un uomo mentre la sua ragazza era in ospedale.. »

Greg, dato che non stava né bevendo né mangiando alcunché, non trovò altro con cui strozzarsi che la sua saliva.

«   Ma di che stai cianciando?   »

«   Io non ciancio, Lestrade. La gente comune ciancia. Io no.   »

John decise di defilarsi prima di sorbirsi il dibattito sulla gente comune e sulle sue qualità.

«   Torno tardi, stanotte, Sherlock! Non aspettarmi in piedi!   »

«   Non lo farò.   »

E il dottore si concesse un pensiero malizioso – non ammettendolo, però, con la sua coscienza – che aveva come oggetto l’affascinante, attraente, eccitante investigatore che dormiva, con la bocca semiaperta, mugolando e rigirandosi fra le..

«   Piantala. Non andrò a letto, John.   »

Nell’imbarazzo, il dottore sparì dal luogo del delitto, riversandosi in strada.

Aveva già rimosso la fantasia perversa che lo aveva attanagliato trentasette secondi prima.
E passeggiava per le strade affollate di Londra con aria disinvolta – non avrebbe preso il taxi, la tariffa era troppo alta – e lanciava eloquenti occhiate alle tette delle donne che incrociava.

«   Pssss!   »

Qualcuno gli aveva appena fatto “pssss”.
Lo chiamava col sistema attualmente in uso presso le peggiori scuole elementari d’Inghilterra.
Si guardò intorno, alla ricerca del bambino – o adulto infantile – che lo cercava. 
Lungo la Lexington street a quell’ora c’erano ragazze in minigonna e vecchiette col bastone che arrancavano verso casa.

«   Pssss, di qua!   »

La voce proveniva da dietro le sbarre di un giardinetto privato.
John diede un’occhiata all’interno ma non vide nessuno, a parte un grosso gatto grigio con il pelo arruffato.

«   Sono qui!   »

E no.
No, no.

«   Sì, sono io.   »

Era il gatto.

Aveva gli occhi gialli piantati sul viso del dottore – che, nel frattempo, era morto d’infarto e poi risorto faticosamente.
Ritrovando la capacità di articolare frasi di senso compiuto propria degli esseri umani – e dei gatti – finalmente si decise a dire qualcosa.

«   Oh.   »

Il gatto inclinò la testa sulla destra, facendo ondeggiare la coda.

«   Niente “oh”. Ti devo dire qualcosa di importante.   »

John annuì. Sentiva di non poter fare molto altro, in quel momento.

«   So chi ha ucciso Rebecca Bwath.   »

Ancora una volta, incapace di sorprendersi e di inviare giusti impulsi ai propri muscoli, lui annuì.

«   Quell’umana mi piaceva. Ogni mattina faceva questa strada per andare in ufficio e mi lasciava sul muretto gli avanzi della cena. Deliziosi.   »

L’animale chiuse gli occhi, perso nel ricordo dei manicaretti della signorina Bwath.

«   La sera, visto che in questa casa non c’è niente da fare, uscivo e andavo a casa di quell’umana. Ogni sera facevo così. Ieri sera, saltando sul davanzale della sua finestra – aspettandomi di trovarla lì col piattino di latte e i biscottini al salmone – ho visto tutta la scena dell’omicidio.   »

Il dottore era, appunto, un dottore. Sapeva, perciò, capire quando si era ad un passo dallo svenimento. Decidendo di prevenire anziché curare, si sedette sul muretto, col gatto che gli parlava da dietro le sbarre della ringhiera.

«   Il suo vicino di casa abitava con un uomo. Quest’uomo l’avevo visto spesso a casa di Rebecca Bwath. Si accoppiavano molto spesso e – sorprendente – non ho mai visto un cucciolo. Beh, evidentemente il vicino di casa li ha scoperti e ha voluto vendicarsi di Rebecca Bwath. Gelosia.. È un difetto degno di voi umani.   »

«   C-come..   »

Ce l’avrebbe fatta a parlare. John non poteva perdere la sua dignità lasciandosi sorpassare da un felino.

«   Come l’ha uccisa?   »

«   Un coltello. Non so che ne ha fatto. Ha pulito tutto e ha richiuso la porta dall’interno con un ago e un filo – trucco bizzarro, ma efficace.   »

«   E come fai a sapere che.. queste cose le.. ehm..   »

«   Umano, esprimiti in modo comprensibile, altrimenti come potrei mai risponderti adeguatamente?   »

Il dottore deglutì pesantemente.

«   Come facevi a sapere che dovevi dirle a me?   »

Il quadrupede peloso iniziò a leccarsi le zampe.

«   Perché tu sei quell’umano che sta sempre in giro con Sherlock Holmes.   »

«   E come conosci Sherlock?   »

Il gatto alzò un sopracciglio. No, avrebbe alzato un sopracciglio se fosse stato un umano, ma, essendo un gatto.. Lasciamo perdere.

«   Le voci corrono, John Watson, soprattutto quando di zampe ne hanno quattro.   »

Lo sguardo che John gli lanciò fu piuttosto perplessa. L’animale si sentì in dovere di spiegare.

«   E’ un proverbio di noi gatti.   »

«   Ah, capisco.   »

John spostò gli occhi sulle auto che scorrevano lungo la strada.

«   E tu ce l’hai un nome?   »

«   I gatti non hanno un nome.   »

«   E come fate a chiamarvi?   »

«   Non abbiamo di questi problemi. Ma un essere umano non può comprendere. Voi e la vostra mania di dare un nome ad ogni cosa, anche a ciò che non si può vedere o toccare.   »

Il dottore annuì – stava diventando un’abitudine – e controllò l’orario. E preferì non averlo fatto. Era in mostruoso ritardo.

«   Ecco un altro nostro difetto: dipendiamo dal tempo. Infatti,  devo scappare, signor.. ehm.. signor gatto. È stato un piacere!   »

Il gatto si alzò in piedi – in zampe? – e mosse la coda.

«   Mi raccomando, si assicuri che quell’assassino finisca in galera. Arrivederci, signor Watson!   »
 
 
 
 
 
 
Mentre era sul taxi – sì, decise che una corsa in taxi poteva anche concedersela – John inviò un sms a Beatriz, avvertendola del ritardo, e telefonò a Sherlock.

«   John, sto esaminando il corpo.   »

«   E’ stato il vicino di casa.   »

«   Lo so. Ha pulito tutto, ma si è dimenticato lo stipite della porta. E la maniglia di casa sua. La fretta, immagino.   »

«   Ah.   »

«   E tu come lo sai?   »

«   Me l’ha detto un gatto.   »

«   …   »

«   Sherlock?   »

«   Gatto   »

«   Sì, gatto. Sai, quattro zampe, baffi, coda..   »

«   Hai uno strampalato senso dell’umorismo, oggi.   »

«   Ma è così! Mi ha fatto “pssss” mentre andavo da Beatriz e mi ha raccontato tutto. Come l’ha uccisa, l’arma del delitto, il movente..  »

«   …   »

«   Ci prendi gusto a rimanere in silenzio?   »

«   E tu a prenderti gioco della mia intelligenza?   »

John sbuffò.
Lo stupore e sbigottimento derivati da quell’incontro avevano lasciato abbondante spazio alla meravigliosa normalità ed eccitante routine.

«   John, ti consiglio di prendere un’aspirina. O qualcosa di più forte, prima dell’appuntamento. Ora devo andare. Mi sta colando il sangue sulla camicia.   »

«   Ma.. Sherlock!   »

Aveva riagganciato.
Il dottore si infilò con rabbia il cellulare nella tasca, fissando il mondo galleggiare fuori dal finestrino.
 
 
 





«   E com’era l’ultimo caso?   »

«   Molto eccitante   »

Quante volte era stata detta o pensata la parola “eccitante”, quel giorno?

E, come se non bastasse, John trovava eccitante – ancora – la luminosità delle ginocchia di Beatriz alla luce del piccolo pub nel quale si erano rifugiati.
Eccitante era la piega che faceva il collo quando inclinava la testa. Eccitanti erano le mani, che già la perversione del dottore immaginava infiltrate in posti oscuri.

La ragazza, scostandosi i corti capelli biondi dalle tempie, si sporse sul tavolo – peccato, non aveva una maglia scollata – e sussurrò nell’orecchio dell’accompagnatore.

«   Mi stai mangiando con gli occhi. Ti va di venire da me? Abito qui vicino..   »

John annuì – un vizio che, almeno questa volta, avrebbe portato qualcosa di buono.
 
 



I momenti che precedettero l’apertura della porta di casa Faith, mentre salivano le scale, furono i più eccitanti che John potesse ricordare.

Attimi fatti di lingue e bocca ovunque ci fosse pelle da baciare.

«   Mi occupo io della porta, Bea.   »

«   Ti occuperai di molto altro, Johnny.   »

L’eccitazione era alle stelle e gonfiava le mutande.
Già gli ansimi e i gemiti riempivano la casa.
Le mani curiose di John scivolarono sul petto morbido della compagna – seno piatto, questa volta – e corsero sotto la gonna di denim.

Accarezzò il solco fra le natiche – una pesca da assaggiare – e si infilò nell’elastico, raggiungendo la terra promessa.

E non trovandola.

Il respiro gli si mozzò in gola, mentre sulle sue dita – nelle mutandine di pizzo nero di Beatriz – qualcosa continuava a premere e a gonfiarsi.

«   Bea   »

Lei – lei?? – rispose con un gemito.

«   Cosa.. cosa c’è qui sotto?   »

Beatriz lo fissò negli occhi, comprendendo tutto all’istante.

«   Io.. Io te l’avevo detto, John.   »

Il dottore sfilò le mani da quelle mutande e si ricompose.

«   Ti avevo detto che ero un uomo, in realtà. E mi hai anche risposto che ti andava bene.   »

Doveva essere un incubo.

Un gatto che gli parlava e la ragazza che aveva desiderato per una settimana gli rivelava di essere un maschio.

Perse momentaneamente l’uso della parola, boccheggiando. Beatriz lo guardava incredula – o incredulo?

«   Non pensavo che.. Forse non mi hai ascoltata quando te ne ho parlato? Oh, certo, forse pensavi a Sherlock. Sinceramente, John, non vedo il problema. Tu sei gay, io sono un uomo. Perché non possiamo scopare e piantarla con queste sceneggiate? Non sei mica un puritano verginello!   »

«   Io non sono gay   »

No, non aveva riacquistato la proprietà di linguaggio. Il fatto è che questa frase va da sola, in automatico.

«   Certo. E io mi chiamo Biancaneve.   »

Beatriz gli si avvicinò sensuale, approfittando della sua apparenza inebetita. Gli afferrò il cavallo dei pantaloni e gli soffiò sulle labbra.

«   Una notte. Solo una notte. Ti voglio. E non te ne pentirai.   »

E mentre la sua bocca carnosa gli baciava il petto, scendendo sempre più in basso, John si pentì di essere uscito da casa quella mattina.

Pazzia o sfortuna. Tra le due il male minore.

Ma ci avrebbe pensato dopo.

Intanto, continuava a pensare a quella lingua perfetta che lo lasciava senza fiato.

E si ritrovò inaspettatamente a sperare che appartenesse a Sherlock Holmes.


   
 
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