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Autore: JulietAndRomeo    19/06/2012    8 recensioni
Io rimasi un attimo interdetta: Nick? Quel Nick? Il figlio di Jeremy? Il tipo che avevo odiato a prescindere?
Come se ci fossimo letti nel pensieroci girammo l'uno verso l'altra: «Cosa?»
«Sta zitto!», «Sta zitta!» urlammo all'unisono e continuammo: «Io?»
«Tu!»
«No!»
«No?»
«Si!»
«Smettila!» concludemmo.
questa è la prima storia che scrivo e l'ho fatto per un concorso letterario a scuola quindi non so neanche come è venuta: la pubblico perché mi piacerebbe avere un vostro parere, non so ancora quanto sarà lunga perché il concorso sarà a settembre quindi devo ancora finirla. E' un giallo/commedia perché non piacciono neanche a me le cose troppo pesanti da leggere quindi l'ho 'alleggerita'. Non vi chiederò un commento, quello deve essere a vostro buon cuore. Adesso vi lascio, buona lettura
Genere: Commedia, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1: il ricevimento.

Se il mio amore per l'ordine e la pulizia fosse esploso in quel momento, non saprei dirlo con certezza: fatto sta che stavo mettendo tutte in fila e tutte con le etichette rivolte verso l'osservatore le boccette di profumo presenti sul mobile del bagno, quando il campanello suonò. Sapevo chi era e mi ero trasferita, nella mia attuale residenza, proprio per stare lontana da lui e dalle sue insopportabili feste; essendo a conoscenza del fatto che non l'avrei fatta franca, dato il rumore minaccioso dei passi che risuonavano per le scale, mi convinsi che uscire dal rifugio sicuro in cui il bagno si era magicamente trasformato, fosse la cosa migliore.
Odiavo le cose antiche e la modernità dell'intera casa era stupefacente, ma lo scalino maledetto del bagno mi fregava sempre: scivolai molto male e arrivai così lontano, che stavo per finire nella vasca idromassaggio posizionata nell'angolo sotto la finestra.
«Macy, sei lì dentro?» domandò l'uomo che, sentito il fracasso, si era avvicinato.
«Si, esco subito» risposi rassegnata.
Dopo essermi ovviamente sistemata, aprii la porta del bagno e mi trovai davanti un uomo di mezza età, con i capelli corti e ancora neri, nonostante gli anni. L'abbigliamento era piuttosto formale e lo smoking nero cadeva alla perfezione sul corpo ancora atletico.
Quando mi vide, i suoi occhi azzurri si illuminarono e le labbra sottili si distesero in un enorme sorriso, sotto il naso aquilino: «Sei bellissima, tesoro! Vedrai che tutti ti ammireranno, una volta arrivati alla villa dei Norton!» disse con entusiasmo l'uomo.
«Papà, non posso rimanere a casa? Infondo ho un miliardo di cose da sbrigare e devo ancora sistemare alcune noiose faccende...» dissi tentando di sottrarmi alla tortura che di lì a poco si sarebbe consumata.
«Non essere sciocca, tesoro! Tutto quello che hai da fare può benissimo aspettare domani, non c'è fretta!» rispose Theodore sorridendo.
Odiava che non lo chiamassi 'papà', ma 'Theodore' mi piaceva di più quindi, nella mia testa e in sua assenza, era 'Theodore'.
«Ma...» tentai ancora di ribattere, ma lui mi chiuse la bocca con uno sguardo poco felice e io non provai più a contraddirlo.
«Jeremy sarà contento di conoscerti, bambina. Lo sai che ha un figlio della tua stessa età, più o meno? Forse un anno o due più grande di te» disse Theo, mentre scendevamo le scale.
"Già lo odio questo figlio!" pensai scocciata.
Giunti sulla soglia di casa, mi fermai: «Aspettami in macchina, spengo le luci e controllo che i codici di sicurezza siano inseriti. La signora Smith deve già essere andata a dormire e Charles è in ferie fino alla prossima settimana».
Lui mi guardò sospettoso, ma poi annuì allontanandosi in direzione della limousine nera, che stava aspettando parcheggiata fuori casa.
Spensi tutte le luci ancora accese, poche, ma sufficienti per farmi perdere un po' di tempo e farmi rimanere in vita 10 minuti in più: il mio odio per qualsiasi tipo di ricevimento era unico e rinomato, ma mio padre insisteva sempre per portarmici. Spensi l'ultima luce, quella dell'anticamera e inserii il codice di sicurezza sul tastierino all'ingresso: 18-10-20-02, la data di morte di mio nonno materno; lui mi aveva lasciato il suo intero patrimonio, che aveva un certo peso, e la sua azienda di elettronica, grazie alla quale era diventato miliardario.
Percorsi il vialetto, costeggiato dai cespugli di rose, che tanto piacevano alla signora Smith, e arrivai alla limousine. Presi un respiro profondo e salii. Impiegammo più o meno venti minuti buoni di viaggio per arrivare alla residenza estiva dei Norton, durante i quali mio padre non aveva smesso di ciarlare su quanto emozionante sarebbe stata la serata organizzata da Jessica Norton. Jessica era una donna estremamente fastidiosa: il tipo di persona che sa tutto di tutti e se una ragazza o donna che fosse, ad un ricevimento, aveva un vestito anche vagamente somigliante al suo potevi star sicuro, che di lì a poco, sarebe scoppiata la III guerra mondiale. In ogni caso, a causa dei suoi enormi fianchi, ogni vestito che indossava era paragonabile ad un sacco di patate.
Quando scorsi dalla macchina le luci del giardino della casa, presi un' altro bel respiro e cominciai a ripetere a me stessa che potevo farcela: dovevo essere forte, entro cinque minuti dall'arrivo alla festa, avrei finto un malessere o un cliente dell'ultimo momento e sare tornata a casa più veloce di Speedy Gonzales.
Probabilmente, in quel momento, dovevo essere comica accanto a mio padre: lui elargiva sorrisi a tutti ancor prima di entrare, mentre io tentavo di concentrarmi su qualsiasi cosa non fosse la mia imminente fine; guardavo, infatti, l'erba corta del giardino e le aiuole ben curate anche se solo da due giorni circa, dati gli attrezzi del giardiniere, tra cui spiccavano le buste contenenti i semi delle piante. Storsi il naso in un gesto di disappunto davanti alla falsità e all'ipocrisia di quella donna: le piante che aveva fatto installare nel giardino, erano introvabili in quel periodo dell'anno e prossime alla morte se venivano piantate con la temperatura che si riporta a Los Angeles e costavano, di conseguenza, un patrimonio. Spendere una simile cifra, per una sciocca e singola serata come questa, a che serviva?
Tuttavia, prevedibilmente, all'ingresso, incontrammo proprio lei: portava un vestito bianco (evidentemente, nessuno le aveva detto che quel colore la faceva sembrare più grassa di quanto non fosse), lungo fino a poco prima del ginocchio, con uno scollo a barca e piccoli ghirigori neri ricamati sotto il seno, scendenti sul fianco sinistro. Il risultato? Una vergogna senza precedenti: fossi stata in lei mi sarei andata a nascondere e anche di corsa, anche se, con quelle scarpe, correre era più un'utopia che una possibilità vera e propria.
«Oh, Theodore! Che piacere rivederti,» disse la stronza con la faccia siliconata. Aveva così tanto botulino negli zigomi che non riusciva neanche a fare un sorriso, per quanto falso, che non somigliasse ad un ghigno. «Quanto tempo è passato da quando...» si interruppe e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta in tutta la sua vita: «Questa è tua figlia Macy, Theo?».
Quel nome abbreviato mi diede così tanto fastidio, che al momento di stringerle la mano gliela spezzai quasi in due. «Si, sono io, signora Norton. È tanto tempo che non ci vediamo e a questo forse sono dovute le sue difficoltà nel riconoscermi» dissi mollando la presa sulla sua mano unticcia.
«Si, è probabile...» disse massaggiandosi la mano. Mi squadrò da capo a piedi e poi riprese: «Bel vestito, Macy, dove lo hai comprato?».
«Mi dispiace deluderla, signora Norton, ma non l'ho comprato: lo stilista lo ha fatto apposta per me e me lo ha regalato». "Creperà d'invidia" pensai sogghignando.
«Lo stilista?» chiese la Barbie siliconata.
«Si, Giorgio mi regala sempre qualcosa quando viene a Los Angeles» dissi serafica.
La vidi sbiancare e sapevo che il pesciolino aveva abboccato all'amo: «Giorgio?» disse deglutendo a fatica: «Giorgio, quel Giorgio? Armani?».
«Ma certo! Quanti stilisti famosi conosce che portano il nome Giorgio?» annuii sorridendo.
Lei non rispose, troppo occupata a capire quanto sarebbe potuto costarle un vestito come il mio; non era niente di sfarzoso, anzi era molto sobrio: era un vestito di seta verde smeraldo, monospalla e la gonna, stretta in vita da una fascia di seta argentata, si allargava man mano che si procedeva verso i piedi e terminava in un piccolo strascico. Avevo anche una piccola pochette Swarovski, rettangolare, tempestata di strass, dove ero riuscita (non so come) ad infilare il cellulare e il portafoglio, e dei sandali con tacco gioello abbinati alla borsa.
Dopo essersi congedado, mio padre mi portò via da una scioccata Jessica e, spingendomi per la vita, mi condusse nel salone centrale: era un salone grande, con lampadari e luci ovunque, persino sui tavoli, su cui era sistemate delle fontane di champagne, accompagnate da decorazioni floreali alla base, il tutto appoggiato su tovaglie scarlatte. Al centro della sala, di fronte alle scale, la pista da ballo era occupata da da coppie che volteggiavano accompagnate da una piccola orchestra, sistemata sua una pedana rialzata in un angolo. Ammetto che l'ambiente non era male, ma non ebbi il tempo di osservarlo a lungo, poichè mio padre mi spinse verso alcune persone intente a discutere tra loro.
«Kate, Elizabeth, Edmund, questa è mia figlia Macy, qualche tempo fa ve ne avevo parlato» disse mio padre sorridendo orgoglioso.
I sopracitati Kate, Elizabeth ed Edmund, mi guardarono come si guarda un pezzo di bigiotteria in un negozio di oggetti preziosi: con disgusto. Mi stampai quindi un sorriso tanto falso quanto malvagio sul volto, pronta a farli pentire anche di essersi presentati al ricevimento e dissi: «Piacere di conoscervi, io sono Macy, mio padre mi ha parlato così tanto di voi! Per esempio, so che voi, Elizabeth, facevate la cameriera prima che il vostro fidanzato vi chiedesse di sposarlo... e voi, Edmund, quando è stata l'ultima volta che avete tradito vostra moglie? Ieri? L'altro ieri? E voi...».
A quel punto mio padre, notate le facce scandalizzate dei suoi 'amici', mi interruppe e, con una scusa, mi portò via. «Tesoro, sei impazzita? Che ti è preso?» mi disse.
Lo guardai scocciata: «Hai, anche per sbaglio, visto come mi hanno guardata? Non credo ci sarebbe stata differenza se avessero visto un animale morto, già in decomposizione!» dissi scandalizzata che se la prendesse con me.
«Come cavolo hai fatto a capire che Elizabeth faceva la cameriera e che Edmund tradisce la moglie?» mi domandò Theo dopo avermi guardata in silenzio per un attimo.
«Beh, la 'donna' con la puzza sotto al naso» incominciai, mimando le virgolette, «Hai notato che piedi gonfi ha? Erano strizzati dentro le scarpe segno che ha smesso di fare la cameriera da pochissimo; l'altro deficiente, giocava con la fede nuziale mentre parlava e, quando l'ha rimossa, ho notato che il lato interno era pulito, lucido addirittura, mentre quello esterno più sporco, segno che l'anello viene rimosso spesso. C'è altro?» domandai, risultando un po' impertinente.
«Non capirò mai come fai, tesoro» disse mio padre rassegnato, scuotendo la testa: «Credo sia meglio che io non ti presenti più nessuno, Macy: non vorrei qualcun'altro abbia segreti più oscuri di Edmund» continuò poi, ridendo sotto i baffi.
Annuii sorridendo sapendo già di essere stata graziata dalla sorte.
Appena mio padre si allontanò, mi guardai attorno, cercando con gli occhi un rifugio dove nascondermi: un surrogato del bagno di casa mia praticamente, dove poter stare cinque minuti in pace. Mi avviai quindi, verso l'angolo con meno persone e incrociai un corridoio che portava alle ale interne della casa. Stavo camminando da un minuto, ammirando i quadri appesi alle pareti, quando un lieve tocco sulla spalla mi fece sobbalzare.
«Ti sei persa?».
Un ragazzo giovane della mia stessa età, più o meno, mi stava guardando incuriosito: aveva i capelli lisci e biondi, che ricadevano leggeri sugli occhi; questi ultimi sfumavano dal verde all'azzuro: davvero belli. Era, ovviamente, più alto di me, anzi credo che ci fossero circa dieci centimetri di differenza tra me e lui... e in quel momento indossavo un tacco da quindici centimetri! Le labbra erano rosse, come se le avesse morse ripetutamente, ed non erano troppo carnose, ma nemmeno troppo sottili, inoltre, spiccavano sulla pelle lattea. Il fisico era abbastanza slanciato e sotto la camicia bianca, si intevedevano dei muscoli appena accennati, frutto di qualche ora di allenamento, supposi. Indossava dei pantaloni neri che gli fasciavano perfettamente le gambe toniche, delle scarpe nere tirate a lucido e teneva la giacca, dal colletto, su una spalla, mentre la cravatta nera era allentata. Il tutto gli conferiva un'aria da bello e dannato.
«No, no, stavo solo... emh... non so cosa stavo facendo, probabilmente mi nascondevo» ammisi sorridendo.
«Ti nascondevi» affermò, guardandomi con sospetto.
«Mi nascondevo» confermai.
«E da chi?».
«Da mio padre».
«Da tuo padre».
«Da mio padre» confermai ancora.
«Perché?».
«Odio le feste».
«Odi le feste».
«Odio le feste» affermai sicura: «Adesso, se abbiamo finito con questa specie di dialogo, ti chiederei il tuo nome. Sempre se sei d'accordo».
Lui parve pensare in quel momento che ancora non sapeva neanche come mi chiamavo: «Nicholas e tu?».
«Macy» dissi stringendogli la mano.
Tornammo nel salone centrale, dopo aver conversato per qualche minuto. Nick, come disse di volersi fare chiamare, era un ottimo interlocutore: conosceva bene la letteratura e l'arte, oltre che la storia e le scienze. Stavamo parlando di arte, quando mi chiese in che scuola andassi: «Scuola?» chiesi sorpresa.
«Si, scuola, quella in cui tutti i ragazzi, compresi in un certa fascia d'età, vanno» mi disse ridendo.
«Io non vado a scuola da quando avevo otto anni e capii di essere profondamente allergica a qualsiasi tipo di organizzazione scolastica» risposi convinta.
Per tutta risposta, lui mi guardò come gli avessi appena detto, come se niente fosse, che lavoravo per la C.I.A. ed ero a conoscenza dell'esistenza degli alieni.
«Stai scherzando vero? Cioé, tu sei andata a scuola dopo gli otto anni, giusto?» mi chiese con cautela.
«No» risposi tranquilla.
Si bloccò in mezzo al corridoio, mentre io proseguii consapevole di averlo lasciato basito.
«Hey, Macy! Aspetta!» mi chiamò mentre mi inseguiva.
Notai, mentre Nick mi raggiungeva, mio padre parlare con un uomo.
L'uomo aveva i capelli biondissimi, quasi bianchi ed era vestito anche lui con smoking e scarpe lucidi. A loro si stava avvicinando una donna, con i capelli neri, raccolti in una morbida crocchia allla nuca, e la pelle bianca, che indossava un abito nero, lungo e molto semplice. La donna mise una mano sulla spalla dell'uomo con cui conversava mio padre: probabilmente erano sposati. Mi avvivcinai a Theo per dirgli che la serata mi aveva annoiata e che sarei andata a casa, ma lui mi fece segnale di fermarmi; notai che anche l'uomo e la donna fecero un segnale nella mia direzione, ma non gli diedi molte peso. Rassegnata, con il solito sorriso di circostanza, mi avviai verso mio padre e la coppia in sua compagnia. «Macy, ti presento Jeremy Black e sua moglie, Bonnie» disse mio padre, quando fui abbastanza vicina.
Strinsi le mani ai due coniugi e, a pelle, provai un moto di simpatia nei loro confronti. Anche se, ricordai, avevano un figlio da presentarmi. Mi convinsi che la serata e con essa la mia tortura, non sarebbe finita mai. «È un piacere conoscerti, Macy, Theodore ci ha parlato così tanto di te! Sei il suo orgoglio e devi vedere come gli si gonfia il petto quando parla della sua bambina!» mi disse la signora Black.
«Vedo che, tu e Nick, vi conoscete già, beh, meglio così no? Non c'è bisogno di presentazioni» continuò il marito della signora indicando il ragazzo con cui fino a poco tempo fa stavo parlando.
Io rimasi un attimo interdetta: Nick? Quel Nick? Il figlio di Jeremy? Il tipo che avevo odiato a prescindere?
Come se ci fossimo letti nel pensieroci girammo l'uno verso l'altra: «Cosa?»
«Sta zitto!», «Sta zitta!» urlammo all'unisono e continuammo: «Io?»
«Tu!»
«No!»
«No?»
«Si!»
«Smettila!» concludemmo.
Nel frattempo, durante il nostro acceso 'dibattito', i nostri genitori ci guardavano stupiti, un pò come tutto il resto della sala. Dopo la nostra performance, ci guardammo negli occhi un'ultima volta, consapevoli dell'attenzione che tutti i presenti ci stavano rivolgendo, e scoppiammo a ridere.
A fine serata, mentre ci avviavamo verso le auto, Nick mi chiese se ci saremmo potuti vedere anche al di fuori di un noioso ricevimento.
«Certo! Anzi, mi farebbe piacere» dissi sorridendo: «Io abito al 353 di San Vicente Boulevard, non so se conosci la zona, è in prossimità di Malibù» continuai mentre gli scrivevo l'indirizzo sulla mano.
«Come ti trovi con tuo padre? Ad abitare insieme a lui, intendo» mi disse Nick.
«Io non abito con mio padre. Appena ho compiuto diciotto anni sono andata via e, con l'eredità di mio nonno materno, ho comprato la casa in cui vivo. Non potevo sopportare la sua smania per i ricevimenti e le feste; inoltre, ha sempre tentato di sostituire mia madre da quando è andata via, non fraintendermi, io gli voglio bene, ma era diventato un pò troppo soffocante per i miei gusti» risposi noncurante.
«Mi dispiace non volevo rivangare brutti ricordi» disse Nick, scusandosi.
«Non preoccuparti, detto tra noi, sto benissimo da sola con la signora Smith, Charles e le due cameriere» dissi strizzando l'occhio nella sua direzione.
In quel momento, mio padre mi chiamò e io mi affrettai a salutare Nick e a correre verso la limousine.
   
 
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