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Autore: adamantina    20/06/2012    1 recensioni
Sono passati tre anni da quando Vanessa, Damien, Lily, Charlotte, Blake, Arthur e Jonathan si sono separati con l’intenzione di tornare alla loro vita normale. Ma cosa significa normale per chi è dotato di poteri che potrebbero cambiare il mondo? Blake non si è arreso e continua a lottare. Ma anche chi ha da tempo rinunciato a combattere per un mondo più giusto dovrà tornare in campo quando le persone a lui più care saranno minacciate …
«Non puoi biasimarci per averne voluto restare fuori, Blake. Quello che tu stai facendo è fingere di essere ancora al Queen Victoria’s, e ti rifiuti di andare avanti con la tua vita. […]»
«Stavo cercando di impedire un omicidio!»
«Sei un idealista» taglio corto, incrociando le braccia. «Ammettilo, lo sei sempre stato. E credo che il tuo vero scopo sia riportare Lily sulla retta via. Ammettilo, ancora ci speri […].»
Genere: Dark, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Queen Victoria's College'
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Note: come potrete notare quando sarete arrivati alla fine, il capitolo e la storia si concludono con quello che era il prologo.

Seguirà ancora un epilogo, tra breve, che spiegherà anche tutto ciò che in questo capitolo non è stato chiarito. E a seguire, la one-shot promessa.

A presto!

 

~RUN~

 

[Jonathan]

 

Io e Charlotte partiamo non appena lei si è fatta dare un'occhiata.

Sapere che è stata picchiata è stato un colpo tremendo, mi sono sentito in colpa per non aver deciso di andare via con lei... poi, però, ho pensato che, se l'avessi fatto, forse gli altri non sarebbero riusciti a compiere un salvataggio come quello che io e Blake abbiamo messo in piedi (con grande stile, oserei dire).

In ogni caso, ora siamo pronti per farci ricevere dal Presidente degli Stati Uniti.

Il viaggio in taxi procede nel silenzio più assoluto; siamo immersi nei nostri pensieri.

I miei occhi, ogni tanto, guizzano verso Charlotte. Non posso fare a meno di ricordare il momento in cui sono entrato nella sua cella e lei mi ha gettato le braccia al collo: ero così sollevato, così incredibilmente felice di rivederla che, per un momento, ho dimenticato tutto il resto.

Eppure...

Eppure, adesso, questo ricordo passa in secondo piano; prepotente, se ne riaffaccia un altro.

«Ho litigato con Arthur. Continuava ad incolpare me e poi … Eravamo sconvolti...»

Stringo istintivamente i pugni al ricordo. Ero così furioso...

Dopo la morte di Jack, tutto sembrava aver perso di significato.

Charlotte e gli altri mi ripetevano che io non avevo colpe, ma ho sempre saputo che era esattamente il contrario.

Dio, se ripenso alla telefonata con mia madre...

Un nodo mi stringe di nuovo la gola, perciò cerco di allontanare il pensiero dalla mente.

Quando almeno qualcosa, per quanto piccolo e di minima importanza rispetto all'enormità della morte di Jack, sembrava essere tornato al suo posto -Charlotte tra le mie braccia, finalmente- anche quello mi è stato bruscamente sottratto.

«Jon?»

La voce di Charlotte mi richiama alla realtà. Alzo gli occhi.

«Sì?»

«Mi dispiace. Per tutto.»

La osservo per un istante, quindi annuisco lentamente. Non ho la forza, né il coraggio, di dire nulla.

 

Il taxi si ferma a pochi metri dalla Casa Bianca. Io e Charlotte, dopo aver pagato, scendiamo e ci avviamo verso l'ingresso.

Dobbiamo informare il Presidente che i terroristi stanno pianificando un attentato che avrà luogo tra poche ore, con lo scopo di impadronirsi della formula che darebbe a tutti l'accesso ai superpoteri.

Insomma, routine quotidiana.

Siamo quasi arrivati, quando qualcuno ci chiama per nome.

Ci voltiamo, ma abbiamo riconosciuto entrambi il tono freddo, che ci è fin troppo famigliare.

Ivan Vahel.

 

[Damien]

 

Arthur si sta facendo medicare le ustioni. I medici mi hanno impedito di restare nella sua stanza, perciò ho deciso di fare un giro a trovare Vanessa, che però stava dormendo.

Allora ho fatto due passi nel reparto maternità, e ora eccomi qui davanti alla nursery. I miei occhi indugiano sulla targhetta identificativa di uno dei lettini: Dawn Emma Gray.

È minuscola e avvolta in una copertina rosa; dorme con le manine strette a pugno.

Sono semplicemente esausto. Il dolore delle percosse che ho subito non è ancora sparito, nonostante gli antidolorifici che mi hanno somministrato al pronto soccorso. Ho bisogno di riposare.

Do la colpa alla stanchezza per i pensieri strani che mi aleggiano nella mente.

Guardando Dawn, infatti, una parte di me si rende conto che io non proverò mai questa esperienza -diventare padre- con la persona che amo. C'è una certa tristezza di fondo, in questo, qualcosa che non riesco bene ad afferrare.

«Damien?»

Mi riscuoto e mi volto. Arthur è comparso alle mie spalle, tanto inaspettatamente che per un istante penso si sia teletrasportato -ma poi mi ricordo che non può più farlo, perchè per salvarmi la vita ha perso i suoi poteri.

«Ehi. Tutto a posto?»

«Sì... a parte il terzo grado che ho subito. I medici volevano sapere come mi ero procurato quelle ustioni, e la spiegazione “sono stato rapito da una banda di terroristi” non li ha convinti.»

Sorrido.

«Sì, posso immaginarlo.»

Art mi raggiunge e, senza pensarci, mi stringe in un abbraccio. Colto di sorpresa, ricambio la stretta. Gesti di affetto in pubblico non sono la norma, per lui, perciò mi preoccupo un po'. Ma lui parla prima che io possa chiedergli quale sia il problema.

«Ho avuto paura per te» sussurra sulla mia spalla. «Quando eravamo in quella cella... prima ero spaventato per me, quando hanno usato quell'attizzatoio. Poi, quando hanno preso te...» Si interrompe, la sua stretta aumenta. «Avrei voluto parlare. Se avessero continuato ancora, penso che lo avrei fatto. Non potevo rischiare di nuovo di perderti.»

Resto in silenzio per un momento, cercando le parole giuste per rispondere.

Vorrei fare un discorso serio, esprimere con esattezza tutto quello che ho provato, il terrore quando ho visto quello che gli avevano fatto, il senso di colpa quando ho capito che aveva perso i poteri per me... eppure non riesco a dire nulla di tutto questo.

Le parole giuste che riesco a dire sono solo due.

«Ti amo» mormoro, ancora stretto a lui.

Arthur sorride debolmente e si allontana un po', solo per riuscire a posare le labbra sulle mie, piano.

«Ti amo anch'io» replica in un soffio.

Poi mi bacia e perdo la cognizione del tempo, almeno finché qualcosa non mi distrae.

Davanti ai miei occhi, superate le barriere che ho eretto nella mia mente, si staglia una visione chiarissima.

Vedo tre volti che conosco. Due sono apparentemente privi di sensi: Jonathan e Charlotte. Un terzo, invece, li osserva con un certo compiacimento prima di allontanarsi rapidamente.

Sussulto e mi allontano da Arthur.

«Oh, no» gemo. «Chiama Blake. Dobbiamo andare.»

 

[Arthur]

 

Io, Damien e Blake saltiamo su un taxi fuori dall'ospedale a velocità supersonica.

«Sei sicuro che siano lì?» chiede Blake, teso.

«Sì. Ho riconosciuto i pavimenti e la tinta alle pareti. Sono alla Casa Bianca» replica Damien.

«Privi di sensi?»

«Sì.»

«E con loro c'era Vahel?»

«Blake, ripeterlo non aiuta.»

«Scusa. Continuo a non capire... mi sfugge qualcosa.»

«In realtà è piuttosto ovvio» ribatto, gli occhi chiusi, i palmi premuti sulle palpebre, combattendo la sensazione di intorpidimento causata dai farmaci antidolorifici.

«Illuminaci, allora» sbuffa Blake, piccato.

«Vahel è d'accordo con i terroristi, giusto? Ma il Presidente crede che sia dalla sua parte.»

«E quindi?»

«Quindi deve aver impedito -o impedirà, a seconda di quando si verifica la visione di Damien- a Charlotte e Jonathan di avvertire il Presidente dell'imminente attacco terroristico. Il fatto che loro siano alla Casa Bianca significa probabilmente che Vahel deve aver incolpato loro, anzi, noi di qualcosa. Sai cosa? Credo che abbia detto al Presidente che noi mutanti stavamo organizzando un attentato contro di lui.»

«Ma... quindi l'attentato avverrà?»

«Sì, a meno che non riusciamo a contattare il Presidente e a convincerlo ad avvertire la CIA... O almeno ad evacuare la Casa Bianca.»

«E se l'attentato riuscisse» conclude Damien, comprendendo le conseguenze, «Ne verremmo incolpati noi, non di certo Vahel.»

«Già. Un buon piano, eh?»

Il taxi si ferma ad un paio di isolati dalla Casa Bianca. Paghiamo e scendiamo.

Scommetto che Vahel ha spie ovunque; ci individuerà con facilità estrema. Se solo ci fosse Vanessa, con la sua invisibiltà... o se io potessi ancora teletrasportarmi...

Mentre discutiamo sul da farsi -spostandoci verso l'isolato successivo per non dare nell'occhio- mi viene un'idea improvvisa.

Spalanco gli occhi.

«Damien!» esclamo.

Lui alza gli occhi.

«Cosa?»

«Stavo pensando... ti abbiamo impiantato i miei poteri, giusto? Per farti guarire.»

«Sì, e allora?»

«Quando i poteri sono stati trapiantati a Lily, lei li ha potuti usare.»

Damien tace per un istante, processando l'informazione, quindi scuote la testa.

«Io non sono invulnerabile» replica. «Hai visto cos'hanno fatto i terroristi. Probabilmente ho consumato tutto il potere che mi hai trasmesso per guarire.»

«Oh.»

Mi sgonfio, realizzando che ha ragione. Una possibilità andata in fumo.

«Forse potremmo entrare con...» comincia Damien, ma viene interrotto da una voce famigliare.

Quando ci voltiamo di scatto, è già troppo tardi.

Il proiettile schizza verso di me e mi colpisce al collo. Capisco subito di cosa si tratta: è un ago, probabilmente carico di Pentothal.

Vahel deve avermi colpito per primo ritenendomi il più pericoloso. Per un istante quasi mi aspetto di sentire gli ormai noti effetti collaterali, ma realizzo in fretta che non succederà proprio nulla. Non ho più poteri da neutralizzare.

Nel frattempo, Vahel ha sparato in direzione di Blake, ma questi ha schivato il proiettile e sta tentando di centrare l'avversario con una scarica di energia.

«Occhio a destra, Blake!» urla Damien, concentrato sul prevedere l'immediato futuro, e impedisce nuovamente a Vahel di centrare il bersaglio.

Damien mi fa un cenno eloquente e capisco subito cosa dovrei fare. Esito per un istante, quindi mi lancio di corsa verso la Casa Bianca.

 

[Blake]

 

Quando finalmente, grazie all'aiuto di Damien, riesco a centrare Vahel con una scarica di energia degna di questo nome, lui salta in aria e atterra qualche metro più in là, sul marciapiede, privo di sensi.

«Andiamo» dico a Damien, seguendo il percorso intrapreso poco prima da Arthur.

Per entrare nella Casa Bianca devo far saltare in aria altre cinque guardie.

Mi rendo conto che questo farà una pessima impressione sul Presidente, e che le possibilità che creda a quello che gli racconteremo sono praticamente nulle... ma almeno avremo fatto tutto il possibile per avvisarlo.

In fondo, sono più di tre anni che lotto per salvare il Presidente, sia egli quello precedente o quello attuale, e non mi darò per vinto ora.

Anche se gli spari mettono a dura prova questa convinzione.

«Codice rosso! Codice rosso! Attacco all'interno!»

«Beh, se il nostro obiettivo era di far evacuare la Casa Bianca, credo che ci siamo riusciti, Blake» commenta Damien, senza fiato, correndo accanto a me.

Mi sfugge un sorriso esausto, ma in effetti ha ragione.

Acceleriamo, mentre faccio saltare le guardie che si mettono in mezzo con tutta l'energia che mi resta. Fatico a sentirmi le gambe, ormai, tanto sono stanco, ma è necessario arrivare allo Studio Ovale.

Gli spari risuonano sempre più forti, sempre più vicini, e il mio cuore martella all'impazzata.

Manca così poco, così poco...

Poi sento l'urlo soffocato.

Subito non ci faccio troppo caso, ma mi accorgo che Damien si ferma immediatamente.

Al primo segue un altro urlo, stavolta femminile e distintamente riconoscibile.

Charlotte.

Io e Damien ripartiamo di corsa. Li vediamo nel corridoio successivo.

Jonathan è in forma di felino bianco -una delle sue preferite, penso stupidamente- e ringhia con ferocia, le zanne insanguinate scoperte in un chiarissimo gesto di minaccia.

Le guardie si stanno avvicinando, ma anche loro temono la furia del predatore infuriato.

Charlotte è inginocchiata a terra, le mani sporche di sangue, il respiro affannoso. Per un istante penso che dev'essere ferita -ma poi mi sposto di un passo verso di loro e vedo.

E capisco.

Sento il grido straziato di Damien, che mi supera di corsa e si butta a terra accanto a Charlotte.

«No» lo sento ansimare.

Charlotte mormora qualcosa, la voce rotta, ma non la sto ascoltando.

Osservo le guardie che si fanno sempre più vicine, le pistole cariche e pronte a far fuoco. Mi affianco a Jonathan e allungo le mani, pronto ad impedire loro di fare altro male, ma so che abbiamo ben poche possibilità. Almeno finché il corridoio non prende fuoco.

Lily.

Lei si fa largo tra le fiamme come se niente fosse, mentre le guardie indietreggiano gridando.

Prende atto della scena con gli occhi stretti e si morde il labbro inferiore con forza. Mi guarda.

«Lo Studio Ovale è alle vostre spalle. Tra poco le guardie spegneranno l'incendio» dice, cercando evidentemente di far sì che la sua voce non si spezzi.

So che l'immagine che abbiamo davanti agli occhi ci resterà impressa a fuoco nella mente per lungo tempo. Sono esausto, e il dolore che provo brucia nelle mie vene come l'incendio che divampa a pochi metri da noi.

Arthur è disteso a terra, gli occhi sbarrati, una pallottola nel petto.

Charlotte piange, Damien è pietrificato e Lily mi offre una possibilità.

Capisco ciò che quel gesto sottintende.

Facciamo in modo che non sia invano.

 


Vorrei poter piangere.
Vorrei poter cadere in ginocchio e crollare.
Vorrei averne il tempo.
Ma l’orologio scandisce i secondi inesorabilmente, e di tempo non ne abbiamo più.
E allora sono io, ancora una volta, a prendere il comando e a riscuotere gli altri.
Non c’è più nulla che possiamo fare, qui, ma poco lontano il nostro intervento potrebbe salvare un’altra persona. Salvare il nostro Paese.
So che capiranno.
So che lui capisce, quando si alza e si asciuga le lacrime dal viso, e annuisce appena.
E allora corriamo –veloci come la luce, veloci come la morte, perché il nostro futuro dipende da questo.
Anche se adesso è difficile pensare che possa esistere un futuro, una casa in cui tornare se mai tutto questo potrà finire.
Alla fine, sono stanco anch’io.

   
 
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