Salve a tutti
gente, dopo tanto tempo torno alla carica con una fan fiction a cui mi sono
molto dedicata…scusate se per molto tempo non ho pubblicato nulla, ma l’ispirazione
mancava totalmente…
Buona lettura!
Il Nazista che pregava Dio
Entrò piano nella
chiesa, il fucile abbandonato al di fuori di essa.
I suoi anfibi neri
facevano rimbombare un suono ritmico e sinistro all’interno delle navate dell’edificio
quasi completamente vuoto, ad esclusione di un prete che armeggiava con le
ostie e l’acqua Santa.
Si sentiva sporco,
dannatamente sporco nel profanare con la sua esistenza impura quel luogo sacro,
ma voleva, doveva fermarsi un attimo e riabbassarsi al livello di tutti.
Un livello
indicibilmente valicato da persone egocentriche che non vogliono altro se non
la guerra e il sangue.
Spostò i suoi
occhi di ghiaccio su una suoretta piuttosto minuta chinata sul primo banco e le
si affiancò, inginocchiandosi a terra.
«Mi scusi,
sorella. Saprebbe dirmi come si fa a pregare?»
La donna, che
scoprì essere molto giovane non appena si volto verso di lui, lo guardo per un
momento, gli occhi sapienti e silenziosi di chi a visto tanto ma che conserva
ancora la bontà d’animo.
Era pronto ad accogliere
uno sguardo di scherno e disgusto, conseguenza delle vista della sua divisa e
di quel dannato ciondolo che doveva obbligatoriamente portare al collo.
Invece, dalla
suora ricevette un sorriso, un’espressione dolce e una lieve stretta di mano,
gesti a cui non era più abituato, gesti sostituiti dalle dure espressioni dei
cadetti e dei soldati e da quell’unica frase, ripetuta fino allo sfinimento.
Ja, Sir.
Fino alla fine,
qualsiasi ordine gli venisse impartito.
Quelle due
semplici parole erano le uniche che doveva pronunciare.
Sì, signore. Mai una
negazione. Pena la morte.
«Parla al Signore,
figliolo. Lui ti ascolterà sempre, ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu sia. Parlagli,
e raccontarli tutto. Chiedigli aiuto, lui te lo darà. Prega a modo tuo,
ragazzo, perché nessuno può sapere cosa l’altro vuole chiedere in grazia.»
Rimase interdetto
per una manciata di secondi, finché non capì cosa quella donna volesse davvero
dirgli.
Non gli avevano
mai insegnato le preghiere, a malapena conosceva il Vater Unser, lui non ne avrebbe mai avuto bisogno, secondo i suoi
insegnanti.
Quella donna però
gliel’aveva fatto capire chiaro e tondo, ognuno poteva pregare, anche
semplicemente parlando, sia che fosse un uomo senza colpa che un nazista, sia
che fosse stesso a letto che accampato in una tenda lercia e malamente montata.
Così ricambio quel
sorriso e quello sguardo benevolo, si girò verso l’enorme crocifisso che si
stagliava sopra l’altare e congiungendo le mani chiuse gli occhi.
E per la prima
volta nella vita, non disse solo quello che doveva dire.
Ma tutto quello
che voleva.
Signore Dio, ti
dico subito che io non so pregare bene come credo che faccia la donna qui al
mio fianco. Non mi hanno mai istruito al culto della religione, ma ho sempre
pensato che tu ci fossi, in qualsiasi istante.
Da troppo tempo
ormai sono abituato a dire solamente “Ja, Sir”, per la codarda paura di essere
fustigato, ma ogni volta che vedo quegli ebrei, quelli che io sono costretto a
portare nel campo di sterminio, che nonostante tutto non smettono di credere,
di sperare, di pregare, mi sento indegno della vita che mi hai donato.
Pregano in
silenzio, rannicchiati in angoli bui dei dormitori, e appena entrò si voltano
di scatto fissandomi terrorizzati, come se sapessero che devo far loro del male.
Mai io non
voglio, Signore, non ho mai voluto, se fosse per me starei ancora giocando nel
giardino di casa mia con il mio cuginetto di tre anni, ho solo subito le
conseguenze di una guerra senza senso contro un popolo innocente.
Ho paura, Signore,
ho paura.
Ogni volta che
varco la soglia aggrovigliata dal filo spinato e vedo uomini, donne e bambini
nudi che si fanno da parte appallottolandosi a terra mentre mi fissano ad occhi
sbarrati mi assale il panico e mi terrorizzo.
Mi sento un
mostro, una creatura schifosa e maledetta che deve solo ripetere “Ja, Sir”, e
nient’altro.
L’altro ieri ho
rivisto una ragazza, anzi la ragazza.
Quella ragazza
forte e sicura che ho amato per un sacco di tempo, con la quale ho vissuto e
con la quale ho condiviso i momenti più belli della mia esistenza., quella
ragazza che un tempo si chiamava Nadja e non 375642*.
Quella ragazza
che un tempo aveva lunghi capelli castani, e grandi occhi vivaci, e che ora è
calva e ha gli occhi spenti e spauriti di qualcuno che preferirebbe morire
piuttosto che continuare a vivere in un simile inferno.
Quella ragazza
che un tempo era formosa e solare, e che ora è scarna e immobile, a fissarmi
sul ciglio della strada con occhi pieni di lacrime.
Finita l’escursione
giornaliera siamo tornati all’accampamento. Con la scusa di andare in bagno mi
sono rifugiato in una baracca abbandonata appartata dagli innumerevoli soldati
e ho pianto, così tanto che credevo di aver esaurito le lacrime.
Ma purtroppo mi
sbagliavo, e l’ho scoperto solo quando ieri ho dovuto portare il suo cadavere
al forno crematorio.
Ho approfittato
del trambusto che c’era quel giorno, sono corso alla prima casa che ho trovato
in quel posto orrendo, mi ci sono rifugiato dietro in modo da non essere visto
e ho lasciato che la disperazione prendesse forma e diventasse acqua salata.
Quando ho riaperto gli occhi c’era un bambino
che avrà avuto si e no quattro anni.
All’inizio ho
creduto che fosse un comunissimo, povero
bambino curioso che rimaneva senza genitori ma non lo sapeva.
Ma quando l’ho
guardato bene e ho visto quegli occhi azzurri e quei capelli castani che ho
accarezzato innumerevoli volte non ho capito più nulla e sono svenuto come un
sacco di patate.
O Dio, ho già
visto morire la mia donna, non ho intenzione di veder morire anche mio figlio.
Fai finire
questa guerra, fai cessare l’odio e la disperazione, ma soprattutto perdona
tutti i soldati giovani come me, perché anche loro alla sera piangono, e
stringono al petto foto di persone che non vedranno mai più.
Ferma questo
caos prima che io mi spezzi, perché è vero, posso sembrare duro, ma i miei
occhi sono stanchi di vedere cadaveri, sangue, e soprusi, le mie mani sono
stanche di impugnare i fucili, le mie orecchie sono stanche di sentire urla,
rantoli e singhiozzi.
Cessa tutto
questo, per favore, prima che anche tutti quei bambini, insieme a mio figlio,
tutte quelle creature innocenti paghino la conseguenza di una colpa inesistente.
Perdona tutte le
morti che sono costretto a compiere, tutte le punizioni che devo infliggere, perché
io prima di essere un tedesco nazista sono un uomo, con delle emozioni, e odio
vedere cadere le persone per mano mia.
Te lo chiedo per
favore, lo so bene di non essere degno di essere ascoltato, ma se mai avrai
voglia di curarti di un mostro come me te ne sarò infinitamente riconoscente.
Che la tua luce
mi guidi sempre.
Amen.
Riaprì gli occhi,
scoprendoli offuscati da un velo umido che aveva imparato ad odiare e vide la
suora al suo fianco fissarlo preoccupata e triste.
Si alzò, facendo
per andarsene, e asciugò in fretta le guancie bagnate per mostrarsi forte, ma
venne fermato da un paio di braccia che gli circondarono le spalle.
Sentì la testa
della donna posarsi fra le sue scapole, e la presa di quelle piccole mani farsi
più salda contro la sua divisa.
«Non so cosa tu
abbia detto, e non posso nemmeno lontanamente immaginare tutto ciò che devi
subire. Ma ti dirò una cosa. Non smettere mai di credere, anche quando pensi
che sia tutto finito. E non perdere mai la capacità di piangere e di ridere, perché
non sei un robot e hai bisogno di emozioni. Ora va, prima che i tuoi superiori
ti vengano a cercare, e ricorda: prega ovunque vuoi, qualsiasi cosa tu sia, perché
davanti agli occhi del Signore nessuno è diverso dagli altri.»
Rimase immobile a
riflettere, finché non si decise a compiere una cosa di cui credeva non essere
più capace.
Strinse le mani
della suora ancora salde sul suo stomaco fra le sue, e mormorò una parola
troppo corta e breve per esprimere tutta la gratitudine che provava.
«Grazie, sorella.»
*Nei campi di
concentramento, gli ebrei venivano marchiati con dei numeri. In seguito, se
dovevano essere identificati, non veniva chiamato il loro nome, ma solo il
numero con cui erano stati segnati.