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Autore: Shu    09/01/2007    9 recensioni
Due anni prima dell’origine dell’uragano Kira, di ritorno dall’America per il caso che ha svolto sotto la guida di L, Naomi Misora fa un incontro molto particolare… Un piccolo sguardo, oltre che su Naomi, su L, e il modo in cui lui guarda il mondo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Naomi Misora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli aeroporti le avevano sempre fatto un po’ d’effetto.

Forse erano più che altro le partenze in sé, a farle effetto, ma nelle stazioni, alle fermate dei pullman, fuori della metropolitana lo avvertiva molto di meno.

Probabilmente era perché in aereo si facevano i viaggi più lunghi, e allora ai cancelli t’imbattevi in genitori stretti dalla preoccupazione, fidanzate che salutavano con le lacrime agli occhi, o famiglie allegre e chiassose in partenza per le vacanze. Un concentrato delle emozioni più forti, tutte lì, tutte insieme, camminavi e ti passavano accanto, una dopo l’altra, scompigliate. E a lei assistere a quelle scene negli aeroporti dava una strana sensazione, un po’ perché si sentiva in qualche modo intrusa, invadente –e il suo istinto indagatore già si costruiva, dai pochi stralci di conversazione che le sfioravano l’orecchio, una ricostruzione, le dinamiche di una famiglia, a volte persino il velo di una bugia… Un po’ perché le sembrava che tutte quelle emozioni, quelle storie sarebbero state degne ognuna di un romanzo, delle scene di un film, e vederle ammassate insieme era come banalizzarle, buttarle sulla piazza per dimenticarle un istante dopo.

Questa volta, però, attraversare l’aeroporto le fece effetto, sì, ma un effetto molto diverso.

Perché era l’aeroporto di Tokyo, del Giappone, di casa sua, dove finalmente rimetteva piede dopo mesi passati in America.

Le sembrò che ritrovare all’improvviso, e tutte insieme, tante cose familiari la purificasse da quello che in America aveva dovuto vedere. Non perché in Giappone non capitassero delitti agghiaccianti come quelli su cui aveva indagato a Los Angeles, e non che quello fosse stato il primo caso atroce a capitarle tra le mani, no, certo. In realtà, non c’era un perché. Forse era il semplice sentirsi a casa. O forse, adesso che aveva un mese di congedo, era come se qualsiasi orrore che potesse capitare lì, in Giappone, non la riguardasse; di quel posto la riguardavano solo le cose belle. I giorni da trascorrere con la sua famiglia. Gli amici che non cercava da un sacco di tempo. La festa del paese vicino al suo, che voleva far vedere a Raye.

Il pensiero del suo compagno le entrò inatteso nel cuore, in un soffio, un piacevole piccolo vuoto nello stomaco. Sorrise, anche se non era una sorpresa, perché lui era il sottofondo costante della sua mente, la certezza che riposava dietro a tutto ciò che faceva. Ma sorrise lo stesso, perché era bello pensare al suo nome, e sentirselo risuonare dentro, e vedere i suoi occhi, quel colore chiaro di cielo, immaginarselo ad aspettarla alla stazione. Affrettò il passo verso l’uscita.

Quando salì, ancora un po’ distratta, sulla metropolitana, l’affollamento la distolse dai suoi pensieri. C’era un sacco di gente, come sempre, e non trovò nemmeno un posto a sedere. Eppure, sorrideva ancora, e sospirò appena di felicità, nella stessa sensazione di casa che l’aveva accolta all’aeroporto. Ecco, anche qui c’erano tante persone, e tante storie dietro ognuno di loro, certo –qualche sottinteso di una vita dalle chiacchiere scambiate al cellulare- ma… niente di plateale. Solo normalità.

Ad ogni modo, proprio non poteva impedirselo, sin da bambina aveva sempre giocato, nella sua mente, a provare ad associare la faccia degli sconosciuti con una vicenda, a notare particolari e ricollegarli a qualcosa. Quella signora vestita tutta elegante, per esempio. Aveva addosso la pelliccia, anche se era ormai primavera, e gioielli vistosi, ma lo smalto delle unghie era scheggiato, gli occhi truccati con mano malcerta. Le faceva pensare a una persona sola. Di certo sola non doveva essere, invece, la ragazzina con lo zaino tutto coperto di scritte e disegni dei compagni, che rideva con l’amica a pochi passi da lei. E l’uomo seduto qualche posto più avanti, con in braccio una busta da cui spuntavano le orecchie di un grosso animale di pezza, e dietro le lenti gli occhi scintillavano d’un sorriso a chi lo guardava. E ancora, poco più in là…

Poco più in là, un ragazzo attirò la sua attenzione.

Attirò la sua attenzione forse perché portava una borsa voluminosa, a cui era attaccata una fascetta di quelle che in aereo applicano ai bagagli. Reduce anche lui, dunque. Poi la colpì il logo della stessa compagnia con cui aveva viaggiato lei, ma quando lui si scostò per far passare una donna che doveva scendere, notò la scritta sull’etichetta: Los Angeles.

Allora quel tipo doveva essere stato sul suo stesso aereo… eppure, in viaggio non l’aveva visto, perché altrimenti una presenza come quella l’avrebbe senza dubbio ricordata. Non sapeva dare un’età, a quel ragazzo, qualcosa in più di venti, probabilmente, ma per certi versi sembrava più giovane, per qualche altro tratto molto più maturo. Ma soprattutto era… strano, ecco, alto, però un po’ storto, i capelli neri scomposti, gli occhi persi a fissare un punto insignificante del finestrino. Tutto in lui dava l’impressione di una certa trascuratezza, di una qualche stravaganza. Ma con lui, il suo gioco non le riusciva. Al suo viso non sapeva associare niente, assolutamente niente. Bianco.

Perché quella bizzarria, quei vestiti un po’ sciatti, l’aria sperduta, le davano l’impressione, senza motivo, di essere una sorta di schermo. Sarebbe stato facile, da quelle premesse, trarre conclusioni –guarda quello, che tipo assurdo! Sarà un po’ tocco… Troppo facile. Non le era chiaro, ma aveva la sensazione che quel ragazzo attirasse la curiosità proprio per stornarla da qualcos’altro. Qualcos’altro che doveva esserci, forse, sì, dietro l’apparenza singolare, dietro gli sguardi che gli lanciava la gente. Qualcosa che neanche lei riusciva a definire, ma che quasi le risvegliava qualche memoria, una vaga, inesplicabile suggestione.

Attirare l’attenzione per non attirarla veramente, lasciare che l’occhio cogliesse tante stranezze, e far perdere un particolare. Una difesa complessa come un caleidoscopio, un gioco di riflessi e di schermi, di pensieri al contrario. Ma se davvero era così, allora quel ragazzo doveva essere anche uno che sapeva rischiare. Perché restava impresso, e qualcuno avrebbe potuto ricordarsi di lui… Forse si faceva notare troppo per avere qualcosa da nascondere? Oppure stava ingannando tutti, e voleva apparire strano proprio perché la gente credesse che non aveva…

La voce artificiale degli altoparlanti, annunciando la sua fermata, la tirò fuori da quel groviglio di congetture. Raccolse le valigie, e quando rialzò gli occhi, il ragazzo non era più al posto di prima.

Era accanto a lei.

Per un attimo si guardarono negli occhi, per un attimo lei si perse in quelle iridi nere e spalancate, nelle ombre stanche sotto le ciglia che sembravano dire che quel ragazzo non aveva dormito da tanto, tanto tempo. Forse non aveva dormito mai.

Si stava sbagliando? O magari lui racchiudeva in sé, senza smentire né confermare, tutti i dubbi, tutte le cose che lei aveva pensato –nascondeva senza nascondere, stupiva per farsi dimenticare, e nel profondo era come lo vedevano, non aveva bisogno di mentire…

Un altro schermo, lo schermo di occhi illeggibili, di un’espressione lontana –ma in fondo a quel nero, qualcosa c’era davvero, qualcosa di acuto e penetrante, o forse era tutta una sua costruzione mentale…

Lo schermo di un computer, di una sola lettera sul monitor, lo schermo di una voce sintetizzata dietro cui aveva sempre cercato le tracce, le inflessioni del suono vero –la voce del detective più geniale del mondo…

Le porte del metrò si aprirono in un fischio, si spalancarono sulla confusione. Qualcuno spinse, qualcuno salì, e il giovane uomo scese, già sfuggito nella corsa della folla.

“Ehi… aspetta!”

Perché lo aveva chiamato? Perché provava quell’impressione senza senso?

E perché lui si era voltato, per un attimo?

…perché le aveva lasciato intravedere un’ombra di sorriso?

“Naomi!”

Laggiù, il ragazzo spariva nella calca. Ma davanti a lei, c’era Raye.

E all’improvviso, c’erano un sacco di cose da fare, districarsi dalla ressa, portare giù dal vagone le borse, sbrigarsi prima che si chiudessero le porte, e guardare Raye, e sorridergli, e correre nel suo abbraccio.

Tante cose.

E mentre la metropolitana sferragliava riprendendo la sua corsa, mentre lei rideva e si stringeva a lui, all’odore di cuoio del suo giubbotto, al suo familiare profumo, pensò che era felice. Perché era con la persona che amava. E anche un poco perché poteva credere, fantasticare di aver incontrato, per un istante, la persona che più ammirava al mondo.

 

 

“Fatto buon viaggio, Ryuuzaki?”

Il ragazzo fece un cenno d’assenso all’indirizzo dell’uomo anziano che l’aveva accolto alla stazione, ma non gli permise di prendergli la borsa.

“La macchina è qui dietro… però avrei potuto mandare qualcuno a prenderti direttamente all’aeroporto, no? Se mi dicevi dove scendevi…”

Il ragazzo si voltò di nuovo a guardare la gente che si riversava fuori della metropolitana, come distratto da qualcosa, e solo dopo una lunga pausa mormorò una risposta. “Preferivo fare quattro passi.”

L’uomo fece per allontanarsi verso il parcheggio, ma poi si accorse che l’altro non lo seguiva. “Ryuuzaki…?”

Era immobile, con la borsa in mano, sul marciapiede, in mezzo alla gente. E guardava un punto poco lontano, dove una coppia di giovani, un uomo e una donna, anche loro immobili nell’andirivieni, si tenevano stretti. Lei era bella, i suoi capelli lunghi sfuggivano dall’abbraccio del compagno catturando la luce dei neon, la luce della strada, e si accendevano di riflessi. Tra tutta quella gente, solo lui, quasi di sicuro, sapeva che quei due erano entrambi agenti di polizia, entrambi brillanti e capaci, seri e coraggiosi. Ma in quel momento apparivano semplicemente felici. Come le altre coppie che passavano a braccetto. Come le ragazze che scendevano dal treno, ridenti, per andare a far compere.

La coppia era solo a pochi passi da lui, pochi passi.

Lontana un’infinità.

Li vide raccogliere le valigie, avviarsi, ancora stretti l’uno all’altra, verso l’uscita. E allora anche lui si riscosse, si girò, e finalmente seguì l’uomo che lo aspettava.

E in quel semplice voltarsi, in quel semplice lasciarsi alle spalle la coppia e la gente, sentì, chiaro come un sussurro nel silenzio, che gli mancava qualcosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Note…

In giro per il web ho dato una scorsa alla trama del romanzo uscito in Giappone su DN, “The BB Case”, che tratta appunto del caso, a cui si fa cenno nel manga, al quale Naomi Misora lavorò per conto di L a Los Angeles, senza mai incontrare il detective. Ricordo che alla fine c’è un accenno che mi ha molto colpito, e a questo ricordo vago (non ho più riletto quel riassunto della trama) mi sono ispirata.

La spinta più importante per l’idea di questa storia mi è venuta però dalla fic “Un’occasione” di Harriet, e di questo la ringrazio tanto. Queste due storie c’entrano poco l’una con l’altra, ma da quella di Harriet ho preso per così dire il punto di vista, periferico, su L, lo spunto di mostrarlo sullo sfondo della vita normale.

Fatemi tutte le critiche che volete perché so bene quanto sia indegno questo pezzo… Non mi convince affatto. Spero che a voi sembrerà un po’ più decente di come appaia a me, anche se ne dubito!

 

03/2007 Fatta qualche piccola modifica a questa storia, grazie ai consigli di Harriet e al commento di Sundy, che mi ha dato un incoraggiamento davvero fondamentale. Grazie a loro e grazie a tutti voi che avete letto!  Se a qualcuno per caso interessasse cosa c'era dietro a questa piccola storia, può andare qui.]

 

   
 
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