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Autore: Adoxia    25/06/2012    4 recensioni
'La paura non mi apparteneva.
O almeno, combattevo per non fare di essa una parte di me.'

Una Clove quattordicenne e un Cato quindicenne. Una Clato dall'inizio banale, che tralascia la superficialità. Una Clato cruda e macchiata di sangue. Sangue che sporca l'anima. Sangue di assassini.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cato, Clove
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Per te sanguinerei fino a seccarmi.

Capitolo I

Il polpastrello scorreva languido sulla lama acuminata, poco seghettata, letale, mentre inspiravo rinvigorita l’acre aroma del metallo appena affilato.

Quella fragranza, pesante come il sapore d’inchiostro sulla lingua, risvegliò i miei pronti sensi d’assassina, fece sollevare gli angoli della bocca in un sorriso inquietante, che placò il mormorio continuo della Sala d’Allenamento.

La circonferenza colorata, poggiata su di un manichino di pelle chiara, emanava un bagliore intenso ed ammaliante, quasi come se mi stesse attirando verso il cerchio interno rosso cremisi, che pareva trasudare sangue vermiglio.

Se non l’avesse fatto in quel momento, la lama del mio coltello avrebbe fatto sgorgare di per sé quel flusso ematico che tanto ti riempie d’orgoglio quanto ti sporca l’anima.

Così lo fissai, come se fosse un corpo umano, come se l’espressione di supplica fosse impressa su un volto disperato, come se quel sangue avesse macchiato inesorabilmente l’immacolata pelle chiara del manichino.
Uno scatto immediato.
Il movimento brusco e deciso e fatale di tutto il braccio.
Le dita che lasciavano piano l’impugnatura dell’arma.

E poi, un colpo secco dritto al centro del cerchio rosso.

DUM.

La lama conficcata nel bersaglio, l’espressione immaginaria del viso che si avviava verso il vuoto, lo sguardo perso, le braccia flosce.

E poi, il sangue.

L’odore pregnante e metallico  istintivamente fece allargare le mie narici, come se riuscissi a vederlo sgorgare a fiotti, come se la lama esultasse impazzita e trionfante all’interno del corpo esanime.
E da lì, la reazione a catena impossibile da arrestare.

Le mani cercavano freneticamente le impugnature dei coltelli nella mia cintura, afferrandole con decisione una dopo l’altra, scagliando le armi verso il bersaglio, ancora e ancora.
Nessun grido, nessun segno di nervosismo.
Solo frustrazione che emettevo in ogni singolo movimento deciso, netto, letale.

Le lame si conficcavano precisamente dove avevo intenzione che si tuffassero, in quell’immenso oceano vermiglio. Una dopo l’altra, il supplizio continuava perpetuo.

Dum. Dum. Dum. Dum. Dum. Dum. Dum. Dum. Dum. Dum.

Finiti i coltelli a disposizione, andai ad estrarli fiera dal corpo che immaginavo ormai inanimato, sorridendo sadicamente ed accarezzando le lame lisce come se fossero fatte di vetro niveo ed infrangibile.

In quel momento visualizzai le mie mani sporche di sangue, ripugnanti, assassine, impossibili da purificare.
Le portai alle labbra per assaporarne l’acre essenza, il riprovevole aroma, e un brivido mi scosse il cuore e l’anima, portandomi alla vista un cadavere pallido come la pelle del manichino ricoperto di sangue. Sangue denso e viscoso che continuava a sgorgare dalle ferite profonde, bruciando e logorando, appassendo il controllo e la ragione, istigando la tortura e la follia.

Scossi la testa per ritornare alla realtà, scrutando con occhi truci i ragazzi e le ragazze alla mia postazione che mi fissavano sbalorditi e terrorizzati.
‘Che la fortuna possa esser sempre a tuo favore, tributo maschio del Distretto 2 dei 74esimi Hunger Games’ pensai sarcasticamente, immaginando il bagno di sangue in cui era immerso per mano mia il mio cosiddetto ‘complice’.
Molti erano i ragazzi intenzionati ad offrirsi volontari alla mietitura, spinti dall’orgoglio, sia esso personale, sia esso volontà dei propri ‘cari’, sia esso volontà del Distretto stesso.

Ad essere sinceri, quell’anno non ero a conoscenza dell’intenzionato, ma io ero parecchio tirata in ballo come probabile tributo femmina per volere delle mie coetanee, spietate macchine da guerra.
Magari erano solo apparenze, le loro: si mostravano accettabili nell’allenamento, impartito sin dall’infanzia, ma all’idea di un assassinio reale, magari di un proprio amico, rabbrividivano e passavano la palla a qualcun’altra.

Ovviamente, la palla passò a me.

Ed io non ero pronta per riceverla, ma non lo diedi a vedere: così perseverai nell’allenamento, ancora più intenso, immaginando il mio debutto nell’Arena e il mio mezzo di sfogo personale, ossia gli altri tributi.

La paura non mi apparteneva.
O almeno, combattevo per non fare di essa una parte di me.


La prospettiva di uccisioni mi attraeva inesorabilmente, ma non sapevo se farne un motivo di proposta di volontario. In fondo, anche nel più incosciente degli animi, c’è, seppur minuta, una parte ragionevole, che mi portò a realizzare l’idea che magari la sorte, la quale prospettavo per i miei nemici, sarebbe toccata a me.

Avviandomi verso la postazione di tiro con l’arco, non potei far altro che origliare la conversazione frenetica ed eccitata di due ragazze alle mie spalle, che bisbigliavano riguardo un certo ragazzo.

Di tutto il dialogo, riuscii ad afferrare le informazioni ‘volontario’, ‘quindicenne’, ‘74esimi Hunger Games’, ‘spada’, ‘fisico da svenimento’.

Il suo nome era Cato.


Ed in quel momento, capii che ‘Cato’ sarebbe stata la mia prima vittima.
 

***


La postazione di tiro con l’arco risultava alquanto noiosa: dopo qualche tiro andato a buon fine, tornai ai coltelli, ammaliata dal paradisiaco suono delle lame conficcate nel legno del bersaglio.

La postazione era strutturata in maniera tale che l’atleta avesse le spalle al muro e il bersaglio dalla parte opposta; fra me e il muro dietro intercorreva uno spazio abbastanza ampio da consentirmi ogni genere di movimento mi passasse per la testa.

Tornai a colpire con la stessa intensità l’oggetto-meta, ancora più concentrata dopo aver sentito parlare di quel ragazzo.
L’idea che sarebbe potuto essere un mio avversario nell’Arena, disposto ad allearsi per sterminare tutti gli altri tributi, non mi dispiaceva affatto. Ma se proprio avessi dovuto cadere nell’oblio della lotta furiosa nota come ‘Hunger Games’, avrei voluto essere io la vincitrice. Ma non una delle tante del mio Distretto. Una vincitrice diversa, una che sa dare spettacolo, che sa stupire. Che sa precipitare nel baratro, ma che sa risalire. E lui non avrebbe impedito quel mio desiderio recondito.

I movimenti fluidi di entrambe le braccia mi consentivano di puntare dritto al cuore del manichino, ancora e ancora.

Non sbagliavo mai.

D’improvviso, alle mie spalle, un sussulto, o forse meno.

«L’impugnatura è sbagliata» poi, una risatina trattenuta.

Nemmeno mi voltai.
Avevo ancora altri due coltelli tra le dita: uno l’avrei lanciato, l’altro usato per tagliare la gola all’imprudente che giocava con il fuoco.
La mano sinistra scivolò sull’impugnatura del manico dell’arma nella cintura, la estrasse, la puntò al cerchio rosso.
L’avambraccio spinse indietro, il braccio lo seguì.
Rapido e sferzante, il movimento portò la lama a conficcarsi…nel cerchio giallo.

Centro fallito.

Alle mie spalle, ancora risatine. Più marcate, e più soddisfatte quando videro il centro distante almeno 2 cm dalla lama conficcata.
Mi mancava il respiro e mi sentivo avvampare e l’irritazione saliva alle stelle e mi si annebbiò la vista.

Io avevo sbagliato.

Strabuzzai gli occhi per rendermi conto che non stessi sognando, ma un senso di delusione mi montò dentro quando la lama sembrava stesse piangendo per aver lasciato il corpo, seppur moribondo, ancora vivo.

Non ragionai più, l’istinto d’assassina prevalse.

Afferrai con la mano destra l’impugnatura dell’ultimo coltello, e con decisione, in meno di un secondo, ne conficcai la lama nel muro alle mie spalle. In profondità. Senza voltarmi. Senza guardare in faccia la persona che tanto si stava divertendo, perché probabilmente l’avrei uccisa, se ne avessi visto l’espressione compiaciuta.

Credevo che con quel gesto la sua reazione sarebbe stata tutt’altro che compiaciuta: terrorizzata, ne ero certa. E se avessi sfiorato la sua testa, se l’avessi anche minimamente ferito, sarei stata ancora più orgogliosa del mio istinto.

…L’istinto che mi tradì.

Mi voltai, soppesando i danni.
La lama era a circa 5 cm dalla testa dell’incosciente, che mi fissava dritto negli occhi, con un’aria a metà fra la sorpresa e lo spavento.
Fui delusa da me stessa ancora una volta.

Tutto ciò che volevo era farlo sfigurare, facendogli sanguinare il volto. Non ucciderlo, certo. Ma ferirlo. Fargli capire che con me giocare era pericoloso.

Estrassi la lama dalla parete e la appoggiai con una pressione non indifferente sul volto del ragazzo. Non oppose resistenza, anzi, sembrava divertito. E ciò non faceva che irritarmi più di quanto non lo fossi già.

In quell’istante lo scrutai per memorizzarne le fattezze: molto più alto di me, capelli biondi, sguardo fiero e strafottente e penetrante, fisico scolpito. Sorrisino compiaciuto stampato sulle labbra sottili.

Oh, sì che le memorizzai bene, quelle fattezze. Ma sapevo già chi mi si parava davanti, chi mi affrontava con tanta sfacciataggine senza conoscermi neanche. E ciò mi portò a minacciarlo.

Forse in quel momento l’incosciente fui io.

«Non ti conviene giocare con me, Cato.» gli mormorai sicura che fosse lui.

Non mi sbagliai. Lui sorrise. Un sorriso falso e meschino. Era sull’orlo di una risata clamorosa. E se avesse riso, probabilmente sarei morta dall’imbarazzo.

«Tu dici? Io non vedo l’ora.»

D’un tratto mi sentivo piccola. Incapace. Delusa. Inutile. Ma non lo diedi a vedere. Alzai il capo, fiera.

«Potrei ucciderti adesso.» mi sentii come se avessi oltrepassato un limite proibito, come se avessi abbattuto un tabù. Mi pervase la sensazione di aver esagerato solo con tre parole.

A lui non faceva altro che piacere.
«Sei brava. E anche molto.» sembrava sincero. Poi fissò il coltello dalla mira tutt’altro che infallibile, e tornò a guardarmi. In quel momento capii che quell’unico tiro non contava niente. O forse tutto.
Mi aveva dato la possibilità di dialogare con lui.
La possibilità di ucciderlo ancor prima che fossero iniziati i Giochi.

Ma non lo feci.

Tolsi la lama dalla guancia, lasciandola sfregiata da un graffio sanguinante. Mi sentii soddisfatta per aver spaccato quella porcellana di cui era fatto il suo viso pallido.

Poi tacqui, limitandomi a rivolgergli uno sguardo truce. Lui se ne accorse. Si voltò, allontanandosi.

Mi cacciarono dalla Sala perché avevo ferito volontariamente.

Prima di uscire, trascinata da due uomini di servizio, gli rivolsi gli occhi, forse per l’ultima volta.
Rimasi pietrificata quando lui era già lì a fissarmi, chissà da quanto, sorridendomi, agitando la spada con la mano il segno di saluto/sfida.

Esterrefatta, mi scivolò il manico del coltello dalla mano.


L’impugnatura è sbagliata’ : Aveva ragione

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Concedetemi quest'angolino!
Credo che ormai si sia capito che loro sono la mia coppia preferita.
In sincerità, non mi piace scrivere sulle coppie principali le solite fanfiction dal fulcro trito e ritrito che danno il voltastomaco con tutti quei bacini dolci.
Mi piace aggiungere dettagli cruenti, essere schietta, sorprendente nei punti centrali della trama.
E quest' esordio mi soddisfa a metà: il lessico e la struttura in sé per sé mi piacciono, ma la trama è povera, fino ad adesso. Ormai tutti scrivono di come Cato e Clove si siano incontrati all'Allenamento, e io volevo riprendere questa narrazione, sì, ma con almeno un minimo di innovazione.
Spero che in parte ci sia riuscita, e che fino ad adesso non vi abbia annoiato troppo! (Di solito scrivo capitoli lunghi decine di pagine, ma così rischio di annoiare i lettori. Perciò, credo che con questa fanfiction mi tratterò dall'irrefrenabile voglia di continuare a scrivere e scrivere anche su dettagli inutili.)
Ringrazio chiunque recensisca o anche legga senza esprimere pareri precisi! In particolare, ringrazio una mia amica (che sicuramente sarà la prima a recensire) che, seppure involontariamente, mi ha fatto venir in mente un titolo che più inerente di così non avrebbe potuto esserci! (da 'Yellow' dei Coldplay). Senza di lei sarei stata la solita capra bimbominchiosa.
Avevo bisogno di tornare a scrivere.
E Cato e Clove mi hanno riportato quella piacevole sensazione di battere le dita su questa tastiera nella speranza di riuscire a raccontarvi un po' di me, anche attraverso tematiche così atroci.
 
Grazie. Grazie davvero.
Adoxia, 'Vita Oscura'.
  
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