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Autore: dreaminglilith    25/06/2012    0 recensioni
Non potevo resistere, ammaliato come una mosca dalla tela d’un ragno, mi riscossi solo quando l’aria gelida mi bagnò le tempie. Ma ormai eravamo all’aperto, avevo le chiavi dell’auto tra le mani e una donna bellissima al fianco, vicina ma troppo distante per poter essere riscaldata dalle mie braccia.
Concentrandomi a fondo sull’ultima immagine di Mork, il sorriso sulle labbra mentre scandiva un “trattamela bene” affettuoso e cameratesco, gli occhi illuminati d’un lucore ebbro, mi misi alla guida, rovesciando sulla mia passeggera un’estrosa fiumana di parole, stordendola e stordendomi, mentre il suo profumo impregnava a fondo l’abitacolo. Parlammo a lungo, ci guardammo poco, mentre l’auto sfrecciava nutrendosi d’asfalto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno.”
Gabriele D'Annunzio, Le Stirpi Canore

Se c’è una parola che non ho mai avuto remore ad utilizzare per descrivermi, questa è “leale”. Da quando ero un ragazzino perplesso dal mondo che mi circondava ad ora, in teoria mi dovrei definire adulto ma questa è decisamente un’etichetta dalla quale non mi sento rispecchiato, se c’è stato una valore in cui non ho mai smesso di credere questa è l’amicizia, e la lealtà che ad essa si associa. Non credo nell’amore, ma non ho dubbi sulla salubrità del sano sesso che nella gerarchia delle prerogative può però essere felicemente sostituito da una birra con gli amici. Se ho un boccale tra le mani e della buona musica nelle orecchie posso anche dimenticare per qualche ora che le donne esistono e sono splendide da toccare.

Era proprio questa la situazione in cui mi trovavo una sera, elegantemente sbracato su uno sgabello del più accogliente pub che conoscessi, il vetro gelido tra le mani e il sapore di birra sul palato, circondato da amici riunitisi per festeggiare Sam che aveva spaccato la trentina quando ad un tratto, preceduta dallo squillante scampanellio dei sonagli della porta d’ingresso, fece la sua apparizione nella stanza una donna spettacolare.
Non era d’una bellezza appariscente, i fianchi fasciati da jeans slavati, una camicia sformata a coprire un seno quasi inesistente, le gambe sottili inforcate in stivali da mandriana. Il tipo di donna che ti fa voltare il capo, slogandoti nel frattempo la mandibola, ma non quel genere che era solito conquistarmi al primo sguardo. Ho sempre amato le donne formose, lo ammetto. I suoi languidi occhi neri, che quasi stonavano con il biondo gelido dei sui capelli, si posarono su di me e al mio sguardo concupiscente rispose con un sorriso sghembo, che svelò tra le labbra carnose una sottile scanalatura tra gli incisivi lattei.
L’avevo già spogliata con lo sguardo almeno tre volte nei pochi secondi che Mork impiegò per apparire alle sue spalle, circondandone la vita sottile col braccio destro, gesto che al mio cervello fece lo stesso effetto d’una secchiata gelida al cavallo dei pantaloni. Non mi stupivo affatto che un ragazzo giovane e vigoroso come il Mork avesse predato un simile esemplare di donna: non era bello, neppure magro, ma la sua altezza e la mascella volitiva avevano il loro fascino e finché celava la dentatura poteva quasi sembrare bello. Noi uomini non abbiamo bisogno di una grande bellezza oggettiva per conquistare donne attraenti, lo so per esperienza: tarchiato e spennacchiato, col mio bulbo etilico non indifferente, devo ai miei occhi neri come la pece e alla mia parlantina efficace conquiste di donne davvero bellissime. Sono un cultore della bellezza, devo ammetterlo, e avrei dato qualunque cosa per poter scoprire se quel corpo giovane e atletico celato da un sensuale e rilassato vestiario da cowgirl nascondesse quello che stavo macchinando nella mente mentre i due avanzavano felini verso il bancone, il volto di lui illuminato di gioia al vedermi.
Non persi l’occasione di rivelarmi un cavaliere in borchie e anfibi, improvvisando un mezzo inchino con baciamano; lei sorrise, svelando delle fossette nelle guance pallide costellate di efelidi.
-          Piacere, Tom.
-          Piacere, Anna.
Mi piacque il suono della sua voce, un po’ rauca, e fu con notevole disappunto che incrociai lo sguardo di Mork, che sembrava quasi drogato dalla presenza di lei. Erano quasi grotteschi assieme, lui così simile a un demonietto arruffato, lei così angelica e pallida, ma con occhi neri come il fondo d’un pozzo. Mi disimpegnai al più presto dai convenevoli per poi riunirmi alla baldoria, deciso ad evitare quanto più possibile di lasciare le mie pupille trastullarsi su quel corpo fatuo.
Sedevo solo, contemplando il fondo del mio bicchiere in un momento di stanchezza assoluta, combattendo le mie stesse palpebre che calavano inesorabili ad appannare i sensi. Sentii un fruscio d’aria smossa, e un profumo dolce invadermi le narici.
-          Non ti scoccia se mi siedo.
Non era stata una domanda, ma un’affermazione. Incassai le spalle e per riscuotermi dal torpore trassi di tasca un pacchetto di sigarette, gliene offrii una per galanteria, domandandomi se gli angeli fumassero. Ebbene, gli angeli che fumano risultano essere davvero sensuali.
-          Così, tu canti?
-          Ci provo.
-          Devo dedurne che canti male?
-          Non so, dovresti dirmelo tu venendomi a sentire.
-          Toccherà.
Rapide battute, tono di voce neutrale, quasi annoiato, risvegliarono in me un insano desiderio di farle schiudere ancora le labbra, di sentirne il suono graffiante della voce roca.
-          Allora bionda? Come va con il Mork? Dove l’hai mollato?
Tentavo di concentrare lo sguardo per non fissarlo sulle sue labbra che si gonfiavano di fumo azzurrino, ma qualunque punto io scegliessi di guardare mi pareva di sembrare un imbecille imbambolato, così optai per il fondo del bicchiere, quantomeno fino a che non avessi ripreso la lucidità sfuggitami tra le dita a causa dell’alcol e della sonnolenza.
-          Va.
Con un cenno del capo mi indicò un capannello di gente intenta a discutere animatamente, Mork tra questi, e scosse il capo annoiata.
-          E dimmi, dove vi siete conosciuti di bello?
-          A una festa, credo ci fossi anche tu da qualche parte.
-          Davvero? Strano, sei così bella che non posso non averti notata.
La nicotina iniziava a fare il suo effetto e presto la mia parlantina si risvegliò, con essa la capacità di affogare in quegli occhi più neri dei miei. Più parlavamo più realizzavo quanto subdola e ingannatrice potesse essere inconsapevolmente una donna. Ogni suo gesto, ogni suo mozzicone di frase, sembrava comunicarmi tanto una simpatia malcelata quanto una strana forma d’insofferenza. Sembrava voler stare con me ma allo stesso tempo rifuggirmi, giocare a saltellare da un lato all’altro della riva, scostante e capricciosa. S’era avviato un meccanismo che mi impediva di troncare quella conversazione feconda, mi sentivo obbligato masochisticamente e flirtare con una donna che sapevo di non poter rendere mia.
-          Il nomignolo Mork viene dalla Storia Infinita, non so se sai cos’è, una sera in cui ci stavamo annoiando a morte ci siamo ritrovati su un canale dove stavano trasmettendo quel film e lui è identico al lupo Mork che appare verso la fine.
-          Non ho presente il film, lo ammetto.
-          Tranquilla, è un film vecchio, non mi aspetto tu l’abbia visto.
Senza rendermene conto avevo assunto il tono paternalistico che ero solito usare quando parlo con le donne che ritengo poco intelligenti, e Anna si era subito irrigidita, lanciandomi poi una frecciatina irritata sul fatto che il non aver visto il film non significava affatto che lei non sapesse chi era Mork, avendo invece letto il libro di Ende. Accennai un inchino fingendo di togliermi il cappello, sdrammatizzando sulla sua espressione irritata dandole un buffetto sulla guancia rosata.
-          Posso farmi perdonare per aver sottostimato la tua cultura?
-          Puoi sacrificare la tua serata alla mia gioia riportandomi a casa, sono stanca morta, sai, come Cenerentola a una certa ora mi ritrasformo in zucca… sì, lo so che è la carrozza che si trasforma in zucca ma suonava meglio così. E Mork non accenna a volermi riportare a casa.
-          Nessun problema, tanto sono stanco anche io.
Non potevo resistere, ammaliato come una mosca dalla tela d’un ragno, mi riscossi solo quando l’aria gelida mi bagnò le tempie. Ma ormai eravamo all’aperto, avevo le chiavi dell’auto tra le mani e una donna bellissima al fianco, vicina ma troppo distante per poter essere riscaldata dalle mie braccia.
Concentrandomi a fondo sull’ultima immagine di Mork, il sorriso sulle labbra mentre scandiva un “trattamela bene” affettuoso e cameratesco, gli occhi illuminati d’un lucore ebbro, mi misi alla guida, rovesciando sulla mia passeggera un’estrosa fiumana di parole, stordendola e stordendomi, mentre il suo profumo impregnava a fondo l’abitacolo. Parlammo a lungo, ci guardammo poco, mentre l’auto sfrecciava nutrendosi d’asfalto.
Ci salutammo che il sole stava quasi per spuntare, intirizziti e con le gambe intorpidite, dopo aver parlato all’infinito seduti nell’auto parcheggiata dinnanzi alla sua casa. Il tempo era scivolato via veloce, e con esso la stanchezza mentre riversavamo l’uno sull’altro pensieri e parole vuote.
-          Vedi, noi uomini ragioniamo in modo molto diverso da voi. A noi piace la bellezza, a voi affascinano gli uomini uguali a vostro padre, o l’opposto.
-          Non ne sono convinta, stai descrivendo il genere maschile in modo riduttivo, ci sono uomini a cui piacciono anche il carattere o le espressioni di una donna, non solo la sua bellezza. E io non cerco mio padre negli uomini che scelgo.
Discorsi futili, senza alcuna presunzione di entrare nella storia. Frecciatine e aneddoti che si assommavano ad una catasta di parole abbandonate nell’aria, nella mia mente il desiderio di assaporare le labbra che le liberavano a librare nell’abitacolo. Ad ogni decina di minuti mi si ripresentava alla mente Vincent Vega e la sua celebre battuta “Tu ora dici buonanotte, ho passato una bellissima serata, apri la portiera, vai a casa, ti fai una sega e finisce la storia”e maledicevo la mia incapacità di distogliere lo sguardo da lei. Fu Anna, con un’occhiata stupita all’orologio e un trasalimento degno d’un film muto, a metter fine all’idillio e a salutarmi con un bacio sulla guancia ruvida e malrasata. Guidai fino a casa quasi in uno stato di trance, affogando nel profumo di lei che permaneva ancora nell’aria, denso e pesante, riflettendo e realizzando per l’ennesima volta quanto odiassi le donne e l’effetto che avevano su di me.
Qualche sera dopo sedevo a cavalcioni della seggiola, inclinato pericolosamente in avanti, mento poggiato al palmo della mano, Mork, Enrico e Anna al tavolo dinnanzi a me e mi sentivo particolarmente struggente e malinconico. Io e Anna non avevamo avuto più occasioni per parlare da soli, ma ci eravamo telefonati qualche volta, mi piaceva sentire la sua voce ed evidentemente a lei non dispiaceva ascoltare la mia. Vedere lei e Mork così affiatati m’aveva quantomeno irritato e la speranza di poter raccogliere i resti della splendida fanciulla abbandonata s’era affievolita fino quasi a spegnersi. Negli occhi di Mork si leggeva una passione struggente, dietro alle sue iridi si aggirava una belva inferocita e selvatica e da alcune confidenze scambiatici avevo intuito che lei fosse restia a concedersi a lui, cosa che lo rendeva possessivo all’inverosimile.
-          Mai sentito parlare della teoria della BMW? Tu non hai mai voluto una BMW, ma quando un tuo amico se la compra e ci fai un giro, poi non vorresti più scendere e te la sogni, la vuoi comprare anche tu, cerchi tutti i modi per poter usare la macchina del tuo amico. Poi quando passa la novità, o l’auto si rompe, non ti interessa più averla e te ne dimentichi… Uguale con le morose degli amici, ve lo dico per esperienza personale. Mi è successo che stavo con una ragazza e un mio amico è diventato amicissimo con lei, poi ci siamo mollati e loro hanno smesso pure di sentirsi.
-          Capita praticamente sempre, ammettiamolo. Alla fin fine noi uomini ci scoperemmo qualunque bella donna per spirito competitivo, e l’amicizia è il surrogato di quel che ci potrebbe essere.
-          Quanto siete stupidi, secondo me non è altro che una spiegazione razionale del fatto che una ragazza si ritrova catapultata in un mondo di amici e amiche del proprio uomo e si sente obbligata a fare amicizia, a stringere legami. Poi, quando la storia finisce, vuole dimenticare tutto e così come butta i regali, butta anche i rapporti.
-          Che idiozia.
Non sapevo perché parlavamo di queste cose, senza alcuna connessione con discorsi precedenti, senza alcuna motivazione aneddotica, eppure ero consapevole che gli occhi di Anna erano fissi su di me, e godevo di questa sensazione di potere. Era l’unica forma concessami per calamitare la sua attenzione, un vaghissimo balsamo lenitivo alla ferita pulsante del mio desiderio. Vederla così coinvolta dalle mie parole, le labbra schiuse a svelare i piccoli denti seduttivi, era quasi come poterle toccare il viso, ma era anche il massimo a cui potessi aspirare vista la mia totale dedizione alla bandiera della lealtà.
Anna non rendeva  le cose facili, tutto di lei comunicava una disponibilità al contatto, i suoi capelli ispiravano carezze, le sue mani s’avvicinavano troppo spesso al mio volto per salutare, per schernire, per giocare con i miei capelli radi. Adorava provocarmi, consapevole dell’effetto che i suoi occhi neri facevano sul mio animo tormentato, così io mi prendevo la rivincita quando era possibile, arroccandomi nella mia misoginia, tentando di sembrare burbero e inattaccabile nella mia solida posizione di uomo autosufficiente.
Avevo smesso di domandarmi se il sentimento di desiderio che s’impadroniva di me alla sua vista fosse sano, mi bastava essere certo di essere capace di contenerlo entro i limiti leciti della mia burbera ironia.
Mi chiedo se sono riuscito a chiarire sufficientemente quanto poco romantico fosse il mio sentimento, quanto carnale, animalesco e insensato, quanto egoistico apparisse ai miei stessi occhi. Non anelavo ad un amore eterno, imperituro, non invidiavo Mork e Anna, abbracciati e affettuosi l’uno nei confronti dell’altro. Semplicemente ogni mia fibra era attratta dal corpo di lei, volevo possederla, farla mia, imprimere a fondo nelle mie pupille il suo corpo, sulle labbra il suo sapore, sui polpastrelli la consistenza della sua pelle diafana, nelle narici il suo profumo.  Ero come un bambino dinnanzi a una di quelle coppe immense che i genitori non vogliono comprargli in gelateria, un bambino consapevole, nel profondo, che il possesso di quel gelato non gli gioverebbe affatto, che il mangiarlo tutto lo farebbe stare male e il non mangiarlo tutto sarebbe esattamente come aver comprato una coppetta, ma che nonostante tutto si ostina a desiderarlo con tutto sé stesso. Diversamente da un bambino saggio, però, non mi limitavo a desiderare ardentemente ma con arrendevole consapevolezza dell’impossibilità della realizzazione del mio desiderio il mio personalissimo gelato, ma lo stringevo a me, vi affondavo scherzoso il naso, odorandone il profumo delizioso, mi tormentavo con assaggi tiepidi di un corpo che non mi era dato avere.
Mork adorava sfoggiare Anna. Era come una chitarra nuova, come una bottiglia di whisky invecchiato: un dono piombato dal cielo e che andava condotto a spasso per suscitare invidia e ammirazione. Anna adorava essere sfoggiata. Glielo si leggeva nelle grandi iridi scure, nel molle contegno delle sue mani chiare, nel sorriso che rivelava la fossetta tra gli incisivi ad ogni nuovo incontro. La sfoggiava anche quel giorno, facendola roteare tra le sedie, quasi obbligandoci a concentrare sul suo corpo l’attenzione mentre continuavamo a chiacchierare. Mi domandavo, vedendo le loro dita sfiorarsi, se davvero non avessero mai fatto l’amore. Sembravano muoversi con una tale sintonia da rendere impossibile sostenere questa tesi, nonostante lo sguardo bramoso stampato a fuoco sul volto di lui pareva invece sussurrare il contrario. Scossi il capo, distogliendo lo sguardo da loro, per concentrarmi su qualunque possibile appiglio alternativo; mi gettai così in una gloriosa rievocazione del comune passato con Enrico, con cui avevo condiviso l’infanzia e l’adolescenza. Perdersi nelle parole era il modo migliore per distogliere i miei pensieri da lei.
Sedeva nella mia cucina, una birra tra le mani, dondolandola piano, incurante. Era passata a trovarmi per restituirmi la sciarpa che avevo dimenticato qualche sera prima a casa di Mork, l’avevo invitata a fermarsi a bere qualcosa ricevendo un sorriso entusiasta come risposta. Sedevamo in silenzio, gli occhi di lei sperduti a guardare i dettagli che lasciavano trapelare la mia personalità spartana nel mobilio, io intento a guardarla tentando di far passare per un blando interesse il tumulto che mi scioglieva le viscere.
-          Credi nell’amore?
-          E tu?
-          Sono stata io a chiedertelo per prima.
-          Non lo so. Credo più nella carne.
-          Cosa intendi?
-          Non potresti capirlo, sei una donna. Se tu ora mi dicessi “Tom, ti voglio” io non potrei fare altro che buttarti giù da quella sedia, spargendo al suolo la birra, selvaggio e animale. Se io ti dicessi “Anna, ti voglio” probabilmente ti faresti una risata, o arrossiresti e ti ritrarresti da me. Per quello non so se credere nell’amore. Noi uomini siamo così prepotenti e espliciti, voi così romantiche, mi chiedo se possa esistere una sintesi perfetta in proposito.
-          Non è un cattivo ragionamento, anche se temo poggi su una misoginia di fondo, credo ci siano un sacco di donne che risponderebbero di sì senza rossori e fughe precipitose, non sei il mostro di Lochness, anzi.
Scrutavo nei suoi occhi alla ricerca di parole che non aveva pronunciato, chiedendomi se mi stesse esplicitamente manifestando un sentimento che tutto in lei mi comunicava. Volevo stringerla a me, provare a schiudere il forziere delle sue labbra, eppure tentennavo. Qualcosa in lei mi suggeriva l’inquietante immagine di un ragno che ama tessere immense e sofisticate tele, intricate, psichedeliche quasi, in cui intrappolare stolti insetti, abbandonandoli poi ad un destino informe di bozzoli in via di putrefazione, involucri di anime perdute e abbandonate a sé stesse. Sentivo la voce dell’esperienza suggerirmi di capovolgere i ruoli, mi domandavo se l’unico modo per cogliere quella regina dei ragni impreparata non fosse il tramutarsi da preda in predatore.
-          Ora che faccio palestra, in effetti, da mostro di Lochness sono salito al livello Lupo Mannaro.
-          Ho sempre trovato estremamente sexy i lupi, se poi sono mannari meglio ancora.
-          Dovresti dirlo a Mork, da bravo lupaccio apprezzerebbe.
Mi parve arrossire, celò il volto ingoiando una sorsata di birra chiara che le scivolò nella gola diafana. Poi incrociò le dita e le gambe, come se sentisse la necessità di difendersi da me. S’era scoperta troppo e io non ero stato al gioco, destabilizzandola totalmente. Ero come un insetto che ancora si dibatte, dotato di un pungiglione velenoso, e il ragno s’era avvicinato troppo presto, prima degli ultimi spasmi.
-          Dicono che la più grande virtù del lupo sia la monogamia.
-          Pensavo fosse lo spirito di branco.
-          Li definirei sinonimi.
-          Io no, la lealtà al branco è diversa dalla lealtà alla donna, a mio parere è la cosa più importante, essere leali verso gli amici è il valore per eccellenza.
-          Allora sei un cane più che un lupo.
-          No, i cani perdono la testa se vedono una cagna, mentre nonostante la carne sia debole il mio spirito è forte.
Vidi le sue labbra colorirsi, morse dai denti candidi, le sopracciglia aggrottarsi mentre nel suo cervello i ben oliati meccanismi della ragione scivolano l’uno sull’altro, rivelandole quanto poco reale fosse la sua certezza d’avermi irretito indissolubilmente. Si alzò in piedi, le mani tremanti, e si avviò al lavabo, dove lasciò vuotare il quarto di birra che era rimasto nella sua bottiglia. Vidi le sue scapole alzarsi e abbassarsi rapide, poi un singhiozzo. Mi alzai lasciando cadere la seggiola a terra, le fui accanto, le cinsi i fianchi, facendola voltare. Cercò di celare il volto inumidito, le cercai le lacrime con le labbra.
-          Non ce la faccio, non ce la faccio.
-          Perché piangi?
-          Perché ti voglio. Amo Mork ma ti voglio.
La strinsi tra le braccia, affondandole il volto tra i capelli, baciandole il collo sottile mentre le sue unghie si arpionavano alla mia schiena. Era come una bambola di pezza tra le mie mani, inerte. I suoi occhi lucidi erano più neri di quanto fossero mai stati.
-          Non sono un cane, sono un bastardo.
Glielo mormorai all’orecchio, sentendo tutti i buoni propositi scivolarmi di dosso come un abito troppo largo. La presi tra le braccia e la condussi tra le lenzuola, la strinsi a me con foga e tutto a un tratto si risveglio in lei l’animale che sopito giaceva dietro a quegli occhi inerti. Ci ferimmo con la nostra passione, lupo contro lupo, ragno contro ragno, preda l’uno dell’altro, intessendo trame così intricate da domandarsi chi avesse iniziato cosa.
La guardai giacere addormentata tra i miei cuscini, rosea nella luce del tardo pomeriggio. Inspirai a fondo il profumo dei suoi capelli, sfiorai lieve la curva del suo viso. Sentivo le palpebre farsi sempre più pesanti, il respiro sempre più regolare. Poco prima di abbandonare i miei sensi al sonno sentii gravare su di me il desiderio di non riaprire più gli occhi, di non riaprirli su un domani che non sarebbe potuto essere altro che la fine di tutto. La fine di un amore, il loro, la fine di un’amicizia, la nostra, la fine di un onore, il mio. In fin dei conti, nessuno di noi era il ragno.

  
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