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Autore: minerva74    26/06/2012    7 recensioni
Gente del luogo e amici del fandom, spero sarete clementi con questa one shot che è nata a da una mattina di scleri con due compagne di sventura (Jessie e Fusterya) su Twitter. A esso ho unito un po' del mio vissuto e molta introspezione. Non aspettatevi lacrime a fiotti: it's not my division. Ancora una volta grazie alla mia beta Lucia che mi regala sempre molte soddisfazioni. Il prompt da cui nasce questa one shot è indicato nell'ultima frase del racconto
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What a man leaves behind

19 giugno2011

 

Silenzioso. È tutto maledettamente silenzioso a Baker street da alcune ore a questa parte.
John è immobile da un tempo interminabile, afflosciato sulla sua poltrona. Molly si muove piano, parlando sottovoce con Mrs. Hudson che cerca di rassettare il tavolo della cucina. Flaconi, provette, vetrini, reagenti chimici. Tutto dev’essere raccolto con cautela e messo via, in attesa di decidere cosa fare.
Oggetti, abiti, libri. Cose che un uomo si lascia dietro, quando muore e che passano in fretta al rango di ricordi, o spazzatura.
John vorrebbe spazzar via quegli oggetti con un solo colpo e mettersi a urlare ma non può. Non ne ha le forze, strappate via da due notti di insonnia, incubi spezzati e domande senza risposta.
Ai confini del suo campo visivo ristagna la cartella con gli esiti dell’autopsia sul cadavere di Sherlock. Ha chiesto a Greg di portarli, che vuole leggerli e capire, cercare una motivazione, una spiegazione.
Estesa emorragia cerebrale. Perforazione polmonare. Fratture delle vertebre e del bacino. Perdita di liquidi corporei.
Il medico che è in lui, come una seconda pelle, ha registrato quei dati con freddezza. Nulla e nessuno avrebbe potuto sopravvivere a simili traumi massivi.
Nelle dita dell’uomo, però, è rimasto imprigionato l’ultima traccia di calore che ha sentito quando ha preso il polso di Sherlock alla ricerca disperata del battito. E’ un ricordo, ma fa male; così come lo ferisce ancora la sensazione del sangue sui palmi, che si appiccica ai vestiti e dell’odore ferroso che resta nel naso. Un’eco della memoria.
È stata Molly a ripulirlo, mentre i suoi colleghi portavano il corpo dal Pronto soccorso all’obitorio dopo aver certificato la morte. Molly gli ha parlato piano all’orecchio, l’ha messo su un taxi, ha avvisato Mrs. Hudson, che si è fatta trovare sulla soglia e lo ha accolto con un abbraccio umido di lacrime.
Morto.
È incredibile come una parola possa racchiudere in sé una simile devastazione. Il dolore è una bestia: ha denti, morde, lacera la carne e dilania lo spirito. Ma nulla di tutto questo emerge dallo sguardo immobile di John Hamish Watson. La mano continua a sorreggere il viso tirato, gli occhi sono fissi su una poltrona vuota.
Come è potuto accadere?
Come. La sensazione del dolore lievita nello stomaco e preme sui polmoni, minacciando di soffocarlo. Perché.
Non ha mentito. Lo sa, lo sente perché lui… lui era lui.
Se avesse avuto un fratello, non sarebbe stato simile a lui, anzi. Ma non avrebbe avuto la medesima intesa che aveva con Sherlock, un’intesa che – gli ricorda la parte lucida della mente – era stata possibile solo per l’immensa capacità di sopportazione che aveva John.
I reperti organici in frigorifero. Il violino alle due di notte. L’invasione sistematica della sua privacy. Il sarcasmo crudele e angelico insieme.
All’improvviso quei difetti che tanto odiava in lui divengono qualcosa da rimpiangere. Non avrà più nessuno con cui strillare, o infuriarsi, o semplicemente correre insieme, e questa consapevolezza lo soffoca, si trasforma in un pezzo di ghiaccio che gli brucia la gola.
John scatta in piedi e corre via, verso la porta che sbatte con violenza dietro di sé. I passi sulle vecchie scale risuonano con forza, mescolandosi al suono di singhiozzi non più trattenuti. Molly prova a inseguirlo ma Mrs. Hudson la ferma.
“No, cara. Lascialo andare. Ha bisogno di stare da solo.”
 
Mrs. HUDSON.
Siamo tutti devastati da questa storia terribile, sì. Qualunque cosa dicano questi tizi dei giornali, io non ci crederò. Il giovane Holmes era un tipo bizzoso, ma sempre un vero signore. Sapeva essere irritante, oh sì… ma non ci credo.
Mi mancherà il violino, e il chiasso che faceva quando era nervoso. Mi mancherà il sorriso gentile con cui mi gratificava quando la colazione era di suo gusto. Sto cominciando a piangere e non è giusto. Non devo, non devo affatto.
Ecco, adesso John è uscito. Io e la signorina Hooper non parliamo ma capiamo benissimo cosa prova, poveretto. Perché l’ascendente che Sherlock aveva su di lui era enorme: non so come farà a riprendersi. Era un uomo così solo e timido quando è arrivato qui e adesso… cosa farà?
 
MOLLY
Io so.
Io so e sto soffrendo perché il dolore di John è straziante. Non parla, non si lamenta: ha un pudore così forte che gli impedisce di lasciarsi andare. Vorrei poterlo abbracciare, dirgli quello che è accaduto veramente ma non posso, e oltretutto, non sono certa che gradirebbe, ecco. Troppe persone ci andrebbero di mezzo, lui per primo. E se adesso sta soffrendo, so anche che sarebbe infinitamente peggio.
Sherlock non c’è più.
Ma è ancora con noi, in un modo che nessuno potrebbe mai comprendere. Lo sento attorno a me, in questa stanza piena delle sue cose, del suo odore. Entro nella sua camera, sfioro il letto. Dietro la porta c’è la vestaglia blu; sul comodino, il laptop. La spia segnala che la batteria sta esaurendo la carica, in agonia come una lucciola intrappolata.
Anche Sherlock ha avuto il suo fardello di dolore da sopportare.
Io so.
Il mio compito è quello di proteggere e custodire i segreti. Ho appreso dai morti. Non è vero che i cadaveri tacciono: sanno parlare se li osservi, se guardi le loro ferite, le mani contratte, pallide contro l’acciaio del tavolo, i visi freddi. Loro parlano e io ho imparato a comprendere il loro linguaggio.
Talvolta, penso di essere una di loro: nessuno fa caso ai cadaveri, così come nessuno nota me. Essi sono ombre, anche se il loro guscio è ancora qui con noi. Non teniamo conto delle ombre.
Sherlock, adesso, è uno di loro.
È scivolato nel buio, cadendo dal St. Bart. Ha superato la linea tra la fatica di una vita che faceva troppe domande e il silenzio di un buio in cui esistono tutte le risposte.
 

JOHN
Dio!
Non ce la faccio. Non voglio tornare a Baker street. Il funerale di stamattina è stato un incubo: un sogno da cui non riuscivo a svegliarmi. Per tutto il tempo della funzione, ho rifiutato di accettare che ciò che stava accadendo fosse vero: mi sveglierò, ripetevo tra me e me. Mi sveglierò e lo troverò in cucina, vestito di tutto punto, chino sul suo dannato microscopio.
E invece la bara scura continuava a rimanere lì, dinanzi i miei piedi. Accanto a me, Molly si asciugava il naso nel fazzoletto. Mycroft è rimasto in disparte, sotto il suo ombrello. Non ha versato una lacrima.
Non c’era nessun altro, a parte Greg e Mrs. Hudson. Un bugiardo non merita attenzione, giusto? La lapidazione mediatica è più efficace e assai gratificante.
Sto male. Mi manca l’aria, come se ciò che sento mi schiacciasse fino a impedirmi di respirare. Il dolore è solido, ha un peso, una dimensione, un colore.
Sta facendo buio.
Londra è grigia, piove. Le luci al neon delle insegne pulsano sugli edifici, sorrisi sguaiati di una città che dimentica troppo in fretta. Ignoro la cover del Sun che occhieggia da un distributore di giornali e tiro dritto con le mani ficcate sotto le ascelle. Sento freddo, ma non riesco a capire se si tratta dell’umidità della notte che incombe o del mio malessere e, a dirla tutta, non mi interessa nemmeno.
Perché? Oh, è stato crudele da parte tua, Sherlock. Aspettare me. Me. Affidarmi un testamento spirituale, rendermi esecutore testamentario di qualcosa in cui non credo: tu non sei un falso. Non sei un bugiardo.
Mi specchio nelle vetrine di un take away: ho un’espressione stravolta; la gente mi scansa lanciandomi occhiate perplesse.
In questi due anni mi ero abituato a vederti accanto a me. Ora c’è solo il vuoto.
È strano che mi manchino certe cose di te, adesso. A volte ti ho odiato per la tua indiscrezione, per il sarcasmo gratuito, per l’incapacità che avevi di comprendere la gente.
Sei stato un bugiardo in questo, è vero: tu sapevi guardare dritto nel cuore delle persone, e vedevi la miseria, l’invidia, le limitazioni di uomini e donne che rimanevano ancorati a terra, vittime delle proprie meschinità. Se c’è una cosa che mi fa più male del tuo… della scelta che hai fatto, è vedere come la gente stia banchettando su ciò che resta della tua reputazione, della tua vita.
Sono nauseato: ci hanno accusato di avere una relazione, quasi fosse una colpa. Mi hanno dato del vedovo. E in un certo senso, lo sono. Ma sono anche orfano, sono privo di un fratello, di un padre.
Prima di incontrarti non avevo altro che una pensione militare, una vita spezzata e una pistola. Dopo, sono tornato sul campo di battaglia: Londra era il nostro terreno di caccia. Non mi sono sentito mai così vivo come in questi due anni.
Una parte di me se ne è andata con te, Sherlock. Non riesco a dire quella parola, mi fa troppo male.
Quanto sei stato egoista, quanto sei stato disperato per non renderti conto che c’erano persone che credevano in te e che non ti avrebbero mai lasciato solo? Io. Mrs Hudson. Molly. Persino Greg. Sono tutti premurosi con me: Molly mi porta del cibo che puntualmente finisce nella spazzatura; Greg rimane seduto sul divano a fissarmi in silenzio. Sono grato che non parli: non accetterei le sue scuse.
Dio santo, continuo a parlare di te al presente!
La tua assenza sarà un buco nero che risucchierà le nostre vite e dovremo lottare per sopravvivere: riscrivere gli affetti, le abitudini, le parole. Trovare nuovi ricordi da sostituire con i vecchi. Un equilibrio da conquistare passo dopo passo, con la certezza che il vuoto non si colmerà, che non sentirò più la tua voce arrabbiata, né proverò più fastidio per le occhiate che lanciavi alla tua immagine riflessa allo specchio. M’abituerò. Sono bravo in questo.
Ma non ora, non adesso.
L’insonnia mi devasta. Appena chiudo gli occhi, la mente si focalizza sulla mano di Sherlock tesa verso di me… tesa alla ricerca di un contatto o per respingermi, per tenermi ancora una volta a distanza. Nella voce c’era pianto. Stava piangendo. Di vergogna? Di rabbia? Di delusione?
È questo che mi strappa l’anima: non sapere. Non averti potuto aiutare. Non esserci stato quando avevi bisogno… non aver capito che avevi bisogno. Pensavo che ne saresti uscito, che avremmo trovato una soluzione.
È questo il mio incubo. Anzi: chiamiamolo con il suo vero nome.
Rimorso.
La mente ritorna verso i ricordi dei giorni trascorsi insieme, ma non avverto alcun sollievo in questo. Non è vero che i ricordi consolano: ti fanno male, sono una coltellata nell’anima, perché hai la consapevolezza gelida che quei momenti non torneranno e che non potrai più fare quelle domande lasciate in sospeso, o dire ciò che volevi, o che pensavi… che non potrai fare più nulla di ciò che immaginavi. Che sarà inutile implorare il destino per un minuto in più.
La quotidianità imperfetta delle giornate a Baker street diventa un eden perduto.
Persino respirare fa male e vorresti smettere se potessi.
E dentro rimane solo vuoto. E buio.
 
John Watson cammina in fretta. È quasi mezzanotte e spera che, camminando, possa stancarsi talmente tanto da crollare sul letto esausto, alla ricerca del sollievo benedetto di qualche ora di sonno. Il medico lancia un’occhiata al senzatetto arrotolato sulle griglie della metropolitana, coperto da alcuni cartoni e un velo di lacrime appanna per un istante lo sguardo. Sembra quasi rallentare, poi riprende la sua andatura feroce, macinando metri su metri in una città indifferente.
Non ha visto l’ombra che lo osserva dalla scura Jaguar nascosta nell’ombra di un platano. Non ha potuto cogliere lo sguardo trasparente che lo ha seguito nel buio, né ha scorto la ruga che solca la fronte.
Non ha letto le labbra che sussurravano una sola frase.
“Non è stato facile. Per niente.”

   
 
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