Il Sole brillava alto nel cielo terso, privo di
nubi e vento, della Virginia. Illuminava ogni luogo con i propri raggi splendenti
e, sebbene l’Estate avesse trovato il proprio termine quasi un mese prima, si
poteva ancora percepire nell’aria il sapore dei fiumi e dei laghi, meravigliosi
specchi d’acqua limpida, poco distanti. Immersa nel verde più puro e
incontaminato, tra alberi sempreverdi, conifere secolari e altissime, si ergeva
una villa maestosa. Si trovava a pochi kilometri dalla capitale della Virginia,
sulla strada verso l’Ohio, ed era quasi sconosciuta. Non molti si avventuravano
per quelle strade immerse nei boschi, solo pochi escursionisti e famiglie,
nonostante fosse ben visibile dall’autostrada principale. Era completamente
bianca, enorme, si estendeva per quasi tre ettari ed era di cinque piani. Per
arrivarvici v’era un sentiero ciottolato, bianco e signorile, e davanti a essa
v’era una fontana zampillante, di marmo verde smeraldo, che raffigurava il dio
Poseidone e alcuni tritoni. V’era una tale pace e una tranquillità che ognuno
avrebbe ritenuto che fosse disabitata, invece vi abitavano creature talmente
silenziose e accorte da passare inosservate agli occhi del poveri malcapitati
che mettevano piede nei suoi confini. Una moto, che portava il simbolo
dell’United States Postal Service, percorse il vialetto sino a fermarsi dinanzi
all’ingresso imponente della villa. Ai due lati della portone di legno di
ciliegio v’erano due leoni rampanti di marmo bianco e lucido e alcune piante di
anemone giapponesi erano poggiate a intervalli regolari di uno scalino sui
gradini sfarzosi. Un ragazzo spense la moto e avanzò sino al portone. Nulla
avrebbe turbato la quiete di quel Paradiso come il suono del campanello. Non
dovette attendere molto prima di essere accolto da una giovane ragazza alta e
bionda, dai profondi occhi azzurrini e dalle labbra rosee e sottili. Aveva la
carnagione così pallida da fargli credere che si sentisse poco bene, ma, dal
sorriso che gli rivolse, comprese che era il suo colorito consueto. Indossava
una maglietta bianca con un fiocco nero sulla spalla destra, abbastanza
scollata da fargli intravedere il pizzo del body bianco, e un blue jeans con
delle ballerine di un azzurro più scuro ed truccata abbondantemente sulle
palpebre e sulle ciglia. Prima che potesse schiudere le labbra per pronunciare
il nome del destinatario della lettera che teneva tra le mani, la giovane uscì,
con un scatto fulmineo e lo trasse a sé, facendogli sgranare gli occhi.
« Non un fiato,» gli ordinò con la voce
tintinnante, come quella di una campana melodiosa. Nei suoi begli occhi le
pupille si allargarono, azzerando quasi del tutto l’azzurro delle iridi e il
ragazzo obbedì, senza una reale consapevolezza, « Dammi quella lettera e
sparisci.» Il giovane porse la carta bianca e volse le spalle per poi tornare
alla moto. L’accese e percorse in fretta il viale, non sapendo ciò che stava realmente
facendo. La vampira lo guardò scomparire e, quando fu abbastanza lontano perché
i suoi attenti occhi potessero scorgerlo, chiuse il portone e si diresse, in un
battito di ciglia, verso il secondo piano della villa. Si fermò dinanzi a una
porta di ciliegio con una rosa dipinta sul legno chiaro e una maniglia di oro
zecchino. Bussò e poi entrò, senza attendere una risposta. Era una camera
enorme, la più maestosa di tutta la villa. Pareva una casa in miniatura. Aveva
due spazi, uno adibito alla zona letto e l’altro a quella del’armadio che, da
solo, occupava più di settanta metri. Era una stanza ariosa, aveva dieci
finestre in tutto e un balconcino che si affacciava sul giardino posteriore,
coronato da gigli bianchi e da orchidee rosa. Il pavimento era di marmo bianco,
dalle venature rosate e i muri erano occupati da quadri raffiguranti scene
antiche, da rappresentazioni mitologiche a cacce celebri. Il soffitto, invece,
era uno spettacolo unico nel proprio genere. Era il dipinto delle
idealizzazioni pagane di tutte le costellazioni con una cornice di oro puro. Sentiva provenire dei rumori dall’immenso
letto a quattro piazze sulla sinistra e osservò una donna a cavalcioni su un
ragazzo. La donna, la sua signora, indossava una camicia da notte completamente
nera, di pizzo, che la copriva sino a metà coscia. Le dava le spalle e la
vampira poteva scorgere solo i suoi lunghi capelli castano chiaro, molto mossi
e lunghi, che coprivano una porzione del petto scultoreo, glabro e pallido, del
ragazzo sotto di lei. La vampira si avvicinò sino ad arrivare ai piedi del
letto. La donna succhiava avidamente dal suo collo mentre il giovane, con gli
occhi chiusi e le labbra spalancata emetteva dei gemiti insieme di dolore ed
estasi totale. Si muoveva ritmicamente sopra di lui e sembrava non essersi
accorta della sua presenza, così presa a gustare quel nettare di vita, ma la
vampira sapeva bene che nulla poteva sfuggirle. Il ragazzo svenne lì, sotto di
lei, e la donna alzò il capo dal suo collo, dove spiccavano i segni rossi del
suo morso, ma non si voltò.
« Miss Penelope, mi spiace disturbarla, ma è
arrivato un invito per lei,» le annunciò la vampira bionda. La più anziana
passò l’indice sul petto del giovane esanime sino ad arrivare all’orlo dei suoi
boxer neri, poi, a malincuore, si scostò da lui e si volse, spostando le gambe
nude e flessuose, olivastre, accanto a quelle del ragazzo. Aveva gli occhi
azzurri, ma non di un celeste consueto, bensì cerulei, e il viso ovale, con una
fossetta sul mento abbronzato. Un rivolo di sangue scarlatto le scendeva lungo
l’angolo delle labbra rosse e piene e la giovane lo leccò in un attimo. Guardò
la lettera tra le mani della vampira e le fece cenno di sedersi dall’altra
parte del letto a baldacchino.
« Un invito? Per cosa?» le domandò guardandosi
le unghie delle lunghe dita affusolate della mano destra, come ritenendo di
nessuna importanza ciò che proveniva dal mondo esterno.
« Non l’ho aperto, signorina,» affermò
prontamente. Ogni parola con lei era una prova. Penelope non soleva fidarsi di
alcuno, nemmeno dei vampiri della sua cerchia. Era abituata a lavorare da sola
e la fiducia che offriva ai pochi adepti non era un dono, ma un mezzo. Per
testarli, per farli camminare sul filo del rasoio, passeggiando l’orlo del
baratro con una lancia puntata al fianco pronta a farli precipitare o a
salvarli. Era un gioco per lei, non erano che pedine per il suo piano di
distruzione.
« Aprilo e leggi,» le ordinò distrattamente,
guardandola solo per un istante prima di avvicinarsi alla toletta e guardarsi
allo specchio. Non vide che un’ombra, quella della sua anima perduta da troppi
secoli per poter rimembrarla. Una spazzola d’oro, rifinita da alcune
cesellature d’argento, giaceva alla sinistra del maestoso specchio di
cristallo, accanto ai profumi che portava con sé da secoli e secoli, e ai
belletti che le avevano donato nobildonne di ogni tempo. Mentre spazzolava i
lunghi riccioli dai riflessi dorati, percepiva la vampira aprire la lettera e
sorrise tra sé.
« La preghiamo di unirsi alla famiglia
Mikaelson questa sera alle sette per una serata di danze, cocktail e festeggiamenti,»
recitò atona, senza inclinazioni. Penelope si irrigidì sulla poltrona di
tessuto rosso e morbido. Mikaelson. Gli Antichi, i vampiri Originali. Al gran
completo dopo dieci secoli. Era buffo, e anche abbastanza ironico, da parte
loro invitarla a un ballo. Rise lievemente e vide la vampira scattare e
guardarla con gli occhi spalancati. Non si sarebbe mai abituata al suono della
sua risata cristallina, sebbene fosse velata dalla rabbia crescente, dal mostro
che si muoveva inquieto nel suo stomaco tentando di risalire sino al cuore e
avvelenarlo con la propria perfidia. Non che la malignità necessitasse di un
mostro per invaderle le arterie. Il pulsante era oramai spento da molti secoli.
« Nient’altro, Candice?» le domandò con la voce
arrochita da quei pensieri pregni di significanza. Se fosse stato lui a
mandarle quell’invito, che si aspettava essere scritto con un’elegante
calligrafia baroccheggiante, allora avrebbe aggiunto altro. Lo conosceva bene.
E dopo quell’abominevole arrivederci avrebbe sentito la sua mancanza, ne era
certa. Lei gli mancava. Sorrise, sorniona e maliziosa, e tornò a guardare la
vampira che si stava rigirando l’invito tra le piccole dita di bambina. L’aveva
trasformata quando aveva sedici anni. Candice Cooper, era quello il nome. L’aveva
trovata dinanzi ai binari della metro di New York, alla stazione di South
Ferry, sulla linea 9, grigia e apatica. Li guardava con tale desiderio e già si
poteva percepire il soffio del vento causato dal mezzo che si avvicinava a
velocità supersonica. V’era una folla intorno a lei, ma nessuno si era reso
conto di ciò che era in procinto di fare, così preso dalle proprie vite, dai
problemi e dal corso inutile di un’esistenza destinata a spezzarsi troppo
presto, il tempo di un respiro. Era stato un attimo. Non vi aveva pensato due
volte. Mentre alzava il piede sinistro per buttarsi sotto le ruote del mezzo,
Penelope era stata più veloce e l’aveva afferrata per la vita, promettendole
che la sua morte non sarebbe stata tanto sciocca e sconsiderata.
« Sì, signorina,» esclamò Candice, osservando
il retro dell’invito e riportandola al presente di quella bella stanza che
aveva fatto erigere ella stessa. Erano trascorsi secoli da quando non ne
possedeva una tanto magnifica. Con la fine dell’Ottocento e l’avvento delle
Guerre gli umani avevano perso di vista la vera arte, abbandonandosi alle
Avanguardie. Non aveva vissuto così a lungo, non aveva trascorso i decenni più
felici della sua esistenza in Grecia, in Italia o in Egitto per poi perdere gli
insegnamenti antichi, « C’è una scritta dietro,» le annunciò con un lieve
sorriso. La vampira anziana poteva persino percepire il lieve profumo di lui
entrarle nelle narici, « Penelope, non rifiutarti. Non puoi mancare. Sarà una
serata magica. Elijah,» recitò con più sentimento sapendo quanto attendesse di
sentir pronunciare nuovamente quel nome tanto amato. Un sorriso sincero le
increspò le labbra rosse e si portò due dita su di esse. Pareva che il suo
cuore, morto da tanti secoli, fosse tornato a battere nel solo sapere che lui
era ancora vivo e si era finalmente riconciliato con la propria famiglia. Aveva
realizzato il suo più alto desiderio. Una serata magica. Soffiò leggermente e
scosse il capo. L’avrebbe convinta già solo scrivendole il suo nome, ma quella
prospettiva l’attirava. La strega originaria. Avrebbe voluto incontrarla da
secoli, quella spregevole e infima donna, solo per ucciderla. Mikael. Aveva
sentito che era sopravvissuto da un vampiro che abitava nei dintorni di Mystic
Falls. Le aveva raccontato che Bonnie Bennett, l’ultima discendente di una
stirpe straordinaria, non aveva potuto permettere che l’unica arma che avevano
per uccidere Klaus potesse essere spezzata da lui stesso e aveva incendiato il
paletto di quercia bianca. Mikael, il cacciatore di vampiri, il più spietato e
perfido degli Originali. Poi v’erano i figli. Elijah, Finn, Niklaus, Kol e
Rebekah. Sospirò lievemente. Li aveva conosciuti tutti in vari secoli e l’unico
dato che era stata in grado di estrapolare da quella accurata analisi era che
la meno temibile era quella bambolina ricolma di disprezzo verso il prossimo,
ma bramosa d’attenzioni. Sarebbe stata davvero una serata magica. Lo avrebbe
rivisto, dopo che credeva di averlo perduto per tanti, innumerevoli secoli
quando avevo scorto Klaus perforargli il petto con il pugnale. Invece era vivo
e doveva ringraziare il caro Damon Salvatore per quello. A Sage avrebbe fatto
piacere sapere che il suo allievo preferito era diventato un vampiro degno di
nota. Si issò in piedi e avanzò verso il letto, lentamente, mentre sentiva
rinvenire il giovane uomo che aveva ammaliato. Non aveva dovuto usare una forte
costrizione mentale. Aveva ceduto subito notandola così vestita, o svestita.
Quasi rise nel ricordare l’espressione di puro diniego, misto a un sorrisetto
ironico e sarcastico, che le avrebbe rivolto Elijah se l’avesse vista con
quella camicia da notte che non le copriva praticamente nulla per com’era
trasparente. Eppure l’avrebbe guardata a lungo, ne era certa. l’avrebbe
condotta lontano da ogni sguardo maschile e l’avrebbe osservata, forse senza
far nulla, ma quegli occhi neri, come i fondali di un Oceano profondo e
terribilmente attraente, sarebbero stati la sua unica linfa vitale per
l’eternità.
« Candice,» chiamò la vampira prima di poggiare
il viso sul collo del giovane che stava schiudendo gli occhi verdi.
« Sì, Miss?»
« Prepara i miei bagagli. Necessito di partire
con la massima urgenza,» le comunicò perentoria prima sentire i canini
sguainarsi. Lo morse, con forza, con il preciso intento di ferirlo e non di
portagli via quell’ultima stilla di vita. Il ragazzo gemette, sussultò e poi
urlò dal dolore, tentando di scansarla via. Candice non aveva ancora obbedito,
forse per vedere cosa avesse intenzione di fargli. Uccideva molto raramente un
umano. Solitamente beveva da loro, lasciando un’unica parvenza di vita, per poi
abbandonarli a qualche vampiro della sua cerchia che lo finiva per lei. Non
voleva sporcarsi le mani, ma quella mattina, dopo la lettera, aveva perso
quella maschera di magnanimità. La collera le invase ogni cellula del suo
essere. Sbatté il ragazzo, che era scattato a sedere, sul letto, mettendogli
solo una mano sul petto glabro e lo morse talmente forte da spezzargli l’osso
del collo. Ricadde tra le coltri bianche, gli occhi spalancati dal terrore, le
labbra schiuse in una mite preghiera che nessuno mai avrebbe potuto realizzare.
Penelope si voltò subito dopo, passandosi il dorso destro sulle labbra e
passando la lingua su esso per ripulire il sangue che le aveva macchiato il
mento e Candice tentò di non sobbalzare per ciò che vide nei suoi begli occhi
resi mostruosi dalla trasformazione. Non era bella in quel momento, no, era
soltanto terribile e quello era il suo vero viso, ma Candice le portava la
riconoscenza di averle mostrato di poter avere un’esistenza migliore, « Porgimi
quell’invito,» le ordinò con la voce falsata dai canini distendendo la mano
sinistra verso di lei. Candice, impaurita e tremante, obbedì subito e il bel
volto ritornò a essere quello di angelo. Guardò soltanto il retro, dell’invito
vero e proprio poco le importava. Era la calligrafia elegante e nobile di lui,
non v’era alcun dubbio. Le lettere allungate, quasi per ampliare il messaggio,
il segno deciso delle panciute vocali. Carezzò quelle lettere con il polpastrello
dell’indice destro, ammirandone ogni lieve dettaglio, « Elijah, da quanto
tempo,» esclamò infine con voce calma e calda, avvolgente, come se dinanzi a sé
avesse quell’Antico vampiro dai modi cortesi e affabili, freddi e composti.
Sollevò gli occhi azzurrini dalla carta bianca e liscia per guardare la
vampira, « Candice, chiama il sarto,» mormorò con la voce arrochita dalla
passione che l’aveva colta in una scarica di adrenalina. Uccidere quel ragazzo si
era dimostrato fruttuoso. Aveva potuto nuovamente percepire la reale condizione
del suo essere senza inibizioni e regole che da sola si era imposta tanti
secoli prima.
« Quale stoffa desidera?» le domandò Candice
avvicinandosi alla porta, senza interrompere quel divertente gioco di sguardi.
A Penelope piaceva essere osservata, scrutata, direttamente negli occhi.
Comprendeva cosa risiedesse nelle anime di coloro che erano accettati al suo
fianco, quei pochi che osavano avvicinarsi a lei, solo con un semplice sguardo.
Era una dote che possedeva quand’era ancora umana e quella, come mille altre
piccole sfaccettature del suo carattere temprato dall’antico vigore degli
uomini norreni che avevano esplorato il mondo superando ogni ostacolo dettato
dal timor di Dio, era stata intensificata dalla trasformazione. Ponderò quella
richiesta come se fosse della massima importanza. La prima volta che aveva
visto Elijah non indossava propriamente un bell’abito. Avrebbe dovuto
rimediare.
« Un abito di Chiffon, un colore forte, lungo,
con uno strascico evidente,» lo descrisse affidandosi per la tonalità al suo
caro amico, « Devo brillare, Candice,» le rivelò, issandosi in piedi e
avanzando verso la toletta. Si passò la spazzola tra i lunghi capelli per poi
acconciarli fermandoli appena sopra la tempia destra con un fermaglio di perle
e d’oro, che era appartenuto a una contessa francese nel Settecento.
« Lo fa senza un abito sontuoso, Miss
Penelope,» esclamò la giovane vampira con voce quasi carezzevole, ilare e
leggera, veramente convinta di ciò che asseriva. Penelope non rise, né mostrò
di essere lusingata da quel complimento. Non lo era davvero. Non era lei la
persona da cui bramava essere osannata. Elijah non si era mai complimentato con
lei, sebbene i suoi sorrisi impercettibili fossero la più degna prova di elogio
ed encomio che poteva desiderare. Elijah non utilizzava mai troppe parole, le
riteneva inutili dopo tanti secoli. Loro riuscivano a comprendersi con un solo
sguardo. Aveva scorto un rapporto simile al loro, sebbene fosse certa che nulla
avrebbe potuto eguagliare ciò che lei nutriva profondamente per l’Antico,
soltanto in quello di Finn e Sage, la sua migliore e più cara, nonché anziana,
amica. Avrebbe dovuto avvisarla che Finn era oramai tornato in vita, ma
sicuramente l’Antico aveva già provveduto a invitarla a quel principesco
ricevimento.
« Voglio essere brillante per lui,» chiarì subito,
atona e incolore, « Adesso vai,» esclamò subito dopo, scegliendo una cipria di
qualche secolo prima, l’Ottocento, se non rimembra male, che sembra rifulgere
come se fosse stata costituite dall’oro sbriciolato, « Penso mi tratterrò a
lungo lì,» aggiunse con un sorriso, prendendo il pennello dalle setole
marroncine e folte. Sarebbe rimasta a Mystic Falls sino a quando il suo piano
non si fosse attuato e realizzato. E, con tutti i vampiri e le streghe presenti
in quella cittadina sperduta tra Charlottesville e Lynchburg, non sarebbe stato
semplice.
« Ma il marchese ha espressamente richiesto la
vostra presenza alla corte la prossima settimana,» ribatté la vampira sulla
soglia, osservandola incredula, con le sopracciglia dorate aggrottate in
un’espressione confusa e sbalordita. Il marchese Forneus, avente le sembianze
di un immenso mostro marino, uno dei demoni più famosi e temuti dell’Inferno
poiché mutava a proprio favore la buona reputazione degli uomini, facendoli
amare sia da amici che da nemici. Penelope sorrise sorniona. Il marchese
l’aveva invitata innumerevoli volte nella corte infernale, ma aveva preso parte
a pochi ricevimenti. Detestava quelle creature con tutta se stessa. Il loro
aspetto era ripugnante, ma necessitava di alcuni favori alle volte e il
marchese intercedeva sempre per lei. Sospettava fosse per la propria soave avvenenza, o forse per
aveva compreso da chi discendesse. A Penelope non importava davvero conoscere
quell’ennesima verità. Dopo innumerevoli secoli la mente era ingombra di eventi
storici, realtà private e incalcolabili vicissitudini.
« V’è una persona in quella città molto più
importante del marchese, mia cara ragazza,» sussurrò con un filo di voce,
mentre anche il sorriso si spegneva. Era da stolti mostrare il proprio cuore
tanto apertamente e Penelope v’era riuscita soltanto con Elijah, poiché la
fiducia che serbava nei suoi confronti era così forte e pura, senza la macchia
della loro dannata immortalità, da farle credere che nulla avrebbe mai potuto
intaccare il loro rapporto, nemmeno il sangue. Eppure si erano allontanati, se
mai erano stati realmente insieme. Sospirò lievemente. Era a causa sua, di quel
contatto che non avrebbe mai potuto sciogliere, per quell’uomo che a stento le
aveva rivolto la parola durante i secoli, « In verità, ve ne sono due,»
rammentò tra sé. Quell’uomo era troppo importante per dimenticarsi della sua
imponenza. Aveva quel ruolo nella sua storia che mai nessuno aveva osato
rubargli, come se lo scettro del potere potesse esistere solo nelle sue grandi
mani bianche dalle dita affusolate e macchiate del sangue innocente di infinite
persone. Un’espressione colma di sdegno malcelato occupò le sue labbra piene,
poi scosse il capo e ritornò in sé. Non poteva odiarlo, no, sebbene l’avesse
separata da Elijah, semplicemente non poteva. Aveva quel posto nel suo cuore
che nemmeno l’Antico dagli occhi color delle pece e il sorriso tenebroso aveva
mai occupato, « Scrivi ed esponigli tutto il mio rammarico. Gli presterò una
mia legione di vampiri come pegno di riconciliazione,» esclamò infastidita da
quei pensieri. Candice, capendo che non era l’occasione migliore per essere al
suo fianco, annuì e lasciò la camera, abbandonandola alle proprie riflessioni.
Si issò in piedi, dopo aver passato un lieve strato di rossetto appena
brillantinato sulle labbra e un ombretto bianco sulle palpebre. Non aveva
necessità di altro, anzi a Elijah sarebbe parso eccessivo e avrebbe riso di
quella futile vanità che avrebbe attirato gli altri uomini come in una ragnatela
mortifera. Guardò il giovane sul suo letto e non sentì nulla. L’umanità era
spenta, non del tutto, lasciava soltanto lo spiraglio per i ricordi lontani di
Elijah. V’era solo e soltanto il suo nome nella sua mente e mai sarebbe stato
cancellato. Guardò l’invito che aveva adagiato sulle coltri candide e rise
leggermente, « Mystic Falls, che cittadina complessa. Siamo ritornati agli
antichi tempi felici, mio caro amico?» Nessuno le rispose, probabilmente non
avrebbe proferito parola nemmeno il diretto interessato di quel soliloquio che
la vedeva l’attrice protagonista, sola e unica interprete di un Destino avverso
che l’accompagnava da secoli. Un suono, un lieve bussare alla sua porta, la
destò da quelle riflessioni e si volse di scatto verso di essa. Sulla soglia scorse
un uomo, un vampiro in verità, il suo sarto personale dal 1850. Non l’aveva mai
abbandonata, adorava abbellirla con i propri abiti sontuosi e perfetti per ogni
occasione. Affermava sempre che era la donna più malleabile che aveva mai incontrato.
Avrebbe potuto indossare di tutto senza parere né troppo austera né eccessiva.
Aveva quarantacinque anni quando l’aveva trasformato e i suoi occhi neri e
profondi erano stati porti sicuri dove aveva sempre potuto far ritorno quando
si spingeva troppo oltre, in mare aperto.
« Signorina, ho ciò che mi ha richiesto,»
esclamò dolcemente con la sua voce baritonale e possente. Penelope gli sorrise
e con un ampio gesto della mano lo invitò ad accomodarsi nell’enorme camera.
Portava tre abiti con sé e la vampira, che poteva avere non più di trent’anni,
sorrise con la leggerezza di una bambina.
« Prego, Benjamin, entra nelle mie stanze,» mormorò
delicata quando il sarto non accennò a entrare. Obbedì prontamente e si
accomodò nella camera avvicinandosi al separé di legno di ciliegio con alcune
rifiniture in oro che ritraevano piante ornamentali. Lì poggiò i tre abiti, con
le relative calzature, e Penelope li osservò assorta, « Sei sempre il
benvenuto. Che splendide vesti,» aggiunse tra sé, appropinquandosi a esse e
sfiorandone la stoffa. Quella alla sua sinistra mostrava un abito ottocentesco,
sul rosato antico, senza spalline e con strascico vaporoso e ampio. Il corpetto
aveva delle pieghe sull’addome e alcune rifiniture di pizzo sopra il satin
mentre la gonna, di una tonalità più chiara, aveva delle fantasie in rilievo a
rombi della stessa tonalità del bustino. Al centro v’era un abito molto più
semplice, ma che le sembrò ancora più elegante. La stoffa della gonna
longilinea era di un celeste impalpabile ed etereo. Aveva una fascia in vita
con al centro una linea di piccoli diamanti bianchi e sopra si estendeva un
corpino brillante e delle spalline che si intrecciavano dietro il collo. Alla
destra v’era un vestito rosa e abbastanza sensuale per la mancanza di stoffa
dietro le spalle. Il tulle della gonna la colpì subito per l’elaboratezza della
tinta, ma lo scartò quasi senza pensarci due volte.
« Può…»
« Ho necessità di sceglierne una, mio caro,» lo
interruppe, sfiorandogli il braccio, a malincuore. Le avrebbe portate con sé,
tutte, ma desiderava viaggiare il più leggera possibile e sapeva che in quella
cittadina non v’erano degli eventi così sofisticati da richiedere degli abiti
di quel calibro. Sebbene avesse già preso la sua decisione, sorrise e gli
domandò consiglio, « Dimmi, dovrei puntare alla sontuosità, all’eleganza, o
alla sensualità?» Benjamin rise lievemente e si avvicinò a lei, quasi
sfiorandole la leggera camicia da notte per osservare gli abiti con la sua
stessa prospettiva. Si massaggiò il mento glabro e candido, poi scrollò le
spalle. Egli stesso non avrebbe saputo scegliere, non tra i suoi abiti che
curava con la massima considerazione.
« Dipende dal tipo di uomo che vuole incantare,»
optò infine per una risposta neutra. L’uomo che voleva incantare. Guardò
l’abito al centro quasi con ossessiva bramosia. Era quello che avrebbe scelto
anch’ella. Era fine e perfetto, Elijah l’avrebbe osservata per tutta la durata
del ballo, ne era certa.
« Eleganza. Raffinata e splendida. Come farò
senza di te in questo tempo?» aggiunse ilare, incominciando a spogliarsi
dinanzi a lui. Non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, ma Benjamin
l’osservò meravigliato da tutta quella spontaneità. Rimase soltanto in intimo
bianco, rifinito dal pizzo etereo, per poi indossare l’abito. Era splendido,
come una carezza sulla sua pelle lievemente abbronzata. Sorrise nel ricordare
che lo stesso tocco di Elijah.
« Miss Penelope, è tutto pronto,» si affacciò
Candice, prima di sgranare gli occhi azzurrini nel notare quegli splendidi
abiti. Li avrebbe donati a lei se tanto le piacevano. A Penelope era
sufficiente quella veste che le lambiva la pelle morbida, « Fernand è appena
arrivato con la sua auto,» le annunciò mentre poteva percepire il suono rovente
della sua Aston Martin dbs v12 nera metallizzata.
« Se vi dovesse essere qualche inconveniente,
non esitate a chiamarmi,» li raccomandò prima di scomparire in una folata di
vento gelido. Arrivò sino all’ingresso prima di percepire che Candice l’aveva
seguita.
« Non porterà nessuno con lei? Potrebbe essere
rischioso,» aggiunse intimorita che qualcuno avesse potuto arrecarle qualche
dispiacere. Aveva sentito chi abitava in quella cittadina ed era da
irresponsabili recarvisici senza alcuna protezione, persino per una vampira
antica quanto lei. Penelope sorrise per quell’accortezza. Quella giovane fanciulla
l’aveva colpita sin dal primo istante. Le sfiorò la guancia pallida in una
lieve carezza, materna quasi, poi aprì lo sportello posteriore mentre Fernand
le rivolgeva un sorriso di benvenuto.
« Candice, bada alla villa sino a quando sarà
via e, te ne prego, scrivi al marchese una missiva di accorata afflizione,» la
sollecitò con finto dispiacere, portandosi una mano sul cuore e l’altra sulla
fronte, facendola ridere per la quella secentesca melodrammaticità.
« Felice ballo, Miss Petrova.»
_-_-_-_-_
Buon giorno a tutti voi. Questa è la mia seconda longfic ed è incentrata sul pairing Elijah/OC, ossia Penelope Petrova. Nulla è ciò sembra in questa storia, nemmeno l’ovvio. Questo è soltanto il prologo, ma spero lascerete una piccola recensione. Intanto vi lascio le immagini dei tre vestiti:
http://i49.tinypic.com/a5b0op.jpg
http://i50.tinypic.com/2mgw7du.jpg