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Autore: A l i c e    30/06/2012    4 recensioni
Sono passati nove anni dal fatidico scontro e le Mew Mew, ormai ex paladine della giustizia, si sono fatte una vita loro. Sarà un ritorno inaspettato e uno (o due) sconvolgente segreto a travolgere il corso degli eventi e le loro vite.
Una precisazione: se in questa storia i personaggi possono apparire OOC, è perché ho voluto farli crescere e maturare. Buona lettura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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The lost life
The lost life
 

  *Prologo*

 

   L’orologio tondo appeso alla parete scrostata della stazione segnava la mezzanotte passata e in giro non c’era anima viva. Il lento scorrere del tempo era regolarmente scandito dal frustrante ticchettio delle lancette nere che rimbombava in modo quasi assordante tra i binari desolati. Poco più in là, sul cartellone degli orari dei treni, l’unico foglietto affisso sbatacchiava freneticamente contro la lastra di compensato, tenuto in gabbia solo da un pezzettino si scotch. Le fredde lampadine al neon rilucevano di una fioca illuminazione intermittente, creando di tanto in tanto piccoli scoppi.
   L’aria stagnante d’inizio marzo era fin troppo calda e afosa e sembrava essere attraversata da fremiti nervosi che la ripulivano dell’odore maleodorante di cui era pregna. Di tanto in tanto, un soffio di vento più violento degli altri faceva scricchiolare le ultime foglie secche rimaste a terra, dando un tocco di grazia a quella sinfonia di elementi. Perfino la strada che fiancheggiava la stazione, solitamente gremita di traffico, quella sera pareva deserta.
   Alzando gli occhi al cielo, le poche anime ancora sveglie si sentivano piccole e insulse: il manto scuro che avvolgeva la città era invaso da stelle rese opache dallo strato di nubi cariche d’acqua che le coprivano, rendendole ancora più lontane del dovuto.
   I binari che si affollavano alla stazione erano lucidi e lisci e il lieve strato di pioggia che li copriva rifletteva la triste desolazione di quel cielo senza luna.
   Si poteva già scorgere la luce dell’ultimo treno della giornata che il lieve guscio di silenzio fu rotto da un rombo potente, e dal firmamento cominciarono a cadere grosse gocce d’acqua, quasi a presagire qualcosa di strano e sbagliato.
   Il treno si muoveva velocemente e finalmente raggiunse il capolinea, arrestando la sua lunga corsa. Le porte degli unici due vagoni si aprirono e nessuna voce metallica risuonò nell’aria, nessun capotreno scese a gridare il nome della fermata. Solo la pioggia e il marciapiede vuoto arrivavano ad accogliere l’unica persona scesa: un’ombra offuscata dall’acqua, chiusa in un giubbotto di pelle nero.
   Scese lentamente, strascicando i piedi, con le spalle curve e le mani in tasca. Immobile sotto la pioggia, il bavero del giubbotto sollevato e la testa abbassata a nascondere un volto sconosciuto. I capelli rossi erano piuttosto lunghi e ricadevano grondanti ai lati del collo, appiccicandosi qua e là sul viso.
   «Vuoi già andartene?» domandò una voce sottile e rauca.
   Con un movimento lento l’ombra sollevò lo sguardo da terra, mostrando il volto al vuoto. Il cielo, il luogo intero quasi, sembrò riconoscerla, poiché liberò un ruggito più potente degli altri e la pioggia prese a scrosciare più violenta. La ragazza sembrò quasi sorridere compiaciuta quando un fulmine particolarmente vicino fece tremare la terra. Poi, con una flemma quasi estenuante, girò la testa fino a far incrociare i suoi occhi castani con quelli riflessi nel vetro affianco. La vista di quello sguardo acquoso e senza profondità le fece piegare la bocca in una smorfia di disgusto, nonostante tutti quegli anni passati.
   «No, sono appena arrivata». Diceva così ma i suoi occhi sembravano cercare disperatamente un treno che la portasse lontano, da dove era venuta.
   L’ombra la guardò ancora per qualche minuto con aria compassionevole prima di ripetere la domanda, questa volta velata d’ironia.
   Ichigo, si chiamava così la ragazza, distolse con disprezzo lo sguardo da quell’essere che tanto la ripugnava e l’ennesima stilettata al cuore la trafisse: se solo avesse potuto, si sarebbe uccisa da sola pur di liberarsi di quel mostro.
   «Lasciami perdere» biascicò tentando di accendersi una sigaretta, riparandola inutilmente dall’acqua con la mano umida. Ringhiando sommessamente schiacciò a terra la spagnoletta fradicia e con un gesto secco voltò lo sguardo verso le luci della città. Quanto le era mancato quel posto!
   «Che dici, andiamo?». L’ombra disgustosa era ancora lì che la scrutava, con gli occhietti neri che brillavano malevoli nel buio. Anche lei non vedeva l’ora di far ritorno alla città, il suo luogo d’origine, dopo anni di esilio.
   Ichigo rimase a osservare l’orizzonte ancora per una manciata di secondi, dopodiché annuì. Era tempo che lei e gli altri si rincontrassero, dopo anni e anni passati a morire e rinascere.
   E il suo sguardo ancora una volta implorava: portami via.

 

   L’appartamento era immerso nel buio e nel silenzio della notte, fatta eccezione per il lieve russare che proveniva dalla stanza da letto. L’orologio segnava l’una in punto quando quella pace ovattata fu rotta bruscamente da una secca ed insistente serie di colpi.
   Un ragazzo biondo e alquanto scocciato calciò lontano le lenzuola che gli si erano attorcigliate alle gambe, sbuffando e masticando parole amare. «Arrivo, arrivo».
   «Vado io, se vuoi». Minto si stiracchiò nel letto, raggiungendo placidamente il braccio del ragazzo.
   «No, tu stai qui». Ryo s’infilò i pantaloni del pigiama e le pantofole in poco tempo, con gesti veloci e secchi. «Vado a vedere chi è questo scocciatore e torno subito».
   I colpi alla porta d’ingresso ripresero più forti e decisi di prima, incuranti di tutto e tutti.
   «Ho detto che arrivo, cazzo!».
   Le chiavi girarono nella toppa della serratura un paio di volte, la catenina liberò la porta laccata di bianco e la serratura scattò.
   «Ciao, Ryo».
   Fanculo.
   «Che sei venuta a fare?».
   «Sono tornata».
   Fanculo pensò Ryo prima di chiudere la porta.
   «Chi era?» domandò Minto vedendo tornare il ragazzo scuro in volto. Era seduta sulla sponda del letto con una vestaglia nera poggiata sulle spalle.
   «Nessuno».

 

Note di Alice:
Questo in realtà doveva essere la revisione di una mia vecchia ff "Un nuovo giorno sta nascendo", ma avevo talmente perso la passione per quella ff che l'ho eliminata.
Così, mi sono seduta davanti al computer e ho ricominciato e scrivere tutto daccapo. E' breve come prologo, lo so, prima scrivevo molto di più o per lo meno mi sforzavo, ma ora ho deciso di prendermela comoda.
Spero di non avervi delusi, ma prometto che, anche se magari i capitoli saranno più brevi cercherò di non deludere le vostre aspettative :)
Dico un'ultima cosa: negli avvertimenti c'è scritto "drammatico", quindi la storia sarà piuttosto triste, ma non ho ancora deciso se ci sarà un happy o bad ending.
Spero di avervi incuriositi almeno un poco e vi ringrazio per aver letto. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate :D

Alice

   
 
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