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Autore: Quainquie    01/07/2012    6 recensioni
Quando la vita della sovrana di Camelot viene minacciata, Arthur e Merlin devono affrontare una sfida che potrebbe spingerli a riconsiderare la natura stessa della loro missione e del loro rapporto. Curiosamente, l'aiuto più significativo per impedire ai due di smarrire la via giunge dalla persona più inaspettata: Sir Percival.
***
«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Merlino | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Carissime/i,

Dopo questa imperdonabilmente lunga pausa – segnata da impegni accademici quali esami e preparazioni della tesi e gite viennesi e milanesi per archivi polverosi – rieccoci qui con il sesto capitolo. Sappiate che ho fatto incetta di paramenti, gioielli e palazzi asburgici e di letture a tema, per cui ignorate le mie future digressioni ornamentali, potrebbero essere altamente letali. Ringrazio infinitamente i miei lettori e soprattutto i miei recensori: siete un costante motore per dare forma in carta e inchiostro alle mie idee balzane! Spero che il capitolo sia abbastanza buono e denso da farmi ottenere il vostro perdono, considerati i due mesi di assenza (purtroppo non previsti).

Rinnovo al solito il consiglio di dare una lettura propedeutica alla mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, anche a costo di essere tacciata di monotematismo. E ora le dovute precisazioni: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC (e, in primis, della leggenda arturiana).

Buona lettura!

Quainquie

 

Cap. VI – You’re the silence in between

Florence + the Machine, No light, no light

 

«Chi è Emrys, mia signora?»

Dopo essersi innalzata con fiera curiosità nel suo slancio interrogativo, la voce di Arthur si spense improvvisamente, lasciandosi dietro uno strascico di silenzio che il sovrano sperava potesse essere colmato dalla risposta della Sacerdotessa delle Mele. Ma se si fosse dato pena di gettare uno sguardo intorno a sé, di porre un’attenzione più intensa alle sue percezioni, si sarebbe certamente accorto che il silenzio che lo circondava era ben lungi dall'essere un tutt'uno con il proprio, che era venato di semplice e insistente interesse: era invece un guazzabuglio di silenzi che esprimevano con forza le emozioni del rispettivo proprietario. Percival non era mai stato particolarmente abile a rendere manifesti i propri sentimenti o le proprie idee, ma si riconosceva una certa prontezza di spirito nella percezione degli stati d’animo altrui, forse perché per lui, così taciturno, il silenzio si realizzava in distinte e familiari sfumature, piene e sfuggenti.

Gaius s’era limitato, al solito, a mantenere quell’espressione di lucida e nel contempo vibrante calma che lo contraddistingueva, le mani solcate da rughe profonde intrecciate e celate alla vista dalle pieghe ancor più profonde della sua veste purpurea. La labbra serrate disegnavano una linea lievemente storta nel volto vizzo, che tradiva sia il sospetto che l’anziano medico di corte nutriva nei confronti della Sacerdotessa sia l’abituale compostezza che tentava di fungere da barriera ai suoi pensieri.

Alle spalle della seggiola sulla quale Gaius aveva accomodato la sua fragile figura di vecchio, proprio accanto a sé, Percival sentì Leon irrigidirsi dallo stupore, mentre la sua armatura emetteva un puntuale e impercettibile scricchiolio, i sottili anelli della cotta che si frizionavano appena. Lo sbigottimento di Leon non avrebbe potuto essere più evidente nemmeno se l’avesse urlato: i suoi occhi chiari, già innaturalmente grandi, si sgranarono ancora di più, saettando inquieti dalla figura snella della Sacerdotessa alla testa bionda di Arthur, che appena spuntava dallo schienale del seggio intarsiato.

Proprio di fronte a loro, ritta e esile come un giunco, stava Blanche. Percival non avrebbe avuto nemmeno bisogno di scrutarne con attenzione le fattezze per poter cogliere nel suo silenzio tutto il vanto della consapevolezza, che degradava in modo inesorabile nella presunzione. Non era presunzione personale, quella di Blanche, bensì il marchio che Dindrane, la Somma Sacerdotessa, le aveva impresso, trasmettendole la vanagloriosa convinzione che le creature magiche, nella loro superiorità di sensi e percezione, grazie all’immenso potere concesso loro dalla Visione di ciò che è stato e ciò che dovrà venire, erano latrici di volontà universali. Il possente cavaliere si ritrovò a pensare con nostalgia alla bambina dalle trecce bionde appuntate alla nuca che suo padre gli aveva indicato con discrezione dall’alto dello spalto del Re molti anni prima, informandolo in tono orgoglioso che quella era la figlia del Duca delle Isole, la promessa sposa di suo fratello, il Principe Aglovale. All’epoca Percival non aveva avuto troppo interesse per quella ragazzina bionda e lievemente lentigginosa, ma ora ne rimpiangeva l’innocenza.

Scacciando silenziosamente il proprio rammarico, Percival volse il proprio sguardo a Merlin, che ancora stava ritto in piedi accanto al suo sovrano, e dovette imporsi di mantenere tutta la propria padronanza di sé per impedirsi di imprecare. Gli occhi del giovane valletto erano spalancati dalla sorpresa, dalla confusione: tuttavia il guizzo di speranza che li animava era chiaramente percettibile, almeno quanto il desiderio misto a sofferenza con il quale fissava il sovrano. Speranza, desiderio che finalmente Arthur sapesse? No, era assurdo, rifletté Percival, i pensieri così vorticanti nella sua mente da annebbiarla. Merlin si era sempre prodigato oltremisura per nascondere ad Arthur la sua natura magica, con tutta probabilità in attesa del momento più appropriato a una rivelazione di tale portata. Figurarsi poi se avesse voluto confessare non solo di essere un mago, ma di essere Emrys, lo stregone che tutto il mondo della magia attendeva dall’alba dei tempi, colui che avrebbe portato pace e concordia sulle terre di Albion! In un attimo di panico genuino Percival si sentì smarrito; ma quando Merlin posò con fermezza un passo dinanzi a sé, iniziando a sollevare le mani come a voler sfiorare la schiena robusta e leggermente arcuata di Arthur, il cavaliere comprese.

Non stava fissando Arthur. Stava fissando Blanche. Che lo fissava di rimando. D’improvviso, la mente di Percival non dovette più consumarsi alacremente per comprendere gli avvenimenti che negli ultimi tempi erano rimasti inspiegati e inspiegabili. Le allucinazioni di Merlin nei sotterranei del castello. Il desiderio carnale, pungente e tormentoso, che lo aveva risvegliato quella stessa mattina, circuendolo a mo’ di avvertimento.

Senza indugiare oltre il cavaliere avanzò, aggirando il seggio ornato di Arthur con due falcate ampie e rapide. Fu l’istinto, non la ragione, a guidarlo: e se ne pentì in parte quando si rese conto che lo spostarsi della sua mole aveva sì provocato sorpresa tra tutti gli astanti, che si erano rivolti verso di lui, ma che d’altro canto non aveva una ragione plausibile per essersi mosso così repentinamente, andando inoltre a cozzare con la testa, in modo del tutto involontario e fragoroso, contro uno dei due lucernari che incombevano sulla tavola e che illuminavano con un languore palpitante le carte dispiegate. Il colpo fu abbastanza secco, considerato l’impeto con cui il cavaliere si era mosso, e i punti gialli e violacei che si diffusero liquidi sul suo occhio sinistro, accompagnati da una pulsazione dolorosa sulla tempia, glielo dimostrarono.

«Percival…?» La voce di Arthur risuonò impensierita piuttosto che irritata, la cadenza interrogativa che esprimeva benissimo il suo sconcerto.

«Io… volevo vedere meglio le carte, Sire, il percorso» buttò là il cavaliere, portandosi una delle grandi e nerborute mani alla testa, il tono a metà tra il riottoso e l’imbarazzato. Aveva proferito la prima, sciocca scusa che gli era venuta in mente, e ora avrebbe voluto farsi piccolo per la vergogna: ma se nel caso di altri era già impossibile, figurarsi nel suo, un gigante!

Arthur gli scoccò un’occhiata desolata: «Avresti semplicemente dovuto chiedere, non te l’avrei negato».

Evidentemente il Re si stava interrogando sulla sanità mentale del suo cavaliere, rifletté Percival: un colosso che apriva bocca soltanto di rado, per di più soltanto per pronunciare frasi brevi e ponderate, che solitamente tendeva a tenersi in disparte, proprio a causa della sua stazza inusuale, all'improvviso si era messo ad agire con leggerezza, senza un motivo valido, cercando di distruggere i lampadari del castello e accampando giustificazioni eccentriche!

Tuttavia, da quanto fu in grado di scorgere a dispetto del martellare della sua tempia, il contatto visivo tra la Sacerdotessa e Merlin si era interrotto. Il giovane valletto aveva dipinta sul volto la medesima espressione di doloroso e crucciato disorientamento che aveva avuto nei sotterranei del castello tempo addietro: era indietreggiato di scatto e si era guardato intorno in modo cauto e febbrile insieme, come temendo che qualcun altro nella sala si fosse accorto del suo stato di rapimento. Percival pensò che era una precauzione inutile, considerato soprattutto il fatto che i presenti avevano appena avuto il diletto di essere intrattenuti da un gigante dal piede pesante e la battuta per nulla pronta.

«Emrys è il più potente stregone di tutte le ere trascorse, imminenti e future, mio signore» esordì allora Blanche, come se volesse ad ogni costo riprendere il discorso dove era stato in malo modo interrotto, nonostante il pathos fosse stato irrimediabilmente infranto. «Le mie genti attendono il suo arrivo con impazienza e con fervida speranza: con il re della Stirpe della Testa del Drago, Emrys è destinato a riportare pace, unione e prosperità nelle terre di Albion».

Arthur la fissò frastornato; poi replicò, adombrandosi: «Temo che le tue genti non abbiano interpretato i segni correttamente stavolta, mia signora».

Gli occhi ambrati della Sacerdotessa baluginarono di fronte a quel vacillamento: «Dovete ascoltarmi, Re Pendragon. Abbiate fede».

Il sovrano scosse il capo, con fare rassegnato, ma fu con voce lucida che affermò: «Quale stregone vorrebbe mai allearsi e dare la sua fiducia al figlio del Re Purgatore? E il popolo non comprenderebbe mai una tale alleanza, mia signora: e un Re non è tale senza l’appoggio dei suoi sudditi».

«Un Re non è tale se non ha il coraggio di seguire il suo cuore, Arthur Pendragon» replicò lapidaria la Sacerdotessa delle Mele. «Gli antichi possono sbagliare, questo è indubbio. Ma la Cometa Vermiglia a tre punte che ha preceduto la vostra nascita, mia signore, aveva un unico possibile significato: voi siete il Re che riporterà con Emrys la pace ad Albion» La donna fece una pausa e poi recitò, in tono trasognato: «E in un lampo sorgeranno i mari e le ceneri degli antichi verranno ristabilite».

«Nessuno mi ha mai parlato né di un tale fenomeno né di una tale profezia!» rispose allora Arthur con forza, sulla difensiva, per poi posare gli occhi sull’anziano medico di corte, che si limitò a scuotere il capo in segno di ignoranza.

La donna addolcì allora l’espressione e aggiunse in tono condiscendente: «Mio signore, non è il talento più grande dei mortali quello di frugare il cielo e di interpretarne i segni. Essi sono incapaci di elevarsi così in alto e di abbandonare i loro affari terreni» Ritornò seria. «Arthur Pendragon, se non avrete fede non potrete mai posare piede sul suolo dell’Isola delle Mele né compiere il sacrificio che dovete dalla Coppa. E allora le conseguenze per voi e il vostro regno saranno terrificanti».

Il medesimo silenzio che aveva avvolto la sala poco tempo prima piombò di nuovo, sempre opprimente, e sempre sfaccettato. La Sacerdotessa non parve curarsene: con grazia si lisciò le increspature della veste color zafferano e si riaggiustò la cappa di lana grezza sulle spalle, cercando di sistemare gli effetti dell’impeto con cui prima aveva domato i desideri del Re e poi riferito la profezia della Cometa Vermiglia. Fece un inchino appena accennato, evidentemente di cortesia, ad Arthur, il pendente che sfavillava nel tenue chiarore dei lucernari: «Con il vostro permesso, mio signore, mi ritirerei presso la mia tenda. È mio desiderio equipaggiarmi in modo conveniente per la spedizione».

Arthur le prese la mano e delicatamente vi posò un bacio: «Come credete, mia signora».

Quando la Sacerdotessa ebbe varcato il portone con un fruscio di vesti e un rumore attutito di calzari ricamati, Arthur si volte verso Gaius e ordinò, in tono leggermente scosso: «Gaius, per cortesia, raggiungi il bibliotecario reale. Voglio che consulti tutti i documenti degli archivi e che trovi il maggior numero di notizie, anche esigue, sulla Cometa e su questo fantomatico Emrys».

Il medico di corte s’inchinò con fare riverente e, non prima di aver scoccato a Merlin un’occhiata d'intesa, rispose con voce misurata: «Sarà fatto, Sire».

«Eccellente» Arthur gettò uno sguardo sulle carte geografiche e sul percorso ivi tracciato. «Leon, Percival, controllate per bene la nostra attrezzatura ancora una volta. E andate a riprendere Gwaine alla taverna: mi sembra indecente anche per lui ubriacarsi a quest’ora del mattino» I cavalieri avevano appena fatto in tempo a chinarsi e a avviarsi verso l’uscita che il Re aggiunse, l’ombra di un sorriso malizioso perfettamente visibile sulle sue labbra ben disegnate: «Ah, e Percival. Attento ai lucernari» Rise di gusto quando il gigantesco cavaliere grugnì in assenso; poi si rivolse al suo valletto: «Merlin, controlla il mio vestiario e fa in modo che la lama della mia spada sia perfettamente arrotata. Provvedi inoltre che non venga disturbato: vado a cercare la Regina».
 

*  *  *
 

Il cortile interno del palazzo, con i suoi cespugli frementi e il delicato profumo di fiori reso ancora più intenso dalle recenti piogge, era il luogo che Guinevere aveva più caro in tutto il palazzo reale. La Regina, che indossava un semplice abito color malva dal tessuto lucido e pesante – Arthur aveva sempre amato quel colore su di lei, diceva sempre che si sposava perfettamente con la sua carnagione olivastra e con il mogano intenso dei suoi capelli – era intenta al ricamo, seduta su una sedia imbottita di cuscini di piume. Il Re era stato molto sollecito, in quegli ultimi giorni, e aveva esaudito ogni sua richiesta: tuttavia Guinevere non riusciva a riacquistare quell’allegria venata di dolcezza e di pacatezza e quell’ottimismo che fin a poco tempo prima erano stati i suoi pregi, le sue peculiarità più apprezzate.

Le caratteristiche che la rendevano cara agli occhi di Arthur stavano svanendo. Sarebbe scomparso anche il suo amore?

Le sue piccole dita abili stavano ricamando, sulla superficie lucida di un lenzuolo, il drago fiero e rampante dei Pendragon. Era un lavoro semplice e relativamente rapido, per una ricamatrice esperta. Gwen aveva appreso da sua madre, figlia di sarti e tessitori, i trucchi per eseguire i ricami più belli di tutta Camelot: chiunque li contemplasse poteva giurare di riuscire a scorgere, tra i punti che componevano draghi, unicorni, fiori e soli, dei guizzi, che rendevano vive le figure ricamate di fili cangianti. Eppure sarebbe bastato un minimo errore per rovinare senza rimedio un ricamo che fino a pochi istanti prima era stato iridescente e perfetto. E Guinevere non poteva esimersi dal pensare che l’amore che la legava ad Arthur aveva tutte le caratteristiche di un ricamo che aveva avuto un potenziale di perfetta e completa felicità, mandato poi in frantumi dalle mani pesanti di un ricamatore alle prime armi. Ma chi era quell’essere maldestro? Il Fato? Arthur? Lei stessa?

Abbassò gli occhi sul suo lavoro. Il piccolo drago era sfolgorante d'oro, gli artigli aguzzi, la coda ritta con fare imperioso. Aveva iniziato quel ricamo quasi un anno prima, quando tutti i suoi sogni parevano essersi realizzati. Il suo caro Arthur era finalmente suo marito: nulla e nessuno li avrebbe potuti separare. O così almeno aveva creduto allora.

Improvvisamente fissò l'ago al tessuto, affinché non potesse sfuggire, e appoggiò il ricamo di malagrazia sul muricciolo accanto alla seggiola. Si alzò, inspirando profondamente il profumo dei fiori e delle erbe che la circondavano – menta, mughetto, salvia, alloro e edera – come se ciò potesse lenire il dolore e il tormento del suo cuore. Si avviò con passi lenti, pesanti, verso giardino, nel cui centro una fontana riccamente ornata a motivi di draghi e di gigli emetteva un mesto getto d'acqua. Il liquido grigiastro scorreva stancamente lungo le figure marmoree, senza guizzi di vivacità e freschezza. Guinevere distolse lo sguardo da quello spettacolo desolante; si strinse lo scialle di lino intorno alle spalle e si chinò con grazia – o almeno tutta quella di cui era capace, data la fiacchezza che ancora le gravava sulle membra – per raccogliere una foglia d'edera, di cui osservò le venature chiare alla tenue luce del sole, che ora brillava alto nel cielo.

Si chiese se la riunione del concilio fosse già conclusa. Arthur era stato molto vago a riguardo; accampando giustificazioni e scuse di diverso genere, aveva sviato l'attenzione della moglie. Ma a giudicare dal fermento che aveva animato il castello, la Regina aveva indovinato che preparativi per un qualche evento erano in corso: forse un'altra giostra o un altro banchetto in onore di quella Sacerdotessa che, a detta di tutti coloro che avevano assistito all'incantesimo, le aveva usato un grande atto di bontà riportandola dal Regno dell'Oltre. Guinevere strinse la foglia d'edera tra le dita in modo così convulso da ridurla in briciole di un verde carico e risentito.

A Guinevere non piaceva sentirsi in debito con una donna come quella. Nonostante non nutrisse sentimenti ingiustificatamente ostili verso la magia, Guinevere era consapevole che Blanche non era una creatura magica qualunque. In quanto Sacerdotessa, apparteneva a quell'Antica Religione e a quell'Antico Ordine che avevano condotto Morgana oltre le soglie della ragione, condannandola ad una vita di solitudine e livore. Senza contare che ricordava perfettamente l'effetto che una donna poteva suscitare in un uomo attraverso i propri stratagemmi di fattucchiera: così come la Lamia era riuscita a piegare al proprio oscuro fascino i migliori cavalieri di Camelot, quella Blanche era riuscita a mettere sotto scacco l'intera corte con le sue parole argute e diplomatiche e quella risata tra l'argenteo e l'arrochito. Gwaine ne era un esempio lampante: da sempre un uomo e un amante facile al corteggiamento e all'amore che s'infuocava ancor prima di consumarsi, dinanzi alla Sacerdotessa era divenuto docile come un agnellino. Nessuna delle cortigiane – che abbondavano sia nella corte che nella Città Bassa – era riuscita a conquistare la sua attenzione da allora: era come sotto l'influsso di un incanto indissolubile. Anche Percival, solitamente così compito e serio, mostrava segni perlomeno d'inquietudine quando la Sacerdotessa era nei pressi. Arthur stesso pareva pendere da quelle labbra rosee, come se un Re qual era dovesse avere il consenso d'una forestiera per prendere le sue decisioni! Guinevere era certa che, per una ragione a lei oscura, la Sacerdotessa stesse incantando gli uomini più valenti di Camelot.

Forse per prendere il mio posto? Per mettere un erede dal sangue magico sul trono di Camelot, per beffare l'opera folle di Uther? furono le domande che, silenziose, si modularono sulle sue labbra. La Regina fu pervasa da un panico pungente e improvviso. Osservò l'edera sbriciolata sul suo palmo: se soltanto fosse stato altrettanto semplice sradicare l'influsso che quella donna aveva su Arthur e sui cavalieri! Ma, al pari dell'edera, quel fascino pareva avere radici robuste, e estirparlo sarebbe stato un inutile gesto, condito inoltre da incresciosi tormenti. Pensò con sollievo che Merlin, come già accaduto con la Lamia, sembrava essere immune a quelle malie e, anzi, diffidente nei confronti della nuova venuta. Avrebbe potuto senz'altro chiedergli avviso...

«Guinevere...?»

La voce amabile e esitante di Arthur la raggiunse, facendola sobbalzare. La giovane Regina si affrettò ad avvicinarglicisi, la veste che a contatto dell'erba corta del chiostro produceva un fruscio dolce e modulato come quello della sua voce quando pronunciò, sporgendosi per baciargli la guancia ruvida di barba non fatta: «Marito».

Arthur le prese la mano, un gesto improvviso, seppur delicato. Guinevere sobbalzò a quel tocco così inaspettato, che le portava alla mente momenti vividi, in cui Arthur aveva sostituito la dolcezza con la medesima urgenza che aveva pervaso quel gesto... Scacciò quei pensieri stringendo a sua volta la grande mano di suo marito. Si lasciò guidare remissivamente alla seggiola, dove Arthur la fece sedere, per poi accomodarsi a sua volta sul pericolante muretto del chiostro.

«Come stai oggi, Guinevere?» le chiese lui con fare quasi casuale, cauto, come se temesse di far scoccare una scintilla che avrebbe potuto scatenare un pandemonio.

Guinevere s'infervorò e si strinse le mani in grembo: sembrava Gaius, con quell'accondiscendenza tipicamente maschile, quella solerzia troppo vergata di cortesia per essere ritenuta sincera!

«Va sempre meglio, Arthur» replicò suo malgrado con tiepida dolcezza. «Gaius mi ha prescritto un infuso di zenzero contro la stanchezza. Mi è stato di molto aiuto. Ti ringrazio...»

«Hai tutto ciò che ti occorre?» replicò Arthur con improvvisa e inspiegabile irritazione, quasi avesse preferito che lo accusasse di scioperataggine.

«Arthur» rispose Guinevere, sempre modulando la voce con dolcezza e pazienza, posando di nuovo la propria mano su quella del marito. «Sei stato davvero premuroso in questi giorni e io te ne sono infinitamente grata» Poi, improvvisamente, sentì se stessa pronunciare queste parole, in tono quasi invitante: «Soltanto tu mi manchi, marito mio. Vorrei che visitassi le mie stanze, stasera: dobbiamo passare del tempo insieme».

Quando l’aura di irrealtà che aveva pervaso queste parole svanì, Guinevere si rese conto di aver pronunciato le parole che Arthur aveva più temuto. Il sovrano si affrettò a scostare la propria mano da quella della giovane moglie e a portarsela sulle cosce muscolose.

«Nel tuo stato, Guinevere, credo sia meglio attendere, prima di compiere avventatezze» Il tono di Arthur era apparentemente piatto e ragionevole, tuttavia venato di un sentimento più profondo e personale: pietà. Così lo comprese Guinevere, non senza che le guance le s’imporporassero d’imbarazzo e incredulità: suo marito aveva compassione di lei!

«Non potremo mai avere un bambino, Arthur, se non tentiamo di…» cominciò, con evidente affanno, ma Arthur la interruppe con voce spenta e monocorde: «Non avremo mai un erede. Non lo concepirai né questa notte, né negli anni che verranno».

La mortificazione di Guinevere divenne vibrante, intensa, tanto da sfociare in un tono di voce più stridulo del solito, che spinse alcune colombelle, che finora, celate alla vista, avevano tubato dolcemente negli intarsi profondi della trabeazione, a volare via con uno sdegnoso frusciare d’ali: «Gaius non ci ha negato ogni speranza!»

«Ma la Sacerdotessa dell’Isola delle Mele lo ha fatto» ribatté Arthur in quel tono testardo e definitivo che adottava quando non intendeva più essere contraddetto. «Lei vede il futuro, Guinevere!» aggiunse in tono quasi lamentoso, a mo’ di giustificazione. «Mi dispiace».

«E ti fidi di una donna, una strega, che hai appena conosciuto?» gridò Guinevere, senza più frapporre, tra i suoi pensieri e le sue labbra, la barriera delle delicatezze e delle cortesie femminili che era solita impiegare. «E che altro ti ha rivelato? Di lasciarmi e di rimpiazzarmi per avere l’erede tanto desiderato?» Fece un sospiro esasperato, mentre lacrime salate le premevano contro le ciglia. «Arthur, quella donna è un’incantatrice, potrebbe persuaderti a credere a qualunque cosa attraverso la magia. Guarda come ha incantato i cavalieri! Addirittura Percival pende dalle sue labbra, come se fossero vecchi intimi, anziché perfetti estranei! Sii cauto».

Arthur scosse il capo, disorientato da quello sfogo inaspettato, poi replicò, con una freddezza che non gli era propria, ma che si manifestava quando riacquistava quell’orgoglio che tanto era stato tipico di Uther: «La Sacerdotessa non ha suggerito nulla del genere, Guinevere. Mi ha invece pregato, in virtù dell’amore che ci unisce, di sopportare la nostra sfortuna e di avere fede. Dove sono finite la tua fiducia e la tua avversione ai pregiudizi? È inaccettabile che la Regina di Camelot sia ostile al Popolo Magico, proprio quando con tutte le mie forze sto cercando di fare ammenda per le azioni di mio padre!»

La Regina rispose con pacata durezza: «Non esistono soltanto persone buone, né nel Popolo Magico, né in quello scevro di ogni magia! Stai facendo la cosa giusta, Arthur, cercando di rendere giustizia a coloro che sono stati iniquamente perseguitati da Uther. Ma nella Sacerdotessa mi è impossibile riporre fiducia senza riserve» Inspirò lentamente l’aria profumata del cortile: «Arthur, ti prego, fa controllare i cavalieri da Gaius, prima che cada anche tu sotto l’incanto di quella Sacerdotessa. Io so cosa si prova ad essere incantati, potrei…»

Seppe all’istante di aver toccato un nervo scoperto. Arthur si alzò di scatto, con un impeto talmente forte da quasi squarciare il mantello scarlatto, impigliatosi in uno spigolo del muretto: «E questo che ti spinge a formulare queste accuse? Ancora quella storia del fantomatico incanto che ti avrebbe spinto tra le braccia di Lancelot? Temi che voglia ignorare i tuoi timori sulla Sacerdotessa solo per farti un torto? Per finire incantato e tradirti a mia volta?» Si rabbuiò e la sua espressione fosca contrastò profondamente con l’oro dei suoi capelli, infiammato dal vivace sole del mattino: «Non riapriamo vecchie ferite inutilmente, Guinevere, soltanto per rimpiangere di averlo fatto» Tornò a sedersi sul muretto, aggiustando la spada che gli cingeva il fianco, gli anelli d’oro e rubini che scintillavano quieti e letali sulle sue dita.

Improvvisamente, Guinevere comprese. Il mantello scarlatto; la spada che aveva sfilato senza sforzo dalla roccia appesa alla cintura; gli anelli a forma di drago del Tesoro della Corona. Ora che osservava il marito, poté accorgersi senza difficoltà del collare d’oro massiccio che gli poggiava maestosamente sul petto ampio, sulle spalle larghe. Lo squisito motivo a draghi che si attorcigliavano era incandescente alla luce del sole; i rubini del pendente, grossi e squadrati, emettevano un sinistro bagliore sanguigno.

«Perché stai per convocare il Gran Concilio?» chiese Guinevere al marito in tono rotto, scandendo bene ogni parola, come se temesse che porre quel quesito con maggior speditezza l’avrebbe fatta scoppiare in singulti. Aveva riconosciuto quelle insegne, con le quali Arthur era solito adornarsi per mostrarsi ai Maestri dei Mestieri e ai membri della Guardia Reale in occasione di comunicazioni di vitale importanza per Camelot.

«Ero venuto proprio per dirtelo» replicò Arthur con evidente mestizia. «Domani, alle prime luci dell’alba, mi metterò in viaggio per raggiungere la Terra dei Laghi».

Guinevere balzò in piedi a sua volta e gli posò le mani avvolte in pugno sul petto: «Non voglio che tu te ne vada! Non puoi lasciarmi…»

Arthur si scostò da lei con gentilezza; le carezzò una guancia, una carezza che pareva quella di un pastore che voleva convincere, ingannandola, una capretta bizzosa a desistere dal suo belare disperato: «Sono un uomo d’onore, Guinevere. Ho promesso che avrei restituito la Coppa della Vita alla Signora dell’Isola delle Mele e che avrei così compiuto il sacrificio richiesto in cambio della tua guarigione. E così farò» Un’altra carezza per rabbonire la giovane tremante che gli stava dinanzi.

«È stata la Sacerdotessa a chiedertelo?» chiese improvvisamente la Regina in tono beffardo e disperato insieme.

«No. È stata la Coppa a esigerlo» la corresse Arthur, con molta più pazienza di quella che in realtà possedeva. «Non stare in ansia, mia Regina. La nostra separazione non si protrarrà per più di tre cicli di luna. Sarò accompagnato da una scorta di valenti cavalieri pronti come sempre a difendermi».

Guinevere non parve soddisfatta e insistette, stringendo le labbra, le dita tremanti, segnalando tutta la propria incertezza passando il peso da un piede all’altro: «E dalla Sacerdotessa, immagino».

Arthur scosse il capo, la stanchezza incisa sulla sua espressione desolata: «Ho promesso che l’avrei riaccompagnata a casa. È il dovere di ogni buon cavaliere rispettoso del codice» Posò un bacio sulla fronte di Guinevere, che si rilassò percettibilmente: «Devi rimetterti in forze, Guinevere. E quando sarò di ritorno, forse potremo avere il nostro bambino».

«Hai appena detto che è impossibile!» reagì la Regina in tono disperato, non scostandosi tuttavia dal corpo solido e rassicurante del marito, lacrime cristalline che gli imperlavano la giubba.

«La Sacerdotessa l’ha affermato, è così. Ma forse la Somma tra le Sacerdotesse potrebbe essere disposta ad aiutarci».

Sorridendo tra le lacrime, Guinevere annuì, sentendo un confortante calore svilupparsi all’altezza del cuore, mentre Arthur la stringeva forte e le colombe avevano ripreso a tubare nella quiete del mattino.


*  *  *
 

Quando Arthur giunse nelle sue stanze, si lasciò cadere, stremato, sulla sedia foderata di velluto cremisi che stava leggermente scostata dallo scrittoio, come se lo attendesse con ansia.

Si era rivelata una giornata intensa, frenetica. La spedizione verso l’Isola delle Mele aveva trovato una forte opposizione nei membri del Gran Concilio. I Maestri dei Mestieri non avevano mancato di sottolineare quanto fosse sconsiderato, da parte sua, lasciare Camelot senza un Pendragon che vivesse nel palazzo, a simboleggiare che, nonostante l’assenza del corrente monarca, la stirpe era ancora presente sul territorio, a monito per tutti coloro che, con malizia, si fossero illusi del contrario. Arthur aveva obiettato che Guinevere, in quanto sua regale consorte, poteva agevolmente ricoprire quel ruolo di rappresentanza; con un moto di delusione e stizza però dovette arrendersi quando i Maestri dei Mestieri gli risposero che non avrebbero accettato un compromesso del genere.

Ora, nel silenzio tombale delle sue stanze, Arthur poteva sentire rombare il proprio sangue dalla testa alle gambe, un suono martellante. Non hanno ancora accettato Guinevere come legittima consorte di un Pendragon! pensò il giovane sovrano. Per quanto potesse esserne amareggiato, doveva ammettere di condividere e comprendere quella valutazione dei fatti: non avendo partorito l’erede che le si esigeva, Guinevere non poteva sperare nell’appoggio dei Maestri, che perlopiù erano una schiatta affaccendata nei commerci, munita perciò di una concretezza che non si sarebbe fatta muovere a compassione dalla disperata situazione intima dei sovrani. I Maestri avrebbero dato il loro appoggio soltanto a una figura maschile, un condottiero che s’intendesse di dazi, commerci e armi, e che potesse impegnarsi anima e corpo nella difesa della comunità in assenza del sovrano. Considerati inoltre i tumulti provocati negli ultimi tempi dalla presenza dell’accampamento Druido, Arthur accettò la proposta dei Maestri di nominare un luogotenente. Sir Leon, in quanto membro più anziano della Guardia, fu scelto senza esitazione per ricoprire quel ruolo. Il cavaliere riccioluto aveva a stento trattenuto lacrime di orgoglio e felicità quando il suo Sire l’aveva investito della sua missione, appuntandogli una spilla d'oro e rubini sul petto, poiché, implicitamente, Arthur gli stava affidando il compito molto più delicato e personale di proteggere la Regina, di vegliare sulle sorti della famiglia reale in sua assenza. E di ciò, Leon era visibilmente onorato. La gestione amministrativa e politica del regno invece, come sempre nei periodi di assenza del sovrano, sarebbe divenuta un’incombenza di Gaius e dell’anziano bibliotecario e genealogista Geoffrey di Monmouth. La Guida Iseldir invece aveva acconsentito, su richiesta del sovrano, di badare affinché i membri della Famiglia Druida si comportassero in maniera consona: era una mera formalità, naturalmente, perché i Druidi erano un popolo pacifico, estraneo a ogni barbarie; necessaria tuttavia perché il diffidente popolo di Camelot accettasse la permanenza del Popolo Magico entro i suoi confini. Arthur non ebbe in nessun caso bisogno di consigli da parte di terzi né di attimi per riflettere sulle sue scelte; e se si fosse fermato a riflettere, forse, avrebbe compreso che qualcosa in lui stava lentamente mutando.

Il sovrano aveva inoltre deciso, senza ripensamenti, di mettersi in viaggio nel modo più discreto possibile: il drappello sarebbe stato poco numeroso, per attirare meno l’attenzione, e i vessilli di Camelot, così come i mantelli rosso e oro dell’uniforme della Guardia Reale, sarebbero stati rimpiazzati da un equipaggiamento più sobrio e modesto, decisamente meno appariscente, atto a celare la sua identità di monarca a eventuali pellegrini. I rimanenti cavalieri della Tavola Rotonda e Merlin, che ricopriva al solito l’ingrato ruolo polivalente di servitore, cuciniere e medico, si sarebbero uniti alla spedizione. Tali deliberazioni avevano incontrato lo sdegno dei membri anziani della Guardia Reale: tuttavia, dopo lunghe discussioni, Arthur era riuscito a spuntarla.

Mentre si sfilava con un gesto convulso di piedi gli stivali di cuoio spesso, il giovane sovrano si ritrovò a pensare, con nostalgia, che da principe ereditario aveva avuto senza dubbio un potere decisionale maggiore rispetto all’epoca presente, in cui la pesante corona di perle e gemme traslucide gravava sul suo capo. Ora doveva giustificare ad ogni membro della corte e del regno le proprie decisioni: alla Guardia Reale, a Gaius, ai Maestri dei Mestieri, a Geoffrey di Monmouth, ai cittadini, ai cavalieri, a Guinevere…

D'improvviso un bisogno indefinito, serpeggiante, lo percorse. Voleva vedere Merlin. Probabilmente l’unica persona sulla faccia del mondo conosciuto alla quale non avrebbe dovuto giustificare le proprie decisioni, perché ne conosceva i motivi reconditi ancora prima che il sovrano aprisse la bocca.

Arthur sorrise fra sé. Inspirò profondamente l’aria pervasa da un tenue profumo di aghi di pino e poi urlò a pieni polmoni: «Merlin!»

Qualche istante dopo, con un terribile clangore d’accompagnamento, Merlin comparve ansimante sulla soglia delle stanze regie. Il fazzoletto rosso si era sfilato dalla casacca e cadeva di sghimbescio sul petto sottile che si abbassava e alzava in un movimento frenetico, irregolare. Il valletto stringeva una spazzola in una mano e un secchio colmo di sabbia nell’altra.

«Dove diavolo eri andato a finire?» chiese Arthur con studiata noncuranza, la tipica e ostentata aria villana impressa nel suo viso dai lineamenti scolpiti.

Merlin annaspò e rispose: «La vostra cotta di maglia e la vostra armatura vanno lucidate, Sire».

Ad Arthur non poté sfuggire l’enfasi posta da Merlin su quella titolatura, Sire. Il tono del valletto era privo della solita gaiezza, l’esuberanza delle sue fattezze delicate e fanciullesche sostituita da una maschera di stanchezza. Arthur si sentì lievemente in colpa, come sempre gli accadeva, nonostante la sua farsa di Re incontentabile gli impedisse di dar voce alla propria apprensione. Improvvisamente si sovvenne di quanto tesi erano stati i rapporti tra lui e Merlin in quegli ultimi mesi. Capì che Merlin, di solito così disposto a dimenticare ogni regio oltraggio alla sua persona, stavolta doveva averne avuto abbastanza. E per questo trascorreva la maggior parte del suo tempo con Percival, sussurrò una voce insolente nella mente del biondo sovrano. Perché la questione gli desse così tanto fastidio, Arthur proprio non avrebbe saputo spiegarselo in maniera razionale. Il suo stomaco, che di solito mostrava eccellente resistenza alle sue ansie e emozioni, si contorse sgradevolmente al pensiero di Merlin e Percival che... che facevano cosa? Si bevevano una pinta al Rising Sun? Che scempiaggine!

«E che mi dici dei miei stivali, eh?»

Lo stomaco di Arthur si accartocciò come le pergamene usate e grattate all’usura di Geoffrey di Monmouth. Come aveva potuto uscirsene con un’affermazione del genere, quando era ben altro che voleva da Merlin? Voleva il suo appoggio, la sua approvazione, il suo perdono!

La risposta a tono non si fece attendere: «Se non foste un asino quale ahimè siete, sapreste di certo che gli stivali non si lucidano con la sabbia, ma con la cera».

Arthur afferrò il primo oggetto che gli capitò a tiro – un pennino spuntato – e lo lanciò contro il suo servitore: il pennino andò a sbattere contro il secchio che Merlin, con prontezza di riflessi, si era portato dinanzi al corpo per evitare di essere colpito in pieno petto. Fiero della propria agilità, Merlin fece esattamente ciò che Arthur aveva sperato che facesse: rise. Per il sovrano quel suono argenteo e sincero fu come balsamo per tutte le ferite – al cuore e all’orgoglio – che aveva ricevuto impietosamente quel giorno.

«Merlin» ordinò poi, in tono di melodrammatica autorità, dando le spalle al valletto, «Aiutami a togliere le onorificenze. E non essere goffo come al tuo solito, sono preziose» aggiunse, quando sentì le mani di Merlin tremare leggermente vicino alle sue spalle, rendendo l’aria crepitante.

Arthur si ritrovò a trattenere scioccamente il fiato quando finalmente le mani di Merlin, delicate, si posarono su di lui, facendo scattare le fibbie dorate sulle sue spalle e rimuovendo la sottile catena di maglia. Merlin lo aggirò con passo felpato per sfilargli più agevolmente il mantello scarlatto, che mandava lampi infuocati alla luce dei candelabri, e Arthur si rese conto – dandosi nel contempo dello stupido, beninteso – di quanto sinuoso fosse il fisico del valletto e felpato il suo passo quando non si muoveva con la grazia di un cavallo da tiro nella camera del Tesoro Reale. La familiare sensazione di disagio tornò ad attanagliare lo stomaco del sovrano, strappandogli un mormorio di insofferenza e costringendolo ad abbassare il capo sul petto.

«Dovete stare ritto, Sire, o non riuscirò mai a spogliarvi» La voce modulata e gentile di Merlin lo rampognò bonariamente.

Arthur sollevò lo sguardo, incontrando quello azzurro e scintillante come la superficie del Lago del valletto, che bofonchiò soddisfatto, mentre rimuoveva le spille che tenevano il collare fermo sulle spalle. Il sovrano pensò che, se Merlin avesse saputo il vero motivo per il quale con urgenza aveva dovuto sollevare lo sguardo da terra, lo avrebbe ritenuto un pazzo, incline perlopiù a fantasie innominabili.

Le gambe di Merlin erano molto diverse da quelle di Guinevere. L’osservazione era insolita, tuttavia gli si era parata dinanzi con chiarezza allarmante. Le gambe del suo valletto erano sottili, dalle caviglie alle cosce, e piene di mistero, sempre celate dai calzoni di tessuto grezzo. Ciò che lo colpiva di più, tuttavia, erano l’eleganza e la tranquillità con cui Merlin poggiava su quelle gambe: i suoi movimenti erano privi di fretta, nonostante il suo fisico minuto gli desse la possibilità, all’occorrenza, di scattare con impressionante rapidità. I piedi erano ben piantati a terra nei calzari di cuoio scuro, e il valletto non soleva mai, nemmeno nei momenti di maggior imbarazzo o pericolo, passare il proprio peso da una gamba all’altra, come invece soleva fare Guinevere durante le loro liti, ormai frequenti e spesso futili. Sì, le gambe di Guinevere erano prive di mistero e di grazia.

Merlin è straordinariamente stabile, rifletté Arthur, osservando i capelli scuri del servo, lucidi dal riverbero della luce delle candele, che era ora chino sul suo petto, mentre si apprestava a sganciare, con meticolosità, gli anelli del collare. Merlin è fedele, aggiunse il sovrano fra sé, e si irrigidì pensando all’impudenza con la quale Guinevere quella mattina aveva fatto riferimento a Lancelot.

«Qualcosa non va, Sire?» chiese subito Merlin, allarmato dal contrarsi dei muscoli del petto che aveva gonfiato per un istante il tessuto vellutato della casacca di Arthur.

«Va tutto bene, Merlin, continua e basta» replicò il sovrano in tono secco. Rimase oltremodo sorpreso quando sentì che le dita di Merlin, anziché occuparsi di sganciare definitivamente il collare dal suo petto come ordinato, si erano fermate sulle gemme e i motivi aurei a dragoni che lo componevano, sfiorandoli quasi con venerazione. Con affetto, persino.

Quando parlò, la voce di Merlin aveva assunto quell’intensità incredibile cui Arthur poche volte aveva avuto il privilegio di assistere: le fattezze infantili del volto che ora si era alzato verso di lui erano andate perdute; gli occhi azzurri mandavano saette: «Cosa vi turba, Arthur?»

La mano bianca di Merlin era venuta a appoggiarsi sul petto del sovrano, come se volesse infondergli, attraverso quel semplice gesto, la calma serafica di chi lo compiva. Una voce parve risuonare nella mente di Arthur, femminea e invitante: Abbiate fede, Arthur Pendragon. Il sovrano fissò le labbra di Merlin, aspettandosi di veder formarvisi le parole che aveva udito. Ma le vide soltanto per quello che erano: labbra, sottili e rosee, appena dischiuse, umide.

Decise di non rispondere alla domanda che Merlin gli aveva posto, ma di continuare a trarre beneficio di quella confortante sensazione che tutto, nella vista del suo stabile servitore, gli trasmetteva. Appoggiò la fronte contro quella di Merlin, incerto; quando percepì la mano del servitore posarsi con fermezza alla sua nuca leggermente china, le sue dita sottili affondare nei capelli, come a volerlo sostenere e nel contempo rassicurare del perdono per tutti i torti che gli aveva inflitto, Arthur si sentì libero infine di far naufragare il proprio viso bagnato di lacrime e la propria disperazione nel collo di Merlin, che, in un silenzio interrotto solo dal crepitare delle candele, lo strinse forte.


 

Ed eccoci come di consueto alle prolisse precisazioni e note a fine capitolo (altrettanto prolisso e infinito, in parte per rifarmi del ritardo immondo).

Come anticipato, il capitolo è dedicato al triangolo Guinevere-Merlin-Arthur. In realtà la mia mente malata vuole farne un quadrato, ma non temete, attenderò il vostro nullaosta (ho appena finito di scrivere un lavoro su Eleonora d'Aquitania e il presunto adulterio da lei perpetrato con Raimondo di Poitiers ai tempi della Seconda Crociata, di cui ho studiato le implicazioni politiche per l'autorità regia di re Luigi VII soprattutto a seguito del matrimonio con Enrico II d’Inghilterra, e diciamo che di materiale per un quadrato ne ho a bizzeffe). In ogni caso, questo capitolo è dedicato a voi, fan del Merthur (e perché no, anche dell'Arwen, visto che sto cercando di tenere a guinzaglio la mia componente sadica e di rendere giustizia alla povera Gwennie). Ho voluto però dedicare uno spezzone più o meno intenso (e spero abbastanza divertente) anche al mio amato Percival. Attendo tuttavia con ansia la vostra opinione sul rapporto tra i nostri due beniamini: per me è stata dura – insomma, come si fa a rendere conto dell’amore tra i due quando quell’asino di Arthur ha avuto la geniale idea di sposarsi con Guinevere, infrangendo, a suo dire, ogni tradizione in nome del suo supposto amore eterno? – e non sono del tutto soddisfatta del risultato. Spero che Crownless abbia colto e apprezzzato l’accenno alla parte del corpo di Merlin che entrambe preferiamo in assoluto (strizza l’occhio con fare d’intesa)!

So che sono estenuante, ma di nuovo devo ripeterlo: il mio più grande timore è che nella serie la riunione tra popolo fatato e popolo scevro di magia sia rapida, indolore, troppo fiabesca per essere plausibile. Per questa ragione, amo molto riflettere sulle implicazioni politiche e culturali della questione, sui risvolti, anche truci. Da questa passione – spero condivisa da alcuni – nasce sia il rifiuto di Arthur di credere nella sua alleanza con Emrys (di cui ignora di essere già parte attiva), sia la sua riflessione sul consenso politico del regno.

Solitamente non chiedo mai “aiuti del pubblico”, perché penso che sia bello sorprendere i lettori, invece che farli scannare tra di loro per suggerimenti. Tuttavia vi chiamo in causa, o prodi, per la questione sopraccennata del quadrilatero. Farebbe troppo soap-opera? Mi trovo anche costretta a scusarmi per gli epiteti (specie per “Re Uther il Purgatore”, altisonanti e boriosi, ma io… li adoro troppo!

La citazione profetica proferita da Blanche è tradotta, in modo piuttosto grezzo per rimanere aderente, dalla versione originale delle profezie di Merlino contenute dal libro settimo dell’Historia regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth, già presenti nelle sue Prophetiae Merlini: In ictu radii exsurgent aequora et pulvis veterum renovabitur. In inglese viene tradotto così solitamente: The seas shall rise up in the twinkling of an eye, and the dust of the ancients shall be restored. Dato che il mio inglese è dichiaratamente osceno e non sono proprio convinta della fedeltà (o almeno, a me suona poco: pulvis soprattutto a me ricorda più le polveri o le ceneri che le nebbie) vi prego umilmente di accettare la mia sghemba traduzione, perché anche se scorretta, sarà funzionale allo svolgimento della storia. Citerò spesso la profezia di Geoffrey, perché adoro davvero il suo linguaggio mistico e incantato, che può essere interpretato abbastanza liberamente. E la prossima volta sarà Merlin stesso a pronunciarne una!

La storia della cometa rossa a tre punte è frutto di una deformazione professionale. Stavo preparando un lavoro sull’arazzo di Bayeux, in cui compare la cometa di Halley, interpretata come segno di buona sorte per la conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore. L’ho inserita perché mi sembrava calzante: anche Uther è detto aver adottato il nome di “Pendragon” dopo aver scorto una cometa. Insomma, cometa di qui, cometa di là, basta che ce ne sia una! L’idea del chiostro, invece, non so da dove m'è venuta, ma sicuramente la fontana ha un'eco boccacciano (dall'Amorosa visione). Niente citazioni colte, soltanto... nell'Amorosa visione la fontana ha un ruolo simbolico, il che mi è sempre piaciuto, e l'ho perciò adottato (chiedo venia, Giovanni).

So che Guinevere pare un poco, come dire... castigata e puritana in questo capitolo. Ma nella mia mente questa è una conseguenza logica: insomma, non riuscendo a partorire un erede al trono, mi sono immaginata che potesse diventare più rigida, in un certo senso insicura, paranoica e invidiosa. Spero non sia stato troppo. La discussione tra lei e Arthur è piuttosto estrema: a mia difesa devo ammettere che ho preferito mantenere Arthur più o meno IC (ossia insicuro, testardo, passionale, cavaliere sino alla fine) che Guinevere. Non che io la veda come una “piagnona”, però ho pensato che visto il turbamento emotivo e fisico che le ho fatto patire potesse essere plausibile che perdesse un po’ le staffe. Volevo darle insomma quel po’ di quel carattere che, secondo me, la serie le ha negato, rendendola svenevole, docile come un agnellino e tutta un “Arthur! Io ti amo! Qualunque cosa faccia, ti amo!”. So inoltre che è stato meschino ritirare fuori la storia del povero Lance buonanima, ma dato che nella serie l’incanto del bracciale non è mai stato portato alla luce... Tutti mezzi più o meno leciti per cominciare a approfondire l’attrito a favore del Merthur! In ogni caso, chiedo nuovamente venia agli eventuali estimatori di Gwen.

Non do quasi mai anticipazioni sui capitoli a venire, dato che cambio linee guida continuamente, ma di sicuro ci sarà un innalzamento del rating.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo. So che il capitolo è straordinariamente lungo e descrittivo, ma se siete arrivati fin qui, che dire… vi adoro più degli epiteti altisonanti!
 

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti. Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

 

A presto!

Quainquie

  
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