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Autore: fiammah_grace    01/07/2012    1 recensioni
Sebbene tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante circolava ancora negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
Henry era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige erano pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé, in realtà.
Eppure qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai inglobato completamente in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si lasciare l’appartamento 302...
...o peggio...
....che oramai non potesse essere più capace di farlo.
Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continuava ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di esso...
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Townshend, Un po' tutti, Walter Sullivan
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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CAPITOLO 02
 
 
 
 
“…E' una storia tremenda. Ancora non ce la faccio a disfarmene.”
(Pagina di diario in camera da letto, nell'appartamento 105)
 
 
Un tempo umido e piovigginoso caratterizzava il cielo di South Ashfield, quella mattina.
Non appena cominciarono a minacciare i primi accenni di pioggia, Henry ne approfittò per chiudere la sua attività e correre in appartamento. Infilò il cappotto grigio, sgualcito, e montò lo zaino non sistemando quasi per nulla le pieghe dei suoi vestiti. Uscì frettolosamente, chiudendo la porta alle sue spalle e inoltrandosi per strade urbane, trafficate in quell’ora di punta.
Si mosse velocemente per le strette vie del suo distretto, percorrendo quelle strade che frequentava così quotidianamente da conoscerle a memoria. Henry osservò le nuvole e i primi schizzi d’acqua cominciarono a bagnare il suo viso, picchiettando fastidiosamente, facendo soltanto presagire il temporale che presto avrebbe preso in pieno.
Calcolò mentalmente che dal centro commerciale ci avrebbe impiegato poco ad arrivare al sottopassaggio metropolitano; da lì di corsa sarebbe arrivato alla linea ferroviaria.
I vicoli stretti e bui, percorribili durante il giorno, gli permisero di prendere delle efficaci scorciatoie, ma la pioggia aveva allagato le crepe trasformandole in pozze grondanti d’acqua. Durante la sua corsa, un paio le prese in pieno, ritrovandosi così i jeans zuppi fino alle ginocchia. La pioggia, oramai copiosa, aveva pensato invece a bagnare il resto del corpo.  Era veramente una pessima giornata.
 
In una manciata di minuti, anche se completamente fradicio, giunse alla metropolitana. Magra consolazione, ma almeno ora era al riparo. Una volta dentro, comunque, comprò dei gettoni e oltrepassò il passaggio per giungere al binario. Diede un veloce sguardo al tabellone per controllare eventuali ritardi o avvisi, ma nulla di nuovo: solito orario, solito binario.
Mentre si avviava, camminando di fianco a coloro che come lui si diramavano verso le varie linee metropolitane, qualcosa sembrò spezzare quella noiosa e prevedibile routine. Qualcosa che fermò il suo tempo e tutto ciò che aveva cercato di dimenticare.
 
Tutto avvenne quando solcando le sbarre metropolitane incrociò gli occhi con quel che rimaneva della scena del crimine di Cynthia Velasquez. Essa era posta proprio li, oltre gli sbarramenti per raggiungere i binari.
Sbandò quasi, aspettandosi di trovare anche gli schizzi di sangue rappreso, accorgendosi solo successivamente che erano frutto dei suoi ricordi legati alla realtà parallela. Tuttavia i numeri che segnavano le posizioni dei vari elementi dell’omicidio erano ancora presenti e un lungo tracciato segnalava ai civili di non oltrepassare per non manomettere eventuali prove.
 
Qualcuno ha scoperto chi c’era dietro il caso del Sullivan copycat?”
 
“Stanno indagando ancora…”
 
Henry sbirciò con la coda dell’occhio un gruppo di studentesse che presero a parlare fra loro dell’omicidio. Era accaduto da meno di un mese e, in una piccola città come quella, la morte prematura e violenta di una giovane donna uccisa nella metropolitana, aveva fatto parecchio rumore.
Peccato che non si trattasse affatto di un caso copycat, ma che le cause della morte di Cynthia fossero di tutt’altra natura.
Era ancora strano per Henry credere quanto egli, a insaputa di tutti, fosse legato a quell’orrenda circostanza e quante verità, nel corso del tempo, sarebbero dovute morire con lui.
In televisione erano intervenuti parenti, amici, semplici conoscenti, questori e anche la polizia locale… appellandosi a chiunque avesse visto qualcosa. Ma quell’omicidio sarebbe stato destinato all’archiviazione come “caso non risolto” con ogni probabilità. Era una consapevolezza dolorosa da portare con sé e che lo aveva cambiato profondamente.
 
Da uomo con una vita ordinaria, quasi priva di finalità, si ritrovava adesso ad essere l’unico sopravvissuto, assieme ad Eileen, di una condizione surreale che stentava ancora a credere che fosse accaduta.
In aggiunta, ciò era avvenuto nelle strade che lui percorreva tutti i giorni.
Quella stessa rampa di scale della metro, nella realtà parallela, era stato un teatro regnato da mostri amorfi e figure incorporee, rappresentanti vittime che avevano solo preceduto la popolare Cynthia di cui ora parlavano tutti.  
 
Incrociò per sbaglio lo sguardo con una di quelle studentesse, curioso di sapere la gente comune come avesse reagito alla luce di quel caso assurdamente macabro, ma pulito e privo di alcuna prova sulla scena del reato.
Abbassò immediatamente gli occhi, rendendosi conto di essere fin troppo equivoco. Forse perché effettivamente era così, visto che egli in verità non solo sapeva, ma aveva proprio assistito in prima linea a quell’efferato omicidio e sostenuto fisicamente quella donna in punto di morte.
 
Beh, c’era da dire che “fisicamente” forse non era il termine più appropriato per definire quel posto e quella situazione. Si trattava pur sempre “dall’altra parte”.
 
Le sue mani tuttavia ancora tremavano nel ricordare quel corpo gelido abbandonato al suo destino; quel sangue denso che impregnava la sala di comando della metropolitana di un tremendo odore vivo e organico.  
Quell’orribile sogno infranto davanti ai suoi occhi, in cui aveva visto una persona morire, la quale aveva inesorabilmente portato via con sé anche una parte di lui.
Cynthia…non l’avrebbe mai dimenticata.
Erano ricordi che non potevano essere cancellati.
 
Avanzò per la rampa di scale, procedendo dritto a passo felpato, poco curandosi della gente che lo circondava. Sopravvivere non era un peso facile da digerire per Henry. Voltandosi, avvertiva nitidi quei segnali di disturbo che la sua mente proiettava davanti ai suoi occhi.
Essa rievocava di continuo il passato, tornando facilmente al tempo in cui aveva viaggiato in quella stessa metropolitana, ma macchiata di sangue e dimenticata, abitata soltanto da ricordi evanescenti e dolorosi. Ricordi capaci di uccidere chi solcava le sue porte, sebbene fosse irrazionale definire reale qualcosa che accadeva in…un sogno?
Eppure era proprio la ratio che gli ricordava, paradossalmente, che ciò aveva vissuto era stato vero…
In verità, la ragione avrebbe dovuto dire il contrario: ovvero che tutto fosse fittizio, e che lui fosse solo un pazzo, ma non era così.
Egli, aveva per davvero percorso quelle linee ferroviarie inseguito da fantasmi raccapriccianti e cani amorfi. Cynthia era per davvero morta lì dentro.
 
Un fischio avvisò l’arrivo del treno.
Entrò e prese posto alla fine di una delle carrozze. Vide un vagabondo puzzolente intento a schiacciare un pisolino dopo una sbronza e pensò bene di sedersi accanto a lui. Lì nessuno avrebbe cercato di arrecargli noie o occhiate di curiosità. Egli odiava attirare l’attenzione e in quel periodo ne aveva attirate fin troppe di occhiate indiscrete.
Molta gente del quartiere ora lo conosceva, persone che lui non aveva mai visto prima di quel momento. Come dar loro torto, infondo. Dei quattro omicidi avvenuti con lo stesso copycat, uno era avvenuto proprio nella sua palazzina.
Se contava anche Eileen, la sua attuale ragazza, erano ben due i delitti che erano stati “quasi” commessi a South Ashfield Heights.
Persino la polizia gli aveva dato non poche noie, riempiendolo di tediose domande alle quali non avrebbe mai potuto rispondere senza finire in un ospedale psichiatrico sotto terapia intensiva.
Eppure, pur di far quadrare i conti, i suoi stessi vicini di casa avevano cercato di far luce sul caso scoprendo qualsiasi carta dal tavolo, persino che Henry avesse, secondo loro, chiuso l’appartamento 302 per una settimana intera senza dar segni di vita.
Per un uomo come Henry, solitario, cinico e apatico…ciò bastava per essere classificato come pazzo o maniaco depressivo.
Fortuna che esistesse il Miranda Warning: “il diritto di rimanere in silenzio”.
Nessuno poteva fare molto altro contro di lui, al momento. Qualsiasi prova era segregata nel mondo parallelo, dove da tempo aveva trasferito ogni cosa che riguardasse i suoi viaggi e i suoi legami con gli omicidi del Sullivan copycat. Armi, documenti…
E nel caso, sarebbe stato ironico per lui essere accusato di quegli omicidi visto che era stato proprio Henry ad aver impedito a Sullivan di agire tramite l’incubo.
 
Rivolse i suoi pallidi occhi chiari verso l’uomo puzzolente e costatò che egli stesse oramai fra le braccia di morfeo. Una vera fortuna, visto che ne approfittò per sbottonare una manica della camicia e controllare se avesse un taglio all’altezza del polso.
 
“…”
 
 
[Terzo piano, ala ovest, nel corridoio vicino l’appartamento 302, a South Ashfield Heights.]


Henry era appena tornato dal lavoro. Aveva ancora sulla spalla il borsone, con dentro tutta l’attrezzatura da fotografo. Zuppo com’era, desiderava soltanto cambiarsi d’abito e rimanere nel suo appartamento come un animale solitario.
Era fatto così. Usava il suo appartamento come una vera e propria tana dove rimanere in disparte e in cattività dal resto del mondo.
Fu mentre fece per girare la chiave che sentì alle sue spalle la voce del signor Sunderland, il custode della palazzina di South Ashfield.
 
“Già a casa, Henry?”
 
“Signor Sunderland…ho approfittato della pioggia per tornare prima.” disse sbrigativo.

Frank Sunderland era un uomo sulla settantina, eppure, nonostante la voce bassa e i capelli brizzolati, aveva un aspetto autorevole e un volto fiero.
Henry lo guardò timidamente e accennò un saluto con il capo. Tra tutti gli inquilini che abitavano nella palazzina, il custode Sunderland era l’unico con il quale aveva stretto un rapporto più confidenziale.
Del resto, era sotto la luce del sole che Henry fosse un giovane introverso e solitario. Paradossalmente alla sua età, gli era più facile approcciarsi a persone più mature che ai propri coetanei.
 
“Direi che anche la pioggia ne ha approfittato, prendendoti in pieno.” scherzò su Sunderland, poi aggiunse. “Ad ogni modo…ti ho portato il quadro di cui ti parlavo.”
 
Henry così noto che Frank gli stava allungando un quadretto. Il suo sguardo si fece curioso, persino affascinato, com’è solito di chi è appassionato di arte e fotografia come lui. Osservò quella rappresentazione ammirandone le cromature, l’intenso gioco di chiari e scuri, e lo stile antico che faceva intuire quanto fosse vecchia e preziosa. Guardò con discrezione il custode del palazzo e fece per prenderlo.
 
“Ne è sicuro..? E’ un pezzo unico, signor Sunderland…”
 
“Te lo regalo volentieri Henry. So che nessuno più di te apprezzerebbe un oggetto simile.”
 
“…Grazie.” disse.
 
“E’ un originale, sai? Una rappresentazione storica della vecchia palude di Silent Hill.” aggiunse il custode inorgoglito.
 
Elogiò il suo reperto al giovane, ma era ben consapevole che lo stesse affidando a mani sicure. Ed era vero. Nessuno più di Henry poteva sapere che oggetti simili, nella casa sbagliata, avevano un unico destino infausto: finire dentro la pattumiera.
Invece Henry amava dar valore alla famosa robaccia vecchia ed era entusiasta di poter avere tutta per sé quella foto.
 
“E’ raro oggi giorno reperire una fotografia della vecchia palude prima delle bonifica avvenuta a ridosso degli anni settanta. Nessuno osava avvicinarsi a Silent Hill a quel tempo e ci sono poche rappresentazioni e testimonianze di quel periodo...”
 
Nel giro di una manciata di minuti, Henry cominciò a fare accenno alle sue conoscenze culturali e storiche del periodo, dando così completamente soddisfazione al vecchio, che si congedò dopo poco compiaciuto. Dal suo canto, Henry non aveva molto modo di approcciarsi alle persone. Quando si era fermato a parlare con l’anziano signore, era stato per lui un piacevole gesto di cortesia dove si era ritrovato a sostituire un po’ quelle che dovevano essere le veci di un figlio. Era in una di quelle chiacchierate che Frank gli aveva promesso quella vecchia fotografia.
L’uomo aveva avuto una vita difficile e, a quanto ne sapeva, aveva anche vissuto l’irrazionale scomparsa di un figlio. Un figlio che, in qualche modo, Henry sentiva assurdamente di sostituire.
Non gli ci era voluto molto a leggere in quegli occhi languidi, eppure forti, un che di nostalgico, e dopotutto al ragazzo dai capelli castani stava bene. Anche lui non aveva una famiglia, del resto.
Nonostante l’atteggiamento paterno di Frank per tutti gli inquilini, Henry sentiva che colui che più si avvicinava al ricordo di suo figlio James era proprio lui. Non che l’avesse conosciuto, ma facendo un paio di conti, dedusse che dovevano avere all’incirca pochi anni di differenza.
Ad ogni modo, Henry non aveva parenti stretti. Non aveva qualcuno che si preoccupasse per lui, o che gli regalasse quadri e lo intrattenesse con discorsi quotidiani e ricordi evanescenti.
Quindi accettava di buon grado quelle attenzioni per gli altri noiose e che in qualche modo gli facevano ancora ricordare, seppur in maniera limitata, il concetto della famiglia.

 Completamente esausto, entrò nel suo appartamento e gettò immediatamente il borsone a terra, accasciandosi poi sul divano senza troppo contegno.
Era sempre più stanco, ma da quanto tempo non dormiva?
Non poteva continuare così, presto o tardi avrebbe dovuto trovare una soluzione. Non solo alla sua evidente insonnia, ma anche a quell’incubo che lo stava ancora, ineluttabilmente, perseguitando. Perché la stanza, l’intero appartamento 302 color ruggine era ancora lì, davanti ai suoi occhi.
Perché?
Si chiedeva ossessivamente quella domanda da troppo tempo.
 
I muri imbrattati, le finestre arrugginite, l’aria malsana e pesante…

Perché l’appartamento era ancora in quello stato terribile? Perché entrando in casa vedeva ancora quel mondo?
Questo sebbene non vi fosse più nulla. Non esisteva più il carnefice. Non esisteva più la possibilità di attuare il rituale. Non esisteva nulla di nulla.
 
Henry guardò di nuovo la ferita che aveva sul polso, la stessa che aveva scrutato sulla metropolitana qualche istante prima, quasi fosse il memento della sua sanità mentale.
 
Strinse gli occhi. Quel taglio era un elemento fondamentale per le sue indagini attuali e una, tra le tante fonti, che gli impediva di prender sonno ultimamente. Questo perché se l’era procurato attraversando, qualche giorno prima, il varco presente nel suo appartamento, ancora funzionante nel magazzino del suo appartamento.
Se fosse stata solo suggestione, non si sarebbe ritrovato quella ferita, provocatosela teoricamente in un sogno. Ed invece era lì, sul suo polso,  a simboleggiare che effettivamente aveva viaggiato ancora una volta nella realtà parallela.
 
“Da quando Walter Sullivan è morto…il varco è rimasto in qualche modo connesso con il mio appartamento.”
 
Si ritrovò a riflettere ad alta voce, mentre stringeva la mano sul polso ferito, che bruciava quasi come volendo rimarcare dolorosamente quella tangibile realtà surreale.  Tuttavia…
Tuttavia Henry aveva ucciso Sullivan. Sconfitto l’architetto, il suo intero mondo avrebbe dovuto collassare con lui.
 
Eppure era chiaro quel semplice e unico dato tangibile: quel mondo, Sullivan o no, esisteva ancora.
 
La sua mente, da allora, navigava nell’oblio e nella confusione totale. Ogni volta che tornava nel suo appartamento si chiedeva sempre più concitatamente: era lui pazzo o il tomo rosso aveva sbagliato qualcosa?
 
Nonostante la fiacchezza, velocemente si rialzò e cercò la sua cartella di appunti. Ricordava di averla lasciata proprio lì e difatti la ritrovò ai piedi del divano. L’aveva consultata proprio la sera precedente, prima di perdere conoscenza e addormentarsi.

“Il tomo rosso…eccolo.” disse, sfogliando accuratamente le pagine.
 
- Colei che è chiamata "Santa Madre" non è per nulla santa.
"La discesa della Santa Madre" altro non è che la discesa del Diavolo.
Quelli che sono chiamati i "21 sacramenti" sono tutt'altro che sacramenti. I "21 sacramenti" altro non sono che 21 eresie.
Dare luce ad un regno del male entro i confini del benedetto regno di nostro Signore è un atto blasfemo e opera del Diavolo.
Se tu vuoi fermare la discesa del Diavolo, seppellisci parte della carne della madre dell'Evocatore dentro il vero corpo dell'Evocatore. Devi anche trafiggere la carne dell'Evocatore con le 8 lance "Vuoto", "Tenebre", "Oscurità", "Disperazione", "Tentazione", "Fonte", "Vigilanza" e "Caos".
Fallo e la carne maledetta dell'Evocatore tornerà ad essere ciò che una volta era, per grazia di nostro Signore. -
 
Alzò gli occhi da quell’appunto.
 
“Parte della carne…il cordone.” corrucciò le sopracciglia e si fece pensieroso.
 
Per uccidere Walter Sullivan non era sufficiente puntargli una pistola alla tempia e premere il grilletto. Egli era un fantasma fugace che agiva senza un corpo fatto di carne. Dunque per morire doveva tornare uomo, tornare quindi alla vita.
Il tomo rosso illustrò ad Henry come fare: doveva trafiggere la “carne dell’evocatore”, ovvero il corpo di Walter Sullivan che egli stesso aveva usato per far sorgere Dio, con le sette lance simbolo del secondo e terzo segno dei ventuno sacramenti. Inoltre doveva utilizzare il cordone, quella famosa “parte della carne” che rappresentava la connessione tra lui e la madre che lo aveva partorito.
Una volta fatto questo…era lì che doveva ucciderlo. Come teoricamente era accaduto nella sala circolare con quel macabro marchingegno metallico immerso nel sangue.

Qualcosa era quindi andato storto con il rituale? Il tomo rosso aveva dimenticato qualche dettaglio fondamentale?
Con Walter Sullivan, non sarebbero dovute sparire anche le manifestazioni della realtà parallela? Perché l’appartamento dunque ne rimaneva denso come se egli fosse ancora in…vita?
Non sapeva spiegarselo, ma una cosa era certa: Sullivan lo aveva colpito a morte lui stesso, e dunque concepire che fosse in qualche modo sopravvissuto era assurdo per Henry.
 
“O forse…sto semplicemente impazzendo?!” disse farfugliando tra sé e sé, portando una mano sulla fronte.

Sogghignò appena, come se si rendesse perfettamente conto che qualcosa non andasse bene nella sua testa già da un po’. Del resto, di cose strane e assurde gliene erano accadute così tante che il suo stesso concetto di ragionevolezza stava vacillando.
 Si sentì accaldato e la testa prese a pulsare violentemente. Gettò il capo indietro mentre i suoi occhi reclamavano riposo assoluto.
 
Era per questa ragione che non riusciva a soggiornare in casa a lungo. Per questo non dormiva mai o andava a lavorare pur di chiudersi da qualche altra parte.
Aveva paura che, chiudendo gli occhi, tutto ricominciasse daccapo. Aveva paura che, nel sonno, potesse imbattersi nuovamente negli incubi.
 
Nonostante la sua razionalità gli riportasse alla mente un dettaglio fondamentale: Walter Sullivan era morto. Lo aveva ucciso lui stesso.
 
“Devo…devo riposare…” bofonchiò, poi si voltò di colpo spalancando gli occhi. “…??”

Un brusio, lo fece trasalire di colpo.
Era stato un rumore lieve, ma per qualcuno abituato a vivere da solo, era sufficiente per attirare l’attenzione, nonché allarmarlo.
Gli venne subito spontaneo credere che fosse qualcuno fuori la porta; era tipico dei suoi vicini, ad eccezione di Eileen, parlare ad alta voce sul pianerottolo. Primo fra tutti quello che abitava affianco nel 301, Mike. Nel 304 abitavano una coppia di anziani, ed erano proprio girando la curva del pianerottolo, dunque li aveva esclusi a priori.
Quindi rimaneva solo Mike, un uomo che aveva scoperto essere anche un pervertito durante i suoi viaggi nella realtà parallela. Da allora aveva avuto tutt’altro trattamento nei suoi confronti.

Si avvicinò perciò allo spioncino della porta e diede una veloce sbirciata. Non che fosse diventato diffidente, ma si aspettava che uno come lui potesse importunare la povera Eileen, una ragazza e che abitava da sola per giunta.
Mike gli sembrava tipo che poco si curava che Henry abitasse proprio fra i due e che lui ed Eileen si frequentassero. Sì, dunque era diventato decisamente diffidente, non poteva mentire.
 
Il suo sospetto tuttavia venne velocemente smentito, questo perché non c’era nessuno sul pianerottolo. Subito portò una mano sul capo, confuso. Eppure continuava a sentire quell’eco incomprensibile, soffuso ma percepibile.
Presto la stanchezza non fu più una scusa sufficiente per tranquillizzarlo. Prese quindi a setacciare la casa, convinto di non sbagliarsi affatto.
Suo malgrado, si accorse che più si allontanava dall’ingresso, più quel rumore sembrava farsi alto e nitido. Deglutì quando capì che, qualunque cosa fosse, veniva proprio dal suo appartamento.
In verità non si sorprese più di tanto.
Ogni volta che c’era qualche anomalia, oramai pensava sempre al suo appartamento maledetto.
 
Tendendo l’orecchio costatò che quel brusio proveniva da una stanza in particolare: il ripostiglio. 
Le sue paure trovarono fondamento…era il varco che lo stava richiamando, ma per quale motivo?
Aveva già oltrepassato la sua soglia diverse volte negli ultimi giorni, sperando di mettere fine a quell’incubo una volta per tutte, tuttavia non vi aveva mai trovato nulla, al di là di quello che fu il teatro dell’orrore di Walter Sullivan.
Nessuna creatura famelica e raccapricciante, nessun fantasma, nessun assassino…o semplicemente nessun mostro sotto il letto.
 
Tuttavia quel brusio, suggestione o meno,  proveniva proprio da lì e lo richiamava ad indagare ancora una volta. Che fosse solo la disperata ricerca di dare un senso alle manifestazioni, si convinse che questa volta poteva essere diverso in quanto non aveva ancora ricevuto segnali “dall’altro mondo”.
 
Allungò dunque il braccio verso la panca posta vicino al corridoio e velocemente estrasse la prima cosa che trovò utile come oggetto di difesa.
Anche se difficile da usare come un’arma vera e propria, quando si ritrovò tra le mani il taglierino, decise di tenerlo con sé.
Portò anche la mazza da baseball in alluminio, era l’unica che aveva tenuto con sé dentro la panca e non nascosta nella realtà parallela, visto che per la polizia non era identificabile come una vera e propria arma.
A quel punto tirò su un profondo respiro e si decise quindi a entrare.
Pronto a ritrovarsi davanti chissà quale manifestazione demoniaca, spalancò violentemente la porta e puntò la mazza dinanzi a sé, serrandola con entrambe le mani con estrema fermezza.
 
L’unica cosa sconvolgente che trovò lì dentro, però, fu la lampadina della luce da cambiare perché fulminata.

Guardò dunque l’ambiente e scrutò gli scatoloni, i panni e le cianfrusaglie varie, tutti oggetti tipici da vedere in uno stanzino. Puntò lo sguardo in direzione dell’impalcatura di ferro, dove aveva sistemato gli attrezzi e la scala per uso domestico. Con determinazione afferrò un estremo e trascinò l’ intera struttura in un angolo.  
Il cuore prese a battere forte.
Aveva cambiato la disposizione dei mobili proprio per nascondere il varco per Silent Hill.
Non appena se lo ritrovò di fronte, gli si gelò la schiena: l’incubo che mai più avrebbe voluto rivivere. Il buco che aveva dannato la sua vita per sempre.

Si affacciò cautamente e cercò di esaminare con cura la situazione.
Era aperto e dei rumori provenivano da lì.  Nonostante quei rumori sinistri, si affacciò comunque senza troppe remore.
Il vantaggio di aver toccato il fondo della pazzia ed essere sopravvissuto: da allora si era dimostrato decisamente più coraggioso di quanto potesse credere. O imprudente, questione di punti di vista.

 
-E’ …ente! Le … …di ar …….re su…..do…!-

Come se avesse chiamato a sé un segno, l’eco offuscato e confuso di una voce risuonò dal fondo.
Una voce indistinta, eppure stranamente familiare.
 
Era disorientato, la sua mente era in un completo caos. Tuttavia non poteva indugiare oltre, così decise di scavalcare il muro e si addentrò verso la realtà parallela.
Il cuore batteva fino a far male, in balia della razionalità che normalmente avrebbe impedito a chiunque di addentrarsi dall’ “Altra Parte” di spontanea volontà; ma Henry lo fece, così presto perse conoscenza, pronto a risvegliarsi in uno degli ambienti simbolo del passato di Walter Sullivan.



***
 
 
“Ah…la testa…”
 
Quel senso di vuoto e di smarrimento che portavano i suoi viaggi erano così fastidiosi, non avrebbe mai potuto abituarsene, ma forse questo era un bene: abituarsene avrebbe significato che Henry fosse diventato semplicemente pazzo.
Si girò attorno e si rimise immediatamente in piedi.
Non era affatto turbato da ciò che aveva dinanzi a sé. Del resto, quella non certo la prima volta solcava quel buco dopo aver ucciso Sullivan e salvato Eileen.
 
In quel momento si trovava fra dei servizi igienici dall’apparenza abbandonata, in quello che sembrava un bagno fuori uso. Vi erano una serie di separé l’uno di fianco l’altro in pessime condizioni, grondanti di penzolanti muffe maleodoranti. Di una cosa era certo: di servizi “igienici” ora avevano ben poco.
Il pavimento era in ceramica, bianco, ma oramai aveva perso il suo originale candore dati gli evidenti segni del tempo.
Diverse pozze di liquido organico erano presenti a pochi passi da dove lui stesso si era risvegliato. Come se non bastasse, anche la luce era decisamente scarsa e fastidiosa visto che andava ad intermittenza, spegnendosi ed accendendosi una continuazione.
 
Ad ogni modo, gli bastò che la mente si facesse meno offuscata per associare quei fatiscenti bagni a quelli presenti nell’ospedale St. Jerome.
Strano che fosse l’ospedale vicino casa sua e che l’originale fosse candido ed immacolato. Nella realtà parallela faceva semplicemente schifo. Avrebbe preferito morire dissanguato piuttosto che farsi operare lì dentro rischiando un contagio mortale solo nel sedersi su qualche lettino fatiscente.
Non che potesse fare lo schizzinoso. Visto che quando viaggiava nel varco perdeva conoscenza, doveva anche aver dormito su quel disgustoso pavimento puzzolente.
 
Sospirò rassegnato e dunque si alzò con determinazione uscendo dalla porta dinanzi a sé. Si ripromise di agire con estrema cautela una volta inoltratosi. Questo nonostante il fatto che, durante i suoi ultimi viaggi, aveva avuto modo di costatare che in quel teatro di ricordi, oramai non ci fosse null’altro che un palcoscenico vuoto.
Tuttavia quella voce poteva aver simboleggiato qualcosa di diverso. Questa volta poteva sul serio trovare qualcosa o…qualcuno?
Serrando in un pugno saldo la mazza da baseball, aprì l’uscio cercando di non fare nessun rumore.
Si ritrovò così nella sala d’attesa, completamente sgombra, senza alcuna postazione per i pazienti, senza alcuna reception. Nelle medesime condizioni del bagno: intriso di puzzolenti muffe, disgustose pozze,  medicinali scaduti e una fastidiosa luce ad intermittenza.
 
Girandosi attorno, istintivamente sperò di trovare qualcuno. 
 
“Ma cosa vado a pensare..? Ovvio che…” ripeté a se stesso, ribadendo l’improbabilità della cosa, ma immediatamente una voce altisonante attirò la sua attenzione.
 
-Ma lei è un dottore…deve pur fare qualcosa!-
 
“Di nuovo??” Esclamò Henry.
 
Questa volta era stato ben chiaro sia da dove provenisse quell’eco, che il significato delle parole. Inoltre anche il timbro della voce gli sembrava familiare. Più che familiare.
Henry portò una mano all’altezza del mento sempre più sicuro di averla sentita persino di recente.
 
Ad ogni modo, non indugiò ulteriormente ed iniziò l’esplorazione, esaminando le varie porte della reception.
Costatò che tutte le porte e le maniglie facevano cilecca. Tutte tranne una in verità, e difatti ci entrò non appena sentì il meccanismo della serratura muoversi.
 
Rimase perplesso di costatare che la stanza era vuota e che si trovasse in quello che probabilmente era lo studio di un medico. Si aspettava di trovare ben altro.
A furia di rimanere in quel mondo, era stato chiaro arrivare alla conclusione che tutti gli ambienti presenti oltre il varco fossero legati a Walter Sullivan. Pur non capendone esattamente la meccanica, aveva compreso quanto persino i piccoli dettagli reagivano secondo i sentimenti , ricordi e impulsi del loro padrone.  Interagivano con lo spettatore ignaro di quella controversa esistenza, smuovendo e materializzando i ricordi tormentati dell’uomo. Persino le stanze o gli oggetti nei quali Henry si era imbattuto in passato ne facevano parte. Tutti racchiudevano e custodivano frammenti di memoria, simbolo della vita passata che li aveva fatti nascere. Era alla luce di questo che ora Henry si domandava incerto perché quello studio medico fosse l’unica stanza aperta.
 
Già gli era difficile concretizzare che quel mondo, in parole povere, non fosse alto che una rielaborazione mentale dell’uomo che aveva cercato di ucciderlo; ma addirittura trovare al tutto un filo conduttore e in qualche modo una logica, era decisamente troppo.
 
Era una persona pragmatica e non era in vena di psicanalizzare nessuno. Non lo aveva mai fatto e non avrebbe cominciato con Walter Sullivan.
Eileen aveva provato a coinvolgerlo nella sua analisi meticolosa circa i suoi traumi esistenziali o qualcosa del genere, ma per Henry un assassino rimaneva tale e basta. Era sufficiente per lui ricordare cosa aveva fatto e come aveva tentato di uccidere Eileen per non avere pietà. Inoltre di suo non era vocato per quel genere di cose.
 
Fece dunque scivolare via dalla mente quei pensieri e premette l’interruttore della luce, ma questa prese a lampeggiare fastidiosamente fino ad emettere una vistosa scintilla che portò nell’oscurità lo studio.
 
Bene…constatò. Henry faceva uno strano effetto alla corrente della luce quel giorno.
Cominciò senza grossa finezza a sfogliare le varie scartoffie in giro e scrutare la scrivania. L’ufficio non era molto grande, conteneva giusto un tavolino basso, un paio di divanetti a due posti e una scrivania principale. Eppure più frugava in giro, più costatava che contenesse diversa roba.  Nulla di utile comunque, inoltre il buio rendeva tutto illeggibile.
Un fascicolo solo, però, attirò definitivamente la sua attenzione.
Sebbene fosse un documento di appena qualche pagina, era posto al centro del tavolino in modo tale da non passare inosservato.
Lo prese dunque fra le mani e lesse. Suo malgrado, non vi era nulla che riguardasse la voce sentita prima, ma vi era comunque qualcosa di ugualmente interessante.
 
“Uhm…sembra un qualcosa di piuttosto datato…” dedusse mentre sfogliava le pagine. “St. Jerome…ricoverato urgentemente.”
Prese a sfogliarlo e si avvicinò ad una finestra, dove stranamente proveniva un tenue raggio di luna. “Questa è la cartella clinica di un neonato.”
 
Peccato che non vi fosse molto a riguardo, per cui non poté esaminare il caso con accuratezza. Eppure, nel leggere le condizioni di un bambino ricoverato d’urgenza, crebbe in lui una strana sensazione in corpo. Non vi erano però dati più specifici, nemmeno un nome, un cognome, o una data di nascita…ma era lampante che riguardasse Sullivan.
Infondo era proprio l’ospedale di Ashfield il posto dove Frank Sunderland lo aveva portato quando lo aveva trovato in fasce nell’appartamento 302.
Non vi aveva dato grosso peso a quel tempo, preso com’era dalla ricerca disperata di una via d’uscita per lui e la sua compagna, ma sia sul diario di Frank Sunderland che sugli appunti scritti sulla carta rossa da Schreiber, doveva esserci appuntato quel dettaglio risalente a ventiquattro anni prima.
 
Posò la cartella clinica e la sua mente tornò al bambino dalla maglia a righe, nel giorno in cui, nella nebbiosa foresta di Silent Hill, aveva potuto finalmente porgli delle domande. Le cose, per qualche motivo, trovarono per lui una connessione naturale
Gli chiese senza troppe remore se egli fosse Walter Sullivan. Il bambino, seppur intimidito, gli rispose in modo gelante e consapevole che egli non possedesse affatto un nome.
Riguardando la cartella clinica, dedusse che dunque quella doveva essere proprio quella di Sullivan, visto che i suoi dati anagrafici, nome compreso, glieli avevano dati i membri del culto.
Dunque il bambino aveva detto la verità, era un volto senza nome dimenticato dal mondo.
 
Uscì dalla porta con gli occhi calati e lo sguardo cupo. Rifletteva ancora sul perché di tutto quello, non riuscendo a trovare una finalità dietro quei ricordi su ricordi di Sullivan che lui sembrava destinato a dover conoscere suo malgrado. Assorto in quel vortice di dati e pensieri controversi, non si accorse che qualcosa invece si stava avvicinando a lui. Se solo avesse prestato più attenzione, avrebbe immediatamente sentito dei passi profondi solcare la hall.
Era un rumore strozzato, un qualcosa che ricordava un lamento, anche se molto vagamente.
 
Henry costatò di avere, a nemmeno di un metro di distanza, un enorme figura deforme di fronte a sé; questo tuttavia troppo tardi.
 
“Ah!” urlò, preso completamente alla sprovvista mentre questa lo colpì violentemente sulla fronte.
 
Cadde a terra dolorante, strisciando sul pavimento sporco per via della veemenza del colpo. La testa prese a pulsare confondendo i suoi sensi, mentre del liquido caldo e denso prese scorrere dalla sua fronte. Toccandola, trovò la mano insanguinata. Si era procurato una brutta ferita il cui dolore era inibito solo dall’adrenalina.
 
“Gh…” una goccia di sangue coprì un occhio, sicché fu difficile per lui focalizzare nel dettaglio la creatura mostruosa che l’aveva colpito. Fece comunque del suo meglio per non lasciarsi prendere dal panico e alzare lo sguardo per rendersi conto il più in fretta possibile della situazione.
 
Più guardava quell’immagine demoniaca e deformata, più gli sembrava avere delle braccia, una testa, dei capelli…un seno…
Le sue, anche se camuffate da una pelle spessa e scavata, rimandavano proprio alle fattezze di una donna!
Ma era sproporzionatamente alta, mostruosa e spaventosa. La sua pelle era coriacea e il volto raccapricciante. Brandiva un grosso bastone fra le mani e, a ogni suo passo, emetteva un rumore disgustoso scaturito da un buco che le perforava il basso ventre.
 
Henry indietreggiò appena, ma trovò dietro di sé il muro, così si rese conto di non avere scampo.
Doveva fuggire, e alla svelta! Peccato che le gambe fossero oramai paralizzate, non riusciva ad alzarsi e il mostro si faceva sempre più vicino. Così tanto da sentirne perfettamente l’odore fetido.

Non ritrovandosi la mazza da baseball fra le mani, dedusse troppo tardi che durante la colluttazione doveva aver perso la presa. Infatti, vide che questa era caduta lontano dalla sua gittata, ancora nei pressi della porta dello studio medico.
Istintivamente, mise dunque la mano nella tasca del jeans e solo allora ricordò di avere con sé il tagliacarte. Lo estrasse immediatamente e lo puntò contro il mostro. Non era un’arma efficace contro giganti simili, ma era pur sempre meglio di niente.
Non ci capiva un accidenti di medicina e le sue conoscenze anatomiche risalivano ai tempi del liceo, ma se giocava bene le sue carte, avrebbe potuto tagliargli i tendini e i legamenti muscolari, limitando i movimenti del mostro-femminile abbastanza da poter scappare via.

Il mostro, alla vista di quell’oggetto, per un attimo si bloccò. Stesso Henry si sorprese di quella reazione.
Girando gli occhi, poi, si accorse che non era affatto spaventato dalla sua arma, ma dal fatto che dal corridoio stavano avanzando altri suoi simili.
 
“…merda!” esclamò a denti stretti.
Arrivarono altri cinque mostri di almeno due metri e in poco si affiancarono a quello che Henry aveva di fronte a sé.
 
Cosa doveva fare? Come doveva difendersi? L’ultima volta si era tagliato nella realtà parallela e il graffio non era sparito. Questo significava che, se fosse stato sopraffatto lì, sarebbe morto per davvero?!
Anche se Walter Sullivan era oramai morto e quel mondo non aveva ragione di esistere?
Strinse l’arma ancora più fermamente e cominciò a sudare, vedendo davanti a sé sempre meno scappatoie.
Voleva vivere, diavolo! Era sopravvissuto ad un inferno claustrofobico come quello e non poteva accettare di non poter far nulla per salvarsi ora.
L’istinto gli diceva di far qualcosa e alla svelta, ma più i mostri si facevano vicini, più per lui sembrava impossibile fuggire alla morte.
Si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, del suo corpo, della Silent Hill alternativa. Sarebbe morto nel suo appartamento o sarebbe rimasto inglobato nella realtà parallela?
La paura lo stava rendendo cieco e la pelle prese a bruciare, impietrita dai mostri che presto l’avrebbero torturato fino a decretare la sua fine.

E poi…
 
Accadde qualcosa di improvviso.
I mostri si accasciarono a terra tutti all’unisono, lasciando Henry con il cuore a mille.
Li vedeva tutti lì, stesi di fronte a lui, oramai immobili.

“Ma che diavolo..?” disse, con voce affannata.
 
Guardò quelle carcasse e cercò di spiegarsi cosa diavolo fosse successo. Sicuro fossero…morti?
Si alzò e con la punta del grosso tagliacarte punzecchiò la testa di uno dei mostri, il quale non reagì affatto. Era quindi effettivamente morto. Le carcasse tuttavia di lì a poco presero a vibrare, facendo prendere un ennesimo colpo al povero ragazzo dai capelli castani che quasi non si ritrovò a strillare visto com’era in fibrillazione.
 
I corpi fremevano forte, come fossero sotto l’effetto di una potente scarica elettrica. Tuttavia non erano vivi e anzi…
Henry, da infelice spettatore, dovette assistere alla macabra visione di quei corpi che lentamente presero a corrodersi fino a liquefarsi, mostrando prima i tessuti muscolari, poi le ossa, fino a lasciare di loro solo fetidi odori organici. Di loro non rimase presto nulla se non cinque grosse sagome rosse.
Le sagome riproducevano alla perfezione la loro posizione durante la morte, con tanto di zona ventrale vuota, rimasta intatta sul pavimento come fosse un’immagine iconografica dei mostri senza ventre.

“Perché si sono liquefatti..?” si chiese impotente. Non era mai accaduto che quei mostri si liquefacessero in passato. Si poneva dunque il perché di quella reazione.
 
La risposta la trovò esaminando più accuratamente quel sangue ora rappreso.
 
DoNa…
 
Non riusciva a credere a ciò che stava leggendo. Cioè, stava leggendo qualcosa nel sangue!
Si affacciò per costatare più accuratamente quelle sottili venature attorno ai corpi e si rese conto che non vi era solo scritto –dona-, ma che connesse a questa vi erano un susseguirsi di parole.

MAdre…
…DoNa.
MAdre,
Ti sAlverO iO!

 
Guardò quella scritta cercando di comprenderne il senso e i suoi occhi caddero immediatamente sui corpi di quei mostri. La risposta la poteva ottenere soltanto da loro. Era fin troppo ovvio che rappresentassero delle “donne”, dunque la parola –dona- era chiaramente riferita a loro…
 
“…ma perché ‘madre’?” si domandò.
 
Cosa rendeva simili una madre e una donna? Quale era la connessione?
 
“Quel rumore che emettono…non è per lo stomaco squarciato.” disse all’improvviso, come se per una volta vedesse in modo chiaro i messaggi di quel macabro universo.
 
Si avvicinò a una di loro e osservò meglio.
 
“Donna e Madre. A loro manca infatti…”
 
…Mancava una parte fondamentale e che connetteva quelle due parole.
Partì un vero e proprio flashback nella sua mente che andò a rievocare il periodo dei suoi viaggi dall’appartamento 302 al mondo parallelo. Solo allora rammentò il giorno in cui era entrato nell’ospedale la prima volta. Quando aveva udito dei sospiri e aveva visto l’ombra di Walter Sullivan proiettata su un lettino d’ospedale, mentre squarciava il corpo di uno di quei mostri.
All’epoca avere dinanzi a sé l’assassino lo fece scappare via ma adesso, a sangue freddo, poteva riflettere su cosa fosse accaduto quel giorno e cosa stesse facendo Sullivan lì: stava asportando a quei mostri l’utero!
La sola idea gli portò il voltastomaco. Lo aveva visto farlo a mani nude, con un’ossessione perversa e diabolica negli occhi, crudele ed inconcepibile.
  
Lo sguardo che Henry rivolse a quel mostro, dunque, fu diverso. Più…compassionevole?
Era come se si fosse reso conto che anche quelle creature erano vittime di un terribile incubo malsano scaturito dalla mente di Sullivan, nate al solo scopo di soffrire per le sue pene e i suoi peccati.
I pezzi di quel ricco mosaico cominciarono a combaciare l’uno dopo l’altro, ricostruendo quel quadro che Henry già ben conosceva, ma che si era rifiutato di analizzare in modo più approfondito proprio per non rimanerne soggiogato ineluttabilmente….
 
Walter Sullivan era stato abbandonato in fasce. La madre lo aveva ripudiato e condannato a morte certa. Lo aveva scoperto grazie a Joseph Schreiber ed era per quel motivo che era dannatamente legato all’appartamento 302.
Conosciuto il dolore del rifiuto e dell’abbandono, la sua psiche era rimasta corrotta e macchiata persino in quella tenerissima età; un trauma così grande e devastante da invadere anche quel mondo creato dal rituale dei 21 sacramenti, fino a generare una controversa e truculenta immagine di esso.
Già nell’ospedale doveva aver elaborato quell’odio e quel disprezzo.
Un odio e un senso di usurpazione verso la donna, verso l’utero, ma al tempo stesso un forte e irrazionale desiderio di ricongiunzione con esso…
 
Una parte di lui, dunque, aveva sempre voluto tornare da lei, dentro di lei, per riprendersi i giorni rubati.
La proiezione di un bambino che era stato strappato via da sua madre…
 
Continuò ad osservare quei mostri ora liquefatti.
Quei mostri che raffiguravano delle donne. Delle donne senza un organo ben preciso: l’utero.
Si chiese se era proprio da lì che Walter Sullivan aveva aveva cominciato il suo cammino verso l’oblio e la follia.
 
Anche se un neonato, fin dal grembo materno, aveva subito le angosce e le frustrazioni dei genitori.
E così era stato strappato via dal suo amato grembo materno, tradito dalla prima donna di qualsiasi uomo: La madre.
 
Per questo…quei “mostri” non avevano il ventre?
Henry solo allora cominciò a comprendere alcune cose.
 
Istintivamente, riportò alla mente il secondo piano dell’edifico del ST. Jerome demoniaco.
Era lì dove un tempo aveva salvato Eileen Galvin, attraversando una serie di porte losche e lugubri, nonché assurdamente senza senso. Ora invece, gli sembrava quasi di capire perché quel posto fosse così strano, perché fosse così putrido, perché le stanze erano dislocate e seguivano un’architettura del tutto errata. Perché vi fossero strani cadaveri, brandelli di carne, vetri rotti o quant’altro…
Erano tutti i chiari segnali del disturbo di Walter Sullivan, del suo sentirsi rifiutato e cacciato via da colei che amava.

Un click poi rimbombò nell’aria ed Henry si voltò di getto.
Era stato un improvviso rumore rugginoso che sembrava provenire dai piani superiori. Il ragazzo dedusse che quei mostri, per qualche motivo, dovevano aver fatto smuovere qualcosa in quell’universo parallelo.
Aprì immediatamente la porta a doppie ante e costatò che sì, effettivamente ora il meccanismo della serratura funzionava e poteva proseguire.
Imboccate le scale, giunse al lungo corridoio contornato da una ventina di stanze. Era un ambiente anch’esso vuoto, polveroso e desolato.
Non ci pensava nemmeno di riesaminare tutte quelle nauseanti porte, dunque decise di cercarne una ben precisa.
Ricordava quale fosse la camera di Eileen, quella dove era stata ricoverata, e gli sembrò opportuno andare a darci un’occhiata.
Eileen non gli aveva mai dato grosse spiegazioni in merito, ma in qualche modo lei aveva rappresentato per Sullivan la “madre”, dunque gli sembrò fin troppo ovvio che avrebbe trovato qualcosa d’interessante lì dentro. Sembrava aver senso, alla luce dei mostri femminili e il fascicolo del neonato. Non che avesse mai avuto un brillante acume, ma gli sembrava la logica conseguenza della sua indagine.
Cosa avrebbe trovato..? Quello era un altro paio di maniche, ma ci avrebbe pensato dopo, così dopo aver attraversato un paio di porte, si fermò di fronte la stanza voluta.
Le porte non avevano una numerazione o una nomenclatura, ma da questo punto di vista, Henry poteva vantare un’eccellente memoria visiva. Essendo un fotografo per hobby e per lavoro, era abituato a catturare e fermare nella sua mente dettagli e scorci.
Avvicinò la mano al pomello e fece per aprire la porta.
Punto positivo, la porta si aprì. Tuttavia di fronte a sé non trovò la stanza che cercava.

“Ma…!” disse turbato.
 
Che si fosse sbagliato era un conto…
Ma era più che certo che quella stanza in particolare non era ubicata all’inizio del corridoio.
 
Anf…Anf…
 
Avvertì un gelo dietro la nuca, nell’udire quegli spasmi. Gli stessi gemiti che faticò a sostenere psicologicamente la prima volta, torturando la sua mente e la sua ragionevolezza.
La voce soave di Eileen Galvin ansimava con terrore e i suoi respiri soffocati rimbombavano creando un’atmosfera terribile.
Più si soffermava ad ascoltarli, più vi leggeva dentro dolore, tormento, angoscia…ma anche esultanza; essi erano soffocati, eppure penetranti…
 
 “Eileen…” disse quando la vide.
 
Era la raccapricciante immagine formato gigante del volto della sua vicina di casa, in quel mondo la madre rinata, il ventesimo segno.
Eppure quella era un’idea decisamente malsana del concetto di madre.
Non che si aspettasse un’interpretazione più convenzionale da parte di uno pazzo come Walter Sullivan. Tuttavia…più di qualcosa per lui non quadrava affatto.
Punto primo, perché la stanza si era spostata? E secondo: perché la manifestazione di Eileen come “madre” era grande quanto una stanza?
 
Levato quell’aspetto inquietante, era come se un bambino avesse disegnato una mamma grande quanto tutta la casa.
Per gli psicologi, aveva letto da qualche parte, o forse era sempre stata Eileen a dirglielo, non ricordava…questo rappresentava quanto per un figlio significasse il familiare ai suoi occhi.
E Walter… già in fasce aveva cominciato ad avere un’idea distorta della madre, che amava ma che l’aveva dannato al tempo stesso.
Una parte infantile di lui l’aveva sempre considerata per tutta la vita la sua ancora di salvezza, nonostante abbandono e rifiuto. 
Una madre che, nonostante tutto, agli occhi di un bambino era e rimaneva onnipotente come un Dio.
 
C’era dell’altro però.
C’era un sottile filo conduttore tra Eileen, quella testa gigante che la rappresentava, gli spasmi, il rituale e il fatto che fosse chiusa in una stanza.
Il solito, maledetto e costante anello di congiunzione che non faceva che riflettere quella dura realtà.
 
…Lo comprese nel momento nel quale si accorse di che natura fossero quei sospiri tormentati…
 
Ovvero…sua Madre.
La Madre, che era Eileen.
La Madre, che era l’appartamento 302.
La Madre, che l’aveva partorito: sia come donna, che come stanza, come lui confuse da bambino.
 
….quei tormenti che sembravano quelli di un parto…
 
Nella concezione irrazionale e assurda di un ragazzino solo e cresciuto in modo malsano, il giovane Walter aveva creduto che l’appartamento dove sua madre lo abbandonò fosse quello che l’aveva partorito.
Quella stanza dove casualmente Henry Townshend soggiornava, la 302, agli occhi del bambino era sua Madre.
Quella stessa madre che in età adulta divenne Eileen Galvin, scelta come ventesimo sacrificio.
Fu inquietante vedere come la sua mente avesse simbolicamente elaborato tutto ciò rappresentando una donna formato stanza 302, facendo coincidere “Madre Rinata” con “stanza 302”.
Era...strano.
Era…orribile…
Fu la visione di qualcosa di inumano e folle, che lo catapultò nei meandri oscuri e agghiaccianti di quella realtà parallela, simbolo di una mente oramai devastata.
Toccare con mano quei disturbi era un qualcosa che lo angustiò fino a contorcere atrocemente le sue viscere.
 
Non potendo sopportare psicologicamente quella visione, chiuse la porta.
Eileen, con quel volto pieno di venature, gli occhi tremanti che lo fissavano morbosamente…gli spasmi nella stanza…
Era lei. Il suo viso, i suoi capelli, le sue labbra…
Ma al tempo stesso era un’espressione che non riconosceva e che non poteva sostenere.

Presto costatò che non era solo quella stanza ad essere posta in una locazione differente rispetto la prima volta, ma anche tutte le altre non si trovavano affatto dove egli ricordasse.
A quel punto fu ovvio per Henry che non era la sua mente a fare cilecca, ma in qualche modo tutte le stanze avevano cambiato ubicazione.
Azzardò un’ipotesi, oramai entrato in quello spirito.
La mente di Walter Sullivan era confusa nel ricordare esattamente l’aspetto del St.Jerome essendo un neonato; era dunque ovvio che ne ricordasse solo il caos e i disturbi mentali che gli avevano scaturito. Ecco spiegato perché le stanze non erano sempre allo stesso posto.
Piuttosto fu ambiguo pensare che tutto fosse frutto di un Sullivan neonato.
 
Entrò in tutte le stanze alla fine e più le osservava, più sentiva lo stomaco farsi sottosopra.
Non poteva…perché lui doveva vedere tutto questo…?
Perché?
Se lo stava chiedendo oramai da giorni…era una vittima, un’infelice vittima capitata per caso lì dentro. Ma perché a differenza degli altri, doveva vivere quella terribile esperienza?
Perché lui era in grado di vedere quelle cose, frutto della mente di Sullivan?
 
Volente o nolente, sembrava che quel mondo lo risucchiasse a sé morbosamente, che volesse che egli apprendesse quelle consapevolezze; ma Henry voleva solo trovare un dannato modo per fuggire dall’incubo! Non ne poteva più!
Voleva un perché!
Un perché circa il suo appartamento che verteva ancora in quello stato nonostante la morte di Sullivan...
Un perché sul fatto che lui stesso, nonostante tutto, finisse sempre per riattraversare quel varco.
 
Semplicemente desiderava che tutto tornasse come prima; non sarebbe impazzito là dentro.
 
La nausea di colpo lo assalì e subito cominciò a tossire, accasciandosi a terra, sfinito e disorientato.
 
“Sullivan…cosa diavolo vuoi ancora da me?!” disse a denti stretti.
 
-Come sarebbe a dire che non è mia competenza! Mi lasci andare!-
 
La voce risuonò ancora in quel lungo corridoio e Henry si rimise in piedi, assumendo un’espressione sgomentata. 
Perché ne era sicuro! L’aveva sentita vicinissima ora.
Aveva echeggiato così all’improvviso che non era riuscito a dedicarci le attenzioni dovute, tuttavia…stavolta era certo di chi si trattasse; non aveva torto quando aveva detto che gli era sembrata familiare.
 
Quella…era la voce di Frank Sunderland?
 
“F-Frank!” urlò fissando in una direzione vaga. “E’ lei signor Frank? Dove si trova?”
 
A quel richiamo, tuttavia, non rispose il custode della palazzina, ma susseguirono una serie di rumori metallici.
 
“Un cigolio..? Cos--”
 
Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che subito avvertì una terribile fitta al cervello che lo costrinse a chiudere gli occhi e portare entrambe le mani sul capo.
 
“Ah!”
 
Il dolore era incessante e l’ansia cominciò a sopraffarlo.
Il rumore metallico, come se non bastasse, cominciò a farsi sempre più nitido e presto si rese conto che era il tipico rumore di una ruota di…
 
“…di una sedia a rotelle..?”
 
Sgranò gli occhi quando si rese conto che, di fronte a lui, vi erano una serie di sedie a rotelle che presto lo travolsero come se lo avessero puntato con tale scopo.
Non fece in tempo a scansarle e a stento si rimise in piedi quando fu colpito con enorme violenza da gran parte di esse.
Fu così letteralmente scaraventato via e si ritrovò a terra, con le spalle rivolte verso le porte dell’ascensore del secondo piano.
Toccò il braccio dolorante e guardò le sedie con la poca forza che gli rimaneva in corpo.
 
“Cosa mi sta…?”
 
Ma le sorprese per il giovane Henry non terminarono lì. Un suono avvisò che l’ascensore era in movimento. Così, di lì a pochi secondi, si mosse violentemente verso il basso illuminando lo spiraglio tra le due ante e aprendosi, lasciarono Henry senza un appoggio per la schiena.
A poco valsero i suoi tentativi di recuperare l’equilibrio e così cadde inesorabilmente nell’abisso.
 
Il colpo fu violento; un forte senso di vertigini lo pervase mentre si accorse di essere sul tetto dell’ascensore che continuava a scendere in quel tetro buio, accompagnato da un terribile rumore stridulo che lo stava facendo impazzire.
Si strinse a esso cercando di non perdere la ragione e in cuor suo sperò che si fermasse il prima possibile.
 Qualcosa, tuttavia, cominciò ad attirare la sua attenzione.
Era di nuovo la voce di Frank Sunderland che, anche se soffocata, riconosceva ora perfettamente.
Alzò il busto rimanendo in ginocchio e cercò di ascoltare cosa stesse dicendo, ma il rumore rugginoso dell’ascensore gli impediva di concentrarsi come avrebbe voluto.
A un certo punto, comunque, gli fu chiaro che non fosse da solo. Una voce si alternava a quella del custode. Una voce di un uomo, ma che non attribuiva a nessuno dei suoi conoscenti.
 
Improvvisamente, la discesa s’interruppe.
L’ascensore si fermò, lasciando Henry proprio di fronte delle porte automatiche di ferro che si aprirono dinanzi a lui.
La luce del pianerottolo nel quale era giunto a destinazione lo accecò per qualche istante. Del resto, era sempre stato nel buio, fino a poco prima.
Si alzò e si addentrò. Lentamente sentì i suoi occhi abituarsi a quella luce, anche se con grande difficoltà.
 
Scostò la mano dalla fronte, con le pupille ancora strette e le palpebre semichiuse, e non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide proprio lui: il custode e responsabile degli appartamenti di South Ashfield Heights.
 
Subito si avvicinò e lo richiamò sorpreso. Tuttavia Frank non si voltò.
Solo in quel momento Henry si rese conto che, nonostante fosse evidente che quello fosse il custode, aveva un’aria decisamente diversa dal solito.
Dimostrava molti anni di meno e i capelli erano di un grigio tendente al biondo. I lineamenti non erano scavati come il Frank che conosceva, così come l’abbigliamento che, sebbene molto classico, era meno vetusto.
 
Frank stava parlando nervosamente con un uomo che portava sulle spalle un camice bianco.
 
“Signor Sunderland, lei cosa ci fa qui?” gli chiese.
 
Non ricevette risposta ancora una volta, così Henry concluse che, qualunque cosa stesse accadendo, Frank non era in grado né di udirlo né di vederlo.
 
Rimase, dunque in silenzio e osservò la scena che aveva di fronte a sé.
 
“Come sarebbe a dire che solo i parenti hanno diritto di sapere? Il bambino è stato abbandonato!”
 
“Mi rincresce, Signore. Ma lei non ha alcun legame di sangue con il paziente e dunque non le è concesso conoscere la prognosi.”
 
“Si rende conto di cosa dice?! Lei è folle!”
 
“Si accontenti di sapere che è sopravvissuto, ma la prego, non torni qui sperando di ricevere ulteriori informazioni. Il bambino ora è tutelato dalla legge e presto sarà accolto presso strutture adeguate.”
 
“Ma..!”
 
Henry guardò il volto del custode spegnersi sempre di più.
Quella scena manifestava i ricordi riguardanti Frank quando aveva salvato quel bambino abbandonato nell’appartamento 302. Nonostante il suo nobile gesto, non aveva mai avuto alcun diritto di sapere cosa gli sarebbe accaduto in futuro.
Era una situazione strana.
Sunderland, in quel momento, era preoccupato per quella creatura. Quello stesso che, un futuro, sarebbe diventato uno spietato assassino.
 
Abbassò gli occhi e la testa divenne sempre più confusa.
Cosa gli stava accadendo? Si sentì nervoso all’idea che in cuor suo stesse provando tanta pietà per quella terribile condizione. Aveva forse compassione per Sullivan?
Eppure rifiutava categoricamente comprendere quell’uomo terribile che aveva fatto del male a tanta gente, a lui, ad Eileen…
L’odio cominciò a scorrere nelle vene e Henry si ritrovò a stringere i pugni con grande rabbia.
Era insopportabile scoprire che esistevano molte verità circa la vita di quel crudele assassino.
Andando a scavare in fondo, parallelamente vigevano molte altre realtà che quel mondo pazzo manifestava proiettandole attraverso simboli duri e violenti, mostrando quanto la sua inumanità non fosse che il frutto di una molteplice serie di concause.
Ma un assassino rimaneva tale, no?
Era…il male.
Quel che aveva commesso non era giustificato da nessun passato, ingiusto o no che fosse.
 
Non appena alzò gli occhi, però, vide che la figura di Frank e quella del medico erano sparite.
Sgranò gli occhi sorpreso.
Quel che stavano vedendo i suoi occhi, negli ultimi tempi, era umanamente inconcepibile.
Vedeva cose che gli altri non potevano vedere. Le persone dinanzi a sé sparivano, cambiavano forma e talvolta morivano…
Affrontava mostri appartenenti a curiosi incubi, e riusciva a entrare nel subconscio di un assassino.
Era un completo caos dove lui come Henry Townshend, paradossalmente, entrava in secondo piano.
 
Tonk….tonk…
 
Dei passi, rimbombarono dietro di lui, all’improvviso, violentemente.
Era quasi come se volessero spezzare quel lungo silenzio. Lo sgomento di Henry passò in secondo piano, lasciando prevalere un totale stato di allerta.
 
Quei passi…li aveva già uditi. Era come se li riconoscesse. Somigliavano a quelli che aveva udito il giorno prima e quello prima ancora...
 
Il cuore del ragazzo palpitò violentemente, riconoscendo quel modo di camminare lento ma pesante.
Aveva già avuto modo di sentirli nell’appartamento di Joseph e, per una manciata di secondi, li aveva uditi anche mentre tornava dal lavoro con Eileen Galvin, nei pressi del terzo piano del palazzo di South Ashfield.
 
E ora…erano di nuovo dietro di lui.
 
Con lo sguardo tremante, lasciò scivolare gli occhi pallidi dietro le spalle e lentamente girò il busto per intravedere chi ci fosse. Non aveva mai avuto il coraggio di farlo, ma era anche vero che mai prima di quel momento era riuscito ad interagire nuovamente con la realtà parallela. Era come se tutto stesse di colpo riprendendo vita. Esattamente come allora…

Ebbe la terribile sensazione di non starsi affatto sbagliando. Perché non aveva dubbi che si trattasse proprio di lui.
Walter Sullivan era lì.
 
Henry sgranò lo sguardo scioccato, rimanendo con il capo chino e gli occhi dritti su di lui tremanti e confusi.
Era davvero li? Era una proiezione o lo stava sognando? Del resto, con tutte le botte prese, poteva anche essere.
 
Scrutandolo…quell’uomo aveva lo stesso aspetto di quel tempo.
Un’apparenza giovane, ma dal volto scavato e trascurato. I capelli biondi cascavano sulle spalle coprendo parte del viso, lasciando comunque intravedere l’inquietante ghigno disegnato sulle labbra e i luminosi occhi verde chiaro.
Il lungo cappotto blu notte lo copriva dal mento fino alle ginocchia, conferendogli un aspetto tetro e minaccioso.
Era molto alto, proprio come lo ricordava, e dal fisico atletico ma denutrito.
Henry rimase in silenzio e i loro sguardi erano fissi l’uno sull’altro.
 
“Sullivan…” sussurrò appena, infine.
 
“Quanto tempo, vero?” disse l’assassino, quasi divertito di vederlo lì. La sua voce era calda e rauca e incuteva turbamento nell’animo del giovane Townshend.
 
Gli occhi del moro presero a tremare. Corrucciò le sopracciglia quando cercò ancora di razionalizzare la situazione, chiedendosi se avesse per davvero di fronte a sé Walter Sullivan.
 
Perché era lì? O chi diavolo era quell’uomo?
Perché lo aveva seguito? Cosa gli sarebbe accaduto? Ma Walter…non era morto!?
Forse, se aveva appena visto un Frank ‘del passato’  , questo significava che anche quel Sullivan poteva essere una manifestazione della realtà parallela?
 
La sua camicia era oramai imbrattata di polvere e di sangue, e i capelli erano scompigliati, sporchi di sangue anch’essi.
Il suo respiro intanto diventava sempre più profondo e ansimante, mentre osservava quell’uomo che invece, al contrario di lui, aveva le sopracciglia inarcate e uno sguardo tranquillo che sembrava volerlo trafiggere.
 
Nella sua mente albergava un solo martellante campanello d’allarme.
Scappa o ti ammazzerà. Scappa, non è una proiezione. Scappa, è lì per vendicarsi. Fuggi via, fuggi via, fuggi via…
Eppure rimase immobile, come pietrificato. Non poteva essere Sullivan. Lui era morto!
La razionalità gli urlava al tempo stesso di scappare e di rimanere fermo, scaturendo in lui un decisivo e fatale blocco mentale che irrigidì i suoi sensi, muscoli, mente…tutto.
 
Walter poi, improvvisamente, tese le braccia verso Henry, brandendo due pistole nere.
 
“Felice di rivedermi?”
 
L’assassino sogghignò e cominciò a ridere come un forsennato, mentre una serie di colpi partirono a raffica colpendo qualunque cosa fosse nella sua gittata. Gli occhi di Henry si sbarrarono incapaci di capacitarsi che era troppo tardi per tornare indietro.
 
***

[Primo piano, ala ovest, di fronte l’appartamento 105, a South Ashfield Heights.]
 
Henry bussò veementemente alla porta con la targa che aveva la scritta “#105”. Era raro vedere quel ragazzo in atteggiamenti simili, lui che solitamente era così discreto e pacato.
 
“Signor Frank! Apra, è urgente!” disse, continuando a bussare incessantemente.
 
“Calma, calma! Si può sapere cos’è tutto questo chiasso?”
 
Il custode aprì la porta e si sorprese di vedere il giovane Townshend. Lo fece accomodare e lo invitò a prendere posto sul divano.
Henry aveva un aspetto stanco, ma non cessava di avere quell’atteggiamento sgomentato che spaventò un po’ l’uomo anziano.
 
“Calmati, vado a prendere del tè…” disse dirigendosi in cucina.
 
“Lasci stare, signor Frank. C’è qualcosa che devo sapere…” lo interruppe, ansimante.
 
Frank lo guardò perplesso e si allontanò dalla cucina. Fece un cenno con la testa e guardò Henry negli occhi.
 
“Prego, dimmi pure…”
 
Il ragazzo abbassò il capo, con fare leggermente incerto. Lentamente, cercò di recuperare il suo solito atteggiamento controllato. Anche la sua voce divenne sempre più bassa fino a tornare al suo timbro normale.
 
Perché era lì?
La risposta era semplice.
Henry doveva avere la certezza di ciò che aveva visto. La certezza che quel che era accaduto fosse corrispondente al vero.
Mai come allora aveva il bisogno di confutare le verità apprese nell’Otherworld con la realtà al di fuori di esso, in quello che era il suo mondo. Anche se sapeva già tutto, anche se conosceva quella drammatica storia…
Doveva però indagare e sapere di non essere pazzo…
Deglutì e decise che non aveva più tempo per indugiare.
 
“Signor Frank, lei…ha trovato un bambino, circa trent’anni fa, nel mio appartamento?”
 
Il custode rimase turbato nel sentire quelle parole e Henry si sentì leggermente in colpa. I suoi occhi sembrarono tremare incerti, perplessi da quella domanda che rievocava un periodo così lontano e ormai dimenticato.
 
“Tu…come lo sai?! Chi te l’ha detto?”
 
“Dica solo sì o no. Non le chiederò i dettagli. Devo solo sapere se è vero.”
 
Frank sospirò e prese posto sul divano. Fece segno al giovane di fare lo stesso. L’anziano aveva ancora la tazza di tè fra le mani e prese a sorseggiarla appena. Henry si accorse che i suoi occhi azzurri si stavano inumidendo, come se folgorati da un qualche ricordo che ancora lo tormentava fortemente.
 
“Sì…ma è stato molto tempo fa. Circa trent’anni fa, come dicevi tu.” sorseggiò ancora. “Ma non so molto a riguardo. Ah…forse ti avrò deluso, vero?” alzò nuovamente lo sguardo verso Henry. “Povero bambino. È una storia terribile che ancora non riesco a dimenticare. Chissà cosa gli sarà accaduto?”
 
“Dunque il diario era vero…per questo che il cordone era quì…” disse impulsivamente ricordando che un tempo era proprio nell’appartamento del custode dove aveva trovato “la parte della carne” indicatogli dal Tomo rosso e da Joseph Schreiber. “Le informazioni che ritrovo lì, sono tutte corrispondenti alla realtà…”
 
“…prego?” domandò Frank, udendo appena quel sussurro di pensieri.
 
“Oh, niente. Signor Frank, io…”
 
Henry preferì non dire oltre. Del resto, sentì il signor Frank ancora troppo sottosopra e non voleva turbarlo ulteriormente. Aveva intanto ottenuto la conferma sperata. Molto perverso, macabro o irrazionale…quel che accadeva “dall’altra parte” corrispondeva e combaciava alla perfezione con il mondo “reale”.
 
Vederlo così affranto comunque gli fece così tanta pena. Lo vide sconvolto a tal punto che rimase sorpreso di costatare che un uomo così autorevole fosse ancora molto provato e dotato di una simile sensibilità.
 
“E’ tutto a posto, signor Frank. Piuttosto…lei…?” gli chiese con voce bassa, ma Frank scosse la testa. Henry voleva approfondire le sue conoscenze circa Walter Sullivan, ma l’uomo anziano impostò il discorso in tutt’altra direzione.
 
“Nella mia lunga vita non è di certo uno il rimpianto e il dolore che mi porto, ragazzo mio.”
 
Con gli occhi ancora lucidi, l’uomo guardò una fotografia leggermente impolverata, posta sul comodino, indicandola con lo sguardo. Henry la prese con il suo consenso e la osservò con profonda malinconia.
 
Intravide che nella foto erano ritratte due persone. Un uomo tutto sommato giovane, dai capelli biondi e con un volto molto simile a quello di Frank. Egli cingeva timidamente la vita di una donna con un leggero abito floreale. Sorridevano e i loro sorrisi sembravano trafiggere terribilmente il cuore del povero anziano.
 
“Già…proprio tanti…”
 
La sua voce si fece leggermente strozzata. Henry non seppe che dire e fu terribile per lui sentire quel senso d’inettitudine. Non sapeva cosa gli fosse accaduto, ma poteva benissimo immaginare quanto dolore provasse.
Un giorno, Frank gli raccontò della sua famiglia e di suo figlio, un tale James.
Un figlio del quale non aveva notizie da tempo, oramai.
Henry comunque preferì non chiedere nulla e scelse di lasciare Frank nel suo silenzio solenne.
 
“Io le ho già rubato troppo tempo, signore. Mi spiace.”
 
Si alzò e fece per raggiungere l’ingresso e solcare la porta. Proprio mentre la aprì, vide Sunderland raggiungerlo.
 
“Henry sei…un bravo ragazzo.” gli disse. “Non lasciarti turbare da un povero vecchio mentre si abbandona ai propri ricordi…”
 
Il suo tono era leggermente in imbarazzo e Henry cercò di rassicurarlo. Del resto…anche per Henry oramai lui rappresentava qualcosa di simile a un parente.
Sentiva che poteva portare con sé quel piccolo peso per un uomo che aveva tanto sofferto nella vita, evitando di chiedergli se avesse mai scoperto qualcosa su Sullivan.
  
“Non dica così.” cercò di alleggerire la situazione, cosa non facile per uno di poche parole come lui. Subito però gli venne in mente la fotografia della palude. “Signor Frank, a proposito, ho trovato una cornice adatta alla fotografia che mi ha dato. L’ho risistemata e quando vuole, può venire a vedere com’è venuta. ”
 
Frank rise appena e portò una mano dietro al collo che prese a strofinare nervosamente.
 
“Ma davvero? Bene, sapevo che ti sarebbe piaciuta. Allora riguardati, Henry.”
 
Disse, poi fece per chiudere la porta. Guardò un ultima volta Henry e solo allora notò che aveva una ferita abbastanza profonda all’altezza della tempia. Era coperta da una fasciatura, ma era evidente che il taglio fosse recente.
 
“Come te la sei procurata quella?” gli chiese preoccupato, indicandola con l’indice.
 
Henry sgranò gli occhi e vide Frank osservare quel taglio. Portò una mano sulla ferita, toccandola leggermente a disagio, poi abbozzò automaticamente l’accenno di un sorriso.
 
“Oh…non è nulla. Ho solo avuto un incubo.” gli rispose frettolosamente e andò via.
 
[…]
 
 
 


 
 
 
NDA: In questo capitolo Henry ha fatto visita all’ospedale del St.Jerome.  Il viaggio di Henry ricomincia? Perché?
Sono volutamente partita con questo “mondo” perché è qui che tutto cominciò. Quando Frank salvò quel bambino da morte certa.
Sono molti i riferimenti simbolici nell’ospedale St.Jerome e tutti riguardano Walter Sullivan. Ho fatto del mio meglio per valorizzarli tramite questo capitolo.
Un ringraziamento speciale va a Louis Art cui devo la spiegazione delle famose infermiere giganti che emettono quei rumoracci.
Altra cosa. Sono felice di essere stata in grado di citare il protagonista di Silent Hill 2, James Sunderland. Silent Hill 2 è l’altro capitolo della saga che ancora oggi, dopo tanti anni, considero il più grande gioco di tutti i tempi.
Inoltre la figura di Frank mi piace molto. Mi piace come, in qualche modo, si colleghi al passato di Sullivan. E credo che anche per Henry lui sia rilevante. Visti i quadri che gli ha regalato, ho sempre creduto lo ritenesse un po’ come un figlio…
Ora però vi lascio. Spero che il secondo capitolo vi sia piaciuto. Mi riprometto di terminare e pubblicare presto il prossimo!
Fiammah_Grace


  
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