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Autore: Byeol_VIP    02/07/2012    2 recensioni
E poi c’erano loro.
Si, loro. Anche loro si trovavano lì, qualche volta. Precisamente…tutte le sere alle otto in punto.
Come se fosse una specie di appuntamento. Si sedevano lì, tranquillamente. Senza parlarsi, senza dirsi assolutamente nulla. Avvolti nei loro cappotti, con i fiati che formavano buffe nuvolette…rimanevano immobili ad osservare la fontana e l’acqua zampillante.
[2Min] [JongKey accennata]
Questa storia non l’ho scritto io, ma la mia migliore amica. Spero che vi piaccia :)
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Minho, Quasi tutti, Taemin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo di Fania (?) ~
Allora, ripeto che questa storia non l’ho scritto io, ma la mia migliore amica. Dopo secoli l’ho convinta a pubblicare qualcosa quindi sono molto orgogliosa di lei ♥ Bene, vi lascio alla storia e vi rigrazio prima per averla aperta e letta :)


 
Due ragazzi, una lampada e una panchina ~

L
a lampada, al centro della piazza principale, era il punto di ritrovo di molta gente. C’erano i giovani che, pieni di vita e passione, si davano appuntamento lì sotto, per poi dirigersi verso il cinema o il gelataio. C’erano le coppiette che suggellavano lì il loro amore, illuminati dalla tenue luce che essa emanava. C’erano le vecchie signore dalla lingua lunga che sedevano sulla panchina affianco alla lampada, commentando con scherno chiunque gli capitasse a tiro. C’erano le persone afflitte che, sedendo lì, rivangavano i ricordi, mentre sotto il peso delle loro azioni il cuore si frantumava lentamente. E c’erano le persone che, invece, erano appena state lasciate e allora volevano che la lampada raccogliesse le loro lacrime, nascondendole alla vista altrui.
E poi c’erano loro.
Si, loro. Anche loro si trovavano lì, qualche volta. Precisamente…tutte le sere alle otto in punto.
Come se fosse una specie di appuntamento. Si sedevano lì, tranquillamente. Senza parlarsi, senza dirsi assolutamente nulla. Avvolti nei loro cappotti, con i fiati che formavano buffe nuvolette…rimanevano immobili ad osservare la fontana e l’acqua zampillante.
Andava avanti così da sei mesi, ormai.
E mai, neppure per una volta, quei due si erano parlati. Ostentavano nel loro silenzio, con lo sguardo fisso in un punto indistinto della piazza, cercando di reprimere il desiderio di dire almeno ‘ciao’. A dire il vero, il loro comportamento era un po’ strano…eppure non sentivano il bisogno di parlarsi, di dirsi qualcosa. Solo raramente i loro sguardi si incrociavano e, quando accadeva, il più piccolo tra i due arrossiva vistosamente, nascondendo il volto tra le pieghe della sciarpa rossa che portava sempre. E il più grande soffocava un sorriso dietro il palmo della mano.
Eppure quella sera, quando alle otto precise entrambi si erano seduti sulla malandata panchina, il più grande sentì che doveva fare qualcosa. Qualsiasi cosa. E così, fattosi coraggio, biascicò un ciao.
Era un flebile sussurro, il suo. Eppure il più piccolo l’aveva udito forte e chiaro, come se l’eco, di quelle parole tanto attese, avesse rimbalzato contro la fontana, si fosse scontrato contro l’insegnato del gelataio, fino a sbattere contro il suo cuore.
“Ciao” rispose, arrossendo vistosamente e affondando le mani nelle tasche del giubbotto. La sua voce uscì attutita: un po’ perché le labbra erano strette tra la stoffa della sciarpa, un po’ perché la neve, che circondava il paesaggio attorno a loro, ovattava ogni suono.
“…”
Tra i due calò di nuovo il silenzio. Ma quel loro silenzio era piacevole, tranquillo. Come sempre, non avevano bisogno di parlare. Ma qualcosa di diverso, quella sera, c’era sicuramente. E questo qualcosa, altro non era che gli sguardi che si scambiavano. Si guardavano con più audacia, l’uno nascondendo le gote arrossate; l’altro mordicchiandosi, in un tenero imbarazzo, il labbro inferiore.
Il più piccolo pensò che quegli occhi, nonostante fossero grandi per appartenere ad un asiatico, erano davvero belli. Pensò che ci si sarebbe potuto perdere dentro, tanto erano profondi. E pensò che avrebbe voluto vederli ancora. E ancora. E ancora.
Così, quando il più grande voltò lo sguardo, incapace di continuare a scrutare quei due pozzi neri, il più piccolo incrociò forte le dita nascoste nelle tasche: Voltati di nuovo, ti prego.
E, quasi come se avesse letto nel suo pensiero, il ragazzo si voltò. Sorrisero entrambi…un lieve rossore che si faceva strada sulle loro gote.
Ad occhi esterni quella scena sarebbe potuta sembrare strana. Eppure c’era tanta dolcezza nei loro gesti un po’ impacciati e imbarazzati. La gente, quella poca gente che ancora passeggiava, non si curava nemmeno di loro due. Due poveri ragazzi alle prese con nuovi sentimenti.
Il più grande aveva voglia di chiedere a quel ragazzino il suo nome. Eppure non lo fece, rimase in silenzio…per paura. Si, per paura di rompere la magia dei loro incontri. Incontri che non sapeva neppure come erano iniziati. Era semplicemente successo.
Una sera erano lì, seduti entrambi. Ognuno perso nei propri pensieri e nei propri problemi.
Il più grande aveva perso il lavoro, non aveva voglia di cercarne un altro, ma non sapeva come avrebbe potuto mantenersi se fosse rimasto disoccupato.
Il più piccolo aveva appena ricevuto la sua prima delusione d’amore. Il ragazzo di cui era innamorato lo aveva scaricato.
E si erano incontrati. La sera seguente, poi, si erano ritrovati di nuovo lì. Ed era successo la sera dopo. E la sera dopo ancora. Infine era diventato quasi come un appuntamento fisso.
Il più piccolo abbassò lo sguardo, fissandosi le scarpe consunte e con un gesto secco si scompigliò i capelli castani chiari, scoprendo così gli occhi gentili.
Il più grande, ancora con un sorriso ebete in volto, guardò l’orologio e si accorse che mancava poco alle nove. Sarebbe dovuto rientrare in casa, per aiutare la madre con le commissioni e preparare la cena che suo fratello maggiore non aveva mai voglia di cucinare. Anche il più piccolo, seguendo lo sguardo del ragazzo seduto al suo fianco, si mise a fissare le lancette del campanile, con un po’ di tristezza. A breve sarebbe dovuto rientrare in casa, altrimenti suo fratello si sarebbe preoccupato inutilmente.
E, nonostante entrambi dovessero rientrare, rimasero ancora un po’ lì seduti. Un piccolo sorriso ad increspare le loro labbra. Poi, al rintocco del campanile, si alzarono in sincrono. Pronti a rientrare nella loro routine. Il più grande, che non voleva rischiare di perdere di vista quel ragazzino, si morse violentemente il labbro, tanto che sembrava volesse staccarlo e si voltò verso di lui, con sguardo languido.
“C-ci…ci vediamo domani” riuscì a balbettare, imbarazzato, per poi correre nella direzione opposta. Il più piccolo rimase seduto sulla panchina. Adesso, oltre al rumore del vento e della neve che fioccava, nella piccola piazza rimbombava il suono del suo cuore che batteva furioso contro il petto. Gli aveva appena dato appuntamento a domani?
Quel pensiero esplose nel suo cervello, mandandolo in frantumi. Il cuore si fermò, per poi riprendere la sua corsa impazzita, mentre il padrone non sembrava volerne sapere di alzarsi da quella panchina.
Stava così bene lì. Sembrava un mondo a parte: un mondo in cui c’era lui, quel ragazzo, la loro panchina. E quella lampada.
Nient’altro.

  ~ ° ~ ° ~
 
Il campanile nella grande piazza rintoccò per la ventesima volta, quel giorno.
Il ragazzo più piccolo accelerò il passo, sperando di non arrivare in ritardo all’appuntamento e di non aver fatto aspettare il suo ‘amico’. Eppure, quando girò l’angolo e scorse la loro panchina, la vide completamente vuota. Nessun ragazzo ad aspettarlo.
Che sia già andato via?
“Impossibile” biascicò a se stesso, sentendo improvvisamente le gambe molli. Guardò l’orologio che portava al polso: erano appena le otto e cinque.
Non poteva già essersene andato…
Con il cuore che gli martellava in gola prese comunque posto sulla panchina, cominciando a fissare le ultime persone che, uscite dal lavoro, si trascinavano stanche verso casa.  Non aveva senso stare su quella panchina, da solo. Non aveva senso stare lì, senza di lui.
Il ragazzino non sapeva bene cosa provasse per quel ragazzo dai capelli mossi e leggermente lunghi. Non sapeva come era accaduto che, sei mesi prima, avessero cominciato a vedersi tutte le sere. Dalle otto alle nove. Su quella panchina.
Eppure…sapeva che era la cosa più bella che gli sarebbe mai potuta accadere.
Sospirando, si perse ad osservare l’insegna del cinema. Alcune lettere avevano smesso di lampeggiare ormai da tempo e una di esse era addirittura caduta. Ormai della scritta ‘Cinema Maximus’ non era rimasto altro che ‘C…n…ma Max…m…s’.
Sospirò di nuovo e guardò l’orologio: le otto e un quarto.
Dove sei?
 
“Aspettami, ti prego. Sto arrivando.”
Il ragazzo più grande correva come un matto, superava a velocità disarmante i ciclisti, mentre imprecava contro le sue gambe, sforzandole a correre di più. Doveva arrivare prima delle nove. Doveva arrivare prima che fosse stato troppo tardi: prima che quello scricciolo se ne fosse andato.
 
Il ragazzino si passò una mano tra i capelli sottili come fili di grano, sistemandosi la sciarpa attorno al collo. Gli veniva da piangere in quel momento. Si sentiva tradito…d’altronde glielo aveva chiesto lui di vedersi di nuovo. E poi? Poi non si era presentato all’appuntamento.
“Cosa ho fatto di sbagliato?” si chiese, sospirando e incrociando le caviglie. In sei mesi non c’era mai stato un giorno in cui non si erano incontrati. E ora che finalmente erano riusciti a parlarsi, anche se si erano scambiati solo un flebile ‘ciao’, il destino si opponeva a loro, decidendo di non farli incontrare.
Lanciò l’ennesimo sospiro e gettò la testa all’indietro, cominciando ad osservare il cielo. La luna splendeva limpida e il vento che tirava era piuttosto gelido. Eppure il ragazzino non ce la faceva ad alzarsi da quella panchina. Perlomeno…non lo avrebbe fatto fino alle nove. Se poi lui non si sarebbe presentato…beh…non sapeva cosa avrebbe fatto. Forse avrebbe aspettato ancora un po’ o forse sarebbe tornato a casa e magari avrebbe ignorato per sempre quella panchina e quella lampada, che da mesi erano lo sfondo dei loro incontri.
Si mordicchiò il labbro con fare nervoso. Sentiva le farfalle nello stomaco e le mani tremolare al solo pensiero che magari il più grande non sarebbe venuto per davvero. E lui sarebbe stato costretto a dimenticare tutto.
La parte più razionale della sua mente tentava di dirgli che poteva aver avuto un contrattempo. O che, magari c’era traffico. Eppure le lancette che segnavano le otto e mezza lo fecero sprofondare nello sconforto.
Non verrà.
 
“Ma quanto ci mette questo autobus?”
Il più grande batteva con furia il piede a terra, mordendosi l’interno guancia. Guardava l’orologio ogni pochi secondi, sperando che il tempo si fermasse, così da permettergli di arrivare in tempo da quel ragazzino. Erano le otto e mezza. Aveva solo mezz’ora.
Solo una misera mezz’ora.
 
Il più piccolo, dopo aver osservato con spiccato interesse tutte le intarsiature del legno di quella panchina, cominciò a fissare il display del suo cellulare. C’era una sua foto, da piccolo, assieme a suo fratello. Erano abbracciati stretti per riuscire ad entrare nell’obbiettivo e avevano gli occhi felici. Non si ricordava il giorno in cui l’avevano scattata: forse quando erano andati al mare insieme, per la prima volta. O forse quando la mamma li aveva portati in montagna, mentre il papà era rimasto a casa a sbrigare il lavoro accumulato per pagargli quella piccola vacanza. Non era sicuro.
Tanti ricordi erano stati cancellati dalla sua piccola testolina sbadata…persino ricordi importanti. Eppure qualcosa che non sarebbe mai potuto essere rimosso c’era: l’immagine di quel ragazzo alto, moro, ben piazzato e dal sorriso dolce. Quello, ne era sicuro, non se lo sarebbe mai scordato.
Come non avrebbe mai dimenticato le farfalle che gli mangiavano lo stomaco, ogni qual volta quel ragazzo si sedeva affianco a lui. Alle otto di tutti i giorni, il piccolo accoglieva una colonia di falene impazzite tra le pareti dello stomaco.
Sospirò e alzò gli occhi, incontrando le lancette dell’orologio che segnavano le otto e quarantatre. Niente da fare, del gigante buono nemmeno l’ombra.
 
“Non ci posso credere! E’ impossibile! Ci si mette anche l’autobus rotto. Ma perché il destino ce l’ha con me?”
Il ragazzo prese un profondo respiro, per tranquillizzarsi, e scese velocemente da quella scatoletta gialla. Cominciò a correre per le vie della città, cercando di ricordare come si arrivasse alla piazza. Mentre correva guardò l’orologio, segnava le otto e cinquanta. Solo dieci minuti. Aveva solo dieci minuti per arrivare da quello scricciolo. E anche a costo di dover correre alla velocità della luce, lui lo avrebbe fatto. Sarebbe arrivato in tempo.
 
Il ragazzino si rigirò tra le mani il cellulare, sentendolo scivolare sotto i polpastrelli avvolti dalla stoffa dei guanti. Incrociò le gambe e trattenne l’ennesimo sospiro, quando ad un tratto sentì il legno cigolare sotto di lui.
Si voltò con espressione imbronciata, il labbro inferiore sporto in avanti, pronto a sgridare il ragazzo per il ritardo. Purtroppo, però, la persona che si ritrovò affianco non era chi si aspettava.
Era un ragazzo giovane, forse leggermente più grande di lui. Aveva capelli castani, arricchiti da un ciuffo colorato e due occhi dal taglio felino, che lo stavano scrutando. Non erano invasivi, però. Semplicemente, curiosi. Lo guardò ancora un po’, mentre il più piccolo stava combattendo contro l’impulso di chiedergli di alzarsi. In fin dei conti quella panchina era pubblica, non si poteva di certo aspettare che nessuno ci si sedesse. Eppure l’unica cosa che riusciva a pensare era che cosa avrebbe pensato il più grande quando, arrivato, lo avrebbe visto seduto affianco ad un altro. Si, perché il ragazzino, nonostante fossero le nove meno cinque, credeva ancora che lui ce l’avrebbe fatta ad arrivare. Che non lo avrebbe lasciato lì.
Lui sapeva che sarebbe arrivato.
 
Non ce la faceva più. Non solo le gambe, ormai, non gli reggevano. Anche il fiato  era spezzato e strozzato dalla corsa. L’orologio segnava le nove meno cinque e questo poteva significare solo una cosa: il suo piccolo se ne sarebbe andato di lì a breve. Lui non sarebbe arrivato in tempo. E non sarebbe nata nessuna amicizia. Nessuna storia d’amore…
Sforzò le gambe, ma gli mancavano ancora svariati metri per raggiungere la piazza.
“…ti prego. Aspettami”.
 
Quegli occhi felini e tremendamente belli, ormai, non guardavano più lui. Si erano spostati ad osservare la piazza, disperdendosi tra le insegne colorate del bar e della gelateria.
“…anche tu sei qua per motivi di cuore?” gli chiese. Il più piccolo sussultò. Gli veniva quasi innaturale rispondere. Come se, parlando, avrebbe spezzato la magia legata a quella panchina. A quel luogo. Come se stesse tradendo il più grande. Eppure non poteva proprio starsi zitto, sarebbe stata maleducazione! Così optò per una via di mezzo e annuì leggermente.
“Anche io” sospirò il ragazzo dai capelli arcobaleno “…comunque piacere, Kibum” si presentò, porgendogli la mano con aria gentile. Il più piccolo la strinse, facendo un flebile sorriso.
“Piacere…” rispose, evitando di dire il suo nome, e affondò di nuovo il volto nella sciarpa. Ma non perché fosse imbarazzato, affatto. Semplicemente voleva nascondere le lacrime che avevano invaso i suoi occhi scuri, non appena quel rintocco aveva invaso la piazza, riecheggiando nella sua testa. Il ventunesimo rintocco.
Erano le nove.
Erano le nove e lui non era arrivato in tempo. 
 
“Le nove! Le nove! Dai, manca poco. Ce la posso fare!” si incitò il più grande, continuando a dare piccoli pugnetti sulle cosce, sperando che quello bastasse a svegliare le gambe che avevano assunto una consistenza molle. Aprì la bocca per prendere quanta più aria possibile, mentre sentiva i polmoni congelarsi per il freddo, che contrastava la sua temperata corporea decisamente elevata. Digrignò i denti, arrabbiandosi con il suo capo e con l’autobus. Buttò fuori l’aria e sentì una fitta allo sterno. Sperava solo che non sarebbe stato tutto inutile. Sperava solo che lo scricciolo non se ne fosse andato.
 
 
Kibum guardò il più piccolo con uno strano sorriso e il sopracciglio inarcato.
Sbaglio o non mi ha detto come si chiama?
Fece per chiedere spiegazioni, ma la sua voce fu mozzata dalla visione di una figura che correva verso di loro. Strizzò gli occhi, cercando di distinguere quell’ombra avvolta nella nebbia, ma non vide altro che una macchia scura.
“Kibum-ah dove sei?!” urlò ‘l’ombra’. Kibum trasalì stringendo fra loro le candide mani, violacee per il freddo. Era arrivato fin là?
“Qui…Jonghyun…” sospirò e la figura, adesso nitida, si fiondò su di lui, abbracciandolo.
“Non mi far mai più prendere questo spavento. Non importa se litighiamo!” la voce di Jonghyun era rotta dal terrore. Si inginocchiò di fronte a Kibum, prendendogli il volto fra le mani e lasciando un lieve bacio sul naso rosso per il freddo.
“Hai capito? Mai più” ribadì il più grande e, stavolta, le sue labbra scesero a baciare quelle del compagno. Kibum annuì, poggiando le sue manine gelide su quelle di Jonghyun, rispondendo al bacio con passione. E il più piccolo si ritrovò a sorridere, mentre faceva un debole cenno di saluto a quello strano ragazzo, di nome Kibum, che, dopo essersi dato un altro tenero bacio con Jonghyun, si stava allontanando mano nella mano con il suddetto.
Ora era rimasto di nuovo solo. In quella piazza c’erano solo lui, la lampada, la panchina e quello stramaledettissimo orologio che, quasi a volersi prendere gioco di lui, segnava le nove e dieci.
“Non arriverai più vero…?” disse a se stesso, raccattando la tracolla da per terra e passandosela attorno al collo. Doveva tornare a casa. Nonostante sarebbe voluto restare lì, non poteva. Ogni passo sarebbe stato doloroso, lo sapeva benissimo. Eppure rimanere lì…in attesa di quel gigante, beh…sarebbe stato peggio. 
“Sbagli. Sono in ritardo…ma ci sono”.
Al sentire quella voce, il più piccolo si voltò di scatto e arrossì fino alla punta dei capelli. In un gesto involontario affondò il naso nella sciarpa, nascondendo l’espressione gioiosa che gli era spuntata sul viso. Era riuscito ad arrivare. Contro tutte le sue aspettative, il gigante buono era lì.
“C-ciao” balbettò il più piccolo, mordicchiandosi il labbro inferiore, ancora sepolto tra le pieghe della pashmina rossa.
“Scusami, ma l’autobus si è rotto. A lavoro mi hanno trattenuto…e non sono riuscito ad arrivare prima” ansimò, mentre si portava una mano all’altezza del cuore. Il più piccolo notò solo in quel momento i capelli madidi di sudore, attaccati sulla fronte. Che avesse corso…solo per arrivare da lui?
A quel pensiero gli si scaldò il cuore, che prese a battere velocemente mentre le sue mani tremolarono.
“N-non fa niente…” sussurrò il ragazzo, scuotendo la testa in modo che i capelli nascondessero il suo rossore.
“ Hai preso freddo?” chiese il più grande, con fare apprensivo. Il più piccolo scosse la testa.
“Comunque…io sono Taemin” bisbigliò, facendosi piccolo piccolo e contraendo le dita attorno il tessuto dei jeans. A dire la verità lui non era così…timido. Solitamente era esuberante, un po’ sbadato e sempre con il sorriso sulle labbra. Eppure quel ragazzo lo rendeva diverso. Insicuro. Con lui aveva paura di sbagliare…di sembrare troppo. E di sembrare niente.
“Io…io sono Minho” mormorò il gigante –che, finalmente, aveva un nome- abbassando lo sguardo per mascherare quel lieve rossore che aveva imporporato persino le sue guance.
Dopo una frazione di secondo entrambi alzarono lo sguardo e sorrisero apertamente. Taemin liberò, finalmente, la parte inferiore del volto dalla sua sciarpa e Minho poté ammirare quelle labbra perfette distendersi. E il mondo si fermò, lì. In quell’attimo in cui aveva visto quel sorriso.
Non era di circostanza, non era falso. Era, semplicemente, la cosa più bella e perfetta che avesse mai potuto vedere.
“Sono le nove e mezza. Ti va di…di andare a mangiare qualcosa?” balbettò, quando riuscì a formulare una frase di senso compiuto. Quel sorriso lo aveva mandato letteralmente in pappa.
“Si” esalò Taemin, seguendo Minho. Non riusciva a mascherare quel sorriso. Sembrava che le sue labbra avessero subito una strana paralisi.
“Allora…raccontami qualcosa di te…” lo incitò il più grande, camminando piano per permettergli di stare al passo con lui. Taemin scrollò le spalle e si perse ad osservare la piazza diradarsi mano a  mano che si allontanavano. Era una sensazione meravigliosa accorgersi di star camminando con quel ragazzo, al di fuori del loro solito ‘punto di incontro’.
“Ho diciannove anni. Devo iniziare il primo anno di università. Mi chiamo Lee Taemin. Ho un fratello. Mi piace danzare. Mi piace la neve…Ah, dimenticavo sono nato il 18 luglio...” farfugliò, contando le cose che diceva sulla punta delle dita.
“Piano, piano. Vacci piano…” ridacchiò Minho, scompigliandogli leggermente i capelli. Taemin si morse violentemente il labbro, dandosi dell’idiota per aver di nuovo straparlato e, cercando di assumere un tono tranquillo, domandò a Minho di raccontargli qualcosa di lui.
“Vediamo…mi chiamo Choi Minho. Ho ventuno anni e sono al secondo anno di Università, facoltà di ingegneria. Solitamente lavoro in un bar, per arrotondare un po’. E, in questo momento, sto per andare a cena con una persona che incontro da mesi. E sono davvero felice”.
 
 ~ ° ~ ° ~
 
Erano passati due anni da quell’incontro. Adesso Choi Minho e Lee Taemin facevano coppia fissa, ma non avevano mai abbandonato quella panchina che era stata lo sfondo dei loro muti incontri. Passavano lì tutti i giorni, dalle otto alle nove, e continuavano a mandare avanti quella loro strana abitudine.
A volte, con loro, c’erano Jonghyun e Kibum che, come Taemin aveva scoperto, erano due dei più cari amici di Minho. O, altre volte, c’era Lee Jinki, nonché il proprietario del bar in cui le due felici coppiette passavano la maggior parte del loro tempo.
In fin dei conti, però, anche se quella panchina non era più loro, non riuscivano a dispiacersi per questo. Dividere quel luogo, che li aveva fatti conoscere, con le persone a cui volevano bene non era un male. Anzi.
“Minho-ah?” Lee Taemin lo chiamò, avvolgendosi attorno al lenzuolo e rotolando verso di lui. Minho spalancò le braccia e lasciò che il più piccolo ci si accucciasse dentro.
“Dimmi, Minnie”
“Dobbiamo sbrigarci. Kibum e Jonghyun ci aspettano al nostro solito bar” mugolò, attorcigliando le gambe attorno a quelle del suo ragazzo.
“Allora dovremmo alzarci”
“Ma non mi va” protestò il più piccolo. Minho si abbassò e gli lasciò un leggero bacio tra i capelli.
“Vorresti tradire i tuoi amici?”
“No. Voglio passare più tempo con te, però”
“E allora perché non andiamo a vivere insieme?”
Il cuore di Taemin perse un battito, per poi cominciare a galoppare a velocità disarmante. Senza rispondere, scivolò sul corpo di Minho e gli lasciò un bacio appassionato.
“Basta come risposta?” domandò malizioso. Minho gli scostò i capelli dal volto, e lo baciò di nuovo.
“Direi proprio di si. Ora andiamo. Da adesso in poi, avremmo tutta la vita davanti per stare insieme”.

   
 
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