Disclaimer: i personaggi non
sono miei, ma quanto mi ci diverto manco Fujimaki Tadatoshi lo sa.
Info utili: questa pazzia è tutta
colpa delle recenti illustrazioni del character book,
dove sono stati illustrati i membri della Generazione dei Miracoli + Kagami nei
loro probabili lavoro. Kuroko è stato messo insegnante di asilo, e la mia mente
ha fatto il resto.
Sempre nelle stesse illustrazioni, Kagami è raffigurato come un pompiere: in
questo caso me ne sono discostata, perché mentre scrivevo ci vedevo meglio l’opzione
utilizzata.
Note inutili: un giorno il mondo mi
spiegherà perché vorrei scrivere AoKise e finisco a
fare KagamiKuroko, e perché inizio per fare una flashfic scarsa e mi ritrovo 2000 parole di oneshot o giù di lì XD
Spero sia abbastanza demente da essere di vostro gradimento *muore*
Kagami Taiga nella sua vita aveva temuto poche cose,
affrontando ogni sfida che gli si poneva di fronte a testa alta e con coraggio:
non gli era mai importato chi fosse a mettersi sulla sua strada – la Generazione
dei Miracoli o un batuffolo di cane erano, ai suoi occhi, nemici da temere,
rispettare e affrontare allo stesso modo – non si era mai arreso senza
combattere.
Tuttavia, doveva ammettere che c’era una cosa che non aveva mai considerato, un
nemico che si era malignamente insinuato nel suo territorio, che aveva raccolto
informazioni tramite una rete più fitta e invisibile di quella di un ragno; si
era mantenuto indifeso ai suoi occhi, un personaggio marginale e di contorno,
una categoria quasi indifesa.
Aveva fatto il grave errore di cadere in quella trappola ed ora si ritrovava ad
affrontare quello che, forse, poteva considerare il nemico più pericoloso di
cui avesse mai incrociato la strada.
Le madri single.
Sì, perché le donne avevano capacità che gli uomini non potevano nemmeno
vagamente sospettare o intuire, figurarsi renderle inefficaci: tra queste, la
più pericolosa, ossia il potere di – in pochi secondi netti – creare nella propria testa un film mentale la cui unica
base concreta non è che ciò che i loro occhi vedono.
E se questo si riduce a niente più della figura di un povero, giovane uomo
ignaro che varca la soglia di un edificio, ciò diventa ancora più preoccupante.
Kagami Taiga non era pronto.
Affatto.
Non erano situazioni della vita che ti insegnavano ad affrontare.
«Ah, Kagami-kun.» una voce piatta lo raggiunse e si sentì immensamente
sollevato mentre, con espressione burbera, portava una mano a grattarsi appena
la nuca avanzando verso l’ex compagno di squadra, cercando di ignorare gli
sguardi famelici e assetati di notizie che si puntavano su di lui.
Mai sentire la voce di Kuroko fu cosa più apprezzata.
«Ohi.» borbottò una volta che gli fu di fronte, osservandolo; il ragazzo
indossava dei semplici jeans e una maglietta comoda, entrambi parzialmente
coperti da un grembiule verde scuro con il disegno di un girasole all’altezza
del torace.
Solitamente lui non andava a prendere Kuroko al lavoro, più che altro per un
problema di incompatibilità di orari. Contrariamente a quanto ogni persona che
lo avesse conosciuto al liceo avrebbe potuto credere, Kagami aveva continuato
gli studi, andando addirittura all’università: tuttavia, altrettante persone
conoscevano fin troppo bene quanto il suo cervello potesse essere limitato – il
Bakagami
del liceo non lo aveva mai abbandonato, ancora oggi – per cui era ovvio che non
si fosse certo dato alla matematica, tanto per dire. Kagami Taiga era un
onorato studente vicino alla laurea in Scienze Sportive.
Insomma, quello che lo avrebbe portato probabilmente ad insegnare basket, un
giorno: giusto nel dubbio che praticarlo ai livelli a cui lo aveva fatto non
avesse dimostrato abbastanza la sua ossessione nei confronti dello sport.
Ne conseguivano orari terribili che quasi mai combaciavano con quelli dell’altro
giovane, motivo per cui avevano presto capito che fosse il caso di vedersi
direttamente a casa.
Ma non quel giorno, no. Quel giorno lui aveva avuto la brillante idea di
andare.
Ora, la prima volta che entravi in una scuola materna e le mamme che incrociavi
in cortile, dirette a casa con i loro pargoli, si giravano a guardarti, potevi
pensare che fosse perché trovarsi una pertica di uomo di un metro e novanta,
per di più mai visto prima, potesse suscitare almeno curiosità.
Se succedeva una seconda volta, con un principio di inquietudine addosso,
magari ti dicevi che non erano le stesse mamme della prima e che quindi si
trattasse ancora di una mera questione di reazione ad una novità.
Ma la terza volta, quando qualche viso lo avevi almeno presente e te lo
ritrovavi di nuovo a fissarti beh, qualche dubbio te lo ponevi.
Alla quarta iniziavi a temere irrazionalmente la vivisezione – ed era il caso
attuale, per l’appunto.
«Ti manca tanto?» domandò, il tono un po’ brusco dato dal non sentirsi
esattamente a suo agio. Kuroko scosse appena la testa, pur non riuscendo a
mascherare una sfumatura di sottile divertimento nell’espressione: «Le mamme ci
sono tutte, i bambini sono quasi pronti.» assicurò, conscio della collega che –
nell’altra stanza – si occupava di recuperare cartelle e oggetti vari dei più
casinisti, per assicurarsi che non dimenticassero nulla.
«Kuroko-sensei!» si sentì pronunciare, la vocetta infantile che portò entrambi
ad abbassare lo sguardo, inquadrando una bambina che, in quel momento, stava
tirando un lembo della maglia del suddetto ‘maestro’.
Kuroko le sorrise con un incurvarsi di labbra leggero e gentile, piegandosi
sulle ginocchia per essere alla sua stessa altezza: «Cosa c’è, Kasumi-chan?» domandò.
«Takeru mi prende in giro!» si lamentò, mentre il
compagno chiamato in causa si fiondava per difendersi da tali, offensive
calunnie con un faccino tra l’indignato e il tacito ‘buuuh,
sto per mettermi a piangere’.
«Kasumi è una bugiarda! Ho solo detto che sembra una
carota! Non è vero, Kuroko-sensei?!» chiese, aspettandosi che gli desse man
forte. Il ragazzo sospirò appena di fronte ad una scena che si era ormai già
ripetuta chissà quante volte: Takeru era il classico
bambino che prendeva in giro le femmine per partito preso, e Kasumi – che di giapponese aveva solo origini da parte
paterna e il nome – aveva quei capelli rossi solitamente indicati
scherzosamente come “pel di carota”. Il che era stata, evidentemente, una
tentazione troppo forte per il bambino.
«Cosa ti ho già detto, Takeru-kun?» iniziò Kuroko,
con un tono appena più severo «Kasumi-chan ha dei bei
capelli. E poi se devi prenderla in giro perché sembrano troppo rossi per te,
anche Kagami-kun dovrebbe essere preso in giro.» se ne uscì.
E figurati se non mi mette in mezzo!,
sbottò mentalmente Kagami, lanciandogli un’occhiataccia che fu intercettata da
un Takeru che lo fissava.
Kagami lo fissò di rimando. Il moccioso insistette. Kagami non distolse lo
sguardo.
Poi, la tragedia: quando gli occhi di un moccioso cominciano a brillare non è
mai un buon segno.
«Che figo!» se ne uscì e Kagami non seppe se sentirsi
onorato o temere molto la cosa, ma ormai il bambino sembrava partito per la
tangente. Non gli era mai capitato di avere tanto a che fare con i mocciosi le
altre volte che era capitato da quelle parti, forse perché negli altri casi era
arrivato giusto in tempo per incrociare Kuroko e i suoi colleghi in procinto di
andarsene.
Solo in un altro caso aveva incrociato un bambino il cui genitore era in
ritardo, ed era stato già abbastanza traumatico una volta sentirsi chiamare—
«Taiga-nii!»
...Ora sento anche le voci?, si
chiese stupidamente l’attimo prima che qualcosa arpionasse selvaggiamente la
sua gamba. Così, senza ritegno.
Abbassò lo sguardo, riuscendo a riconoscervi una figura umana in formato mignon
e dalla capigliatura mora e scombinata, mentre un faccino anonimo – ma che
presto avrebbe riconosciuto – gli si strusciava contro la coscia, più o meno.
Quando il bambino alzò la testa per osservarlo pieno di mistica ammirazione,
Kagami lo riconobbe come quell’unico caso isolato con cui aveva avuto a che
fare.
Manabu era un moccioso già infoiato dalla più tenera età nel basket, almeno a
giudicare da quando, al loro primo “incontro”, lo aveva indicato come se Kagami
fosse appena sbucato fuori dal camino la notte della Vigilia vestito da Babbo
Natale gridando “Kagami Taiga woooaaah!”.
Il che non aveva lasciato molto spazio ai dubbi.
Allungò una mano a scompigliargli i capelli in maniera goffa, con un mezzo
sorriso, mentre Takeru ripartiva all’attacco: «Ma
Kuroko-sensei, è un rosso diverso quello. Mica è il colore delle carote!»
esclamò, dando a Taiga la profonda soddisfazione di essere stato tirato fuori
dal discorso, oltre che del fatto che Kuroko fosse stato appena zittito da un
ragazzino di sì e no cinque anni, potenzialmente con il moccio al naso.
«Se sei cattivo Kuroko-sensei non ti vorrà più bene!» lo minacciò la bambina –
lo sapeva, le femmine erano cattivissime fin da piccole! – zittendo il
ragazzino per una manciata di secondi nei quali, probabilmente, metabolizzò il
duro colpo.
«Tanto Kuroko-sensei sposerà me perché tu sei racchia!» rimbrottò, e Taiga si
chiese perché un bambino di cinque
anni vuole sposare il suo maestro d’asilo. Ed era così allucinato che non ebbe
nemmeno la forza di sentirsi geloso – insomma, non che un moccioso fosse una
gran minaccia, comunque.
«I maschi non si possono sposare, stupido!» ribatté Kasumi
«E tanto Kuroko-sensei sposerà me!» se ne uscì.
Kagami Taiga era certo che non avrebbe mai avuto figli, il che presupponeva che
non dovesse affatto preoccuparsi di poter o meno avere a che fare con i bambini
a tal punto. Sarebbe bastato insegnare, se proprio fosse finito a farlo a dei
ragazzini, ma non avrebbe mai richiesto il rapporto che si aveva con un
genitore.
Kagami Taiga era cresciuto, maturato, ma cretino era nato e – probabilmente –
cretino sarebbe morto: mettersi a bisticciare con dei bambini della scuola
materna, probabilmente era compreso nel pacchetto.
«Ohi.» richiamò l’attenzione dei due litiganti, nonché dello stesso Kuroko che
stava evidentemente cercando di fare da paciere nel frattempo: «Kuroko-sensei è
impegnato.» se ne uscì, avendo almeno il buon senso di non specificare con chi «E
comunque non gli piacciono i bambini che litigano.» aggiunse, tanto per stare
sicuri.
Occhieggiò quindi Takeru – visto che Kasumi si era appena nascosta dietro le spalle di Kuroko: «Non
è figo che un maschio dica racchia a una femmina.»
concluse, mettendola su un piano diverso.
Tanto parve bastare visto che, seppure imbronciato, Takeru
sbuffò facendo la linguaccia alla bambina e seguì la maestra venuta a
recuperarlo con tanto di cartella da consegnare (insieme al moccioso, sperò) alla
mamma. La bambina ebbe il buon senso di andare dal suo genitore, chiunque egli
o ella fosse, da sola.
«Sei bravo, Kagami-sensei.» lo vezzeggiò ironicamente
Kuroko, mentre percorrevano la via che li avrebbe portati all’appartamento in
cui convivevano.
Kagami alzò gli occhi al cielo prima di dargli uno scappellotto leggero: «E
piantala, mi stavano snervando.» si giustificò soltanto, mentre Kuroko lo
fissava esibendosi in un piatto e per questo più irritante «Ah, Kagami-sensei mi ha picchiato.»
Per il suo bene Taiga decise di lasciar perdere: «Piuttosto, senti un po’»
riprese «non si può fare qualcosa per quelle lì? Mi fissavano come delle pazze!»
se ne uscì.
Kuroko inizialmente parve non capire, ma poi gli scappò quello che Taiga aveva
imparato a riconoscere come uno sbuffo divertito, sebbene sempre meno evidente
di quanto fosse per le altre persone: «Non ci si può fare nulla.» se ne uscì «Perché
pensano che Kagami-kun sia un papà single, quindi vogliono uhm…
catturarti, penso.» disse con tutto il candore del mondo, quasi fosse
assolutamente normale e legittimo.
Kagami lo fissò basito, nonché inquietato. Ma come un padre single?!
«…Parola mia, sono terrificanti.» commentò solo, schiaffandosi
una mano in faccia e concedendosi una manciata di secondi per prendere
coscienza del fatto che sarebbe stato molto più saggio non presentarsi mai più
lì, almeno non quando rischiava di incrociarne qualcuna. Magari si mimetizzava
con il cancello e aspettava Kuroko lì. O dentro una caffetteria nei paraggi –
meglio passare da stalker che un agguato da parte delle signore con pargoli
annessi, si disse.
«Ah, c’è un’altra cosa.» sbottò con il suo solito fare privo di delicatezza;
ormai nei pressi dell’appartamento, occhieggiando velocemente i paraggi, si
chinò appena su Kuroko, abbastanza perché i visi non fossero molto distanti.
Avvicinò una mano al suo volto, tirandogli appena una guancia: «Che è ‘sta
storia del “Kagami-kun”?» se ne uscì.
Kuroko non poté non sorridere, nonostante la guancia presa in ostaggio: era
così da Kagami prendersela per una cosa
simile.
«Ma Kagami-kun è neutrale.» bofonchiò a sua discolpa come se fosse ovvio, la
voce appena meno comprensibile a causa della guancia ancora tirata – seppur piano
– dall’altro.
«Ma chi se ne frega!» sbottò lasciandogliela «Non è che si capisca niente se
usi il nome.» aggiunse spiccio, senza girarci troppo intorno.
«O sarà che non vuoi che i tuoi pretendenti sospettino nulla, Tetsuya-sensei?» aggiunse come provocazione, riferendosi ai
due mocciosi che si litigavano la sua mano – ok, erano solo bambini, ma tanto
per essere chiari col cavolo che glielo lasciava. Solo per dire, ecco.
«…Sei geloso di due bambini?» se ne uscì Kuroko, sorpreso persino considerando
che nulla sembrava mai far venire meno la sua aria placida. Ci furono diversi
istanti di silenzio in cui Kagami si limitò a guardarlo, per poi mollargli un
altro scappellotto.
«Geloso un corno!» sbottò, avviandosi verso la porta, la mano che andava ad
affondare nella tasca della tuta per recuperare le chiavi. Kuroko sorrise,
riconoscendovi un atteggiamento familiare: in questo Taiga non era mai
cambiato.
Sarebbe sempre stato fin troppo trasparente per certe cose.
«Taiga.» lo chiamò mentre un rumore leggero di piatti e stoviglie le une contro
le altre riempiva la cucina, il getto d’acqua aperto a sciacquarne il sapone;
Kagami, seduto sul divano a guardare la tv, le braccia sopra la spalliera del
divano nella sua classica posizione svaccata, inclinò appena la testa indietro
per guardarlo e rispondergli un: «Mh?»
«Stavo pensando» riprese Kuroko «forse dovrei dire alle mamme che non sei un
papà single e che sei impegnato?» domandò, lasciando intendere che non aveva
ancora smentito quell’idea che le signore si erano fatte, cosa che era forse
alla base di molti sguardi che si sarebbe altrimenti risparmiato.
Lo fissò, l’espressione tra l’ebete e il basito, come se non volesse nemmeno
credere che l’altro non lo aveva fatto: e lui che lo aveva rivendicato senza
nemmeno pensarci un attimo!
Era tradimento, questo!
«Diamine, certo che sì!» gli sbraitò contro.