Ringrazio in anticipo tutti coloro che decideranno di leggere questa mia storia.
Ciao e a presto,
Gea
NOTA: questa storia è a rating arancione. Sono presenti accenni di linguaggio volgare, pertanto quei lettori che pensano di poterne rimanere offesi si ritengano avvisati.
Quando
il destino lega il tuo futuro a quello
di un altro, lo senti come una corda muta, che rintocca nei
più profondi
recessi della tua anima. Non fa rumore, ma è
assordate–
Sospirai, il tè
dimenticato affianco alla macchina da scrivere; da ore ero ferma su
quella
stessa maledettissima pagina, le parole ormai confuse nella mia mente.
Con una mano pesante mi
stropicciai gli occhi, stanchi e gonfi, gemendo nel sentire il collo
rigido e
indolenzito. L’orologio segnava le undici e quarantadue di
quel giovedì sera; la
data di scadenza incombeva, ed il manoscritto non era neanche
lontanamente
pronto. Di nuovo.
Qualcuno bussò
alla
porta della mia camera, ed io l’accolsi come un segno del
destino: non avrei
scritto una sola parola di più, non quella sera –
ero troppo esausta, troppo
assonnata, troppo scoraggiata.
- Avanti, - biascicai,
notando solo in quel momento il dolore martellante alle tempie.
Fu la testa riccioluta
di Tina a far capolino dall’uscio, e mi ritrovai a sorridere
mio malgrado. La
nonna era una donna eccentrica, nulla da dire: dalla punta dei suoi
boccoli
bianchi, tirati indietro dall’immancabile fascia fucsia, alla
zeppa di legno
degli zoccoli messicani, Tina era uno “spirito libero e
giovane” – parole sue,
eh.
- Tesoro, -
entrò,
richiudendo piano la porta alle sue spalle, - ancora sveglia?
–
- Hei, - mi lasciai andare
sul materasso, sentendomi un secolo più vecchia dei miei
diciannove anni.
- Le parole verranno da
sole quando sarai pronta, lo sai che è così, - si
sedette accanto a me,
posandomi una mano gentile sul capo. Io sorrisi, perché
quello era l’effetto
che mi faceva mia nonna; a volte pensavo che ci fosse qualcosa di
sbagliato in
noi: non potevo essere io quella giovane.
- Un mese, nonna, -
socchiusi gli occhi, - mi rimane solo un misero mese. –
Lei si mise a ridere,
ed immancabilmente anch’io sorrisi. – Ana, hai
scritto romanzi interi in meno
tempo di così. Solo non è il momento. Devi
svegliarti, ragazza! Sei in stallo.
Ti serve qualcosa che ti scuota, che ti emozioni davvero. –
- Ancora prediche
sull’amore, nonna? Davvero? –
Lei aggrottò le
ciglia,
ed improvvisamente mi ricordai che era vecchia; fu come
un’epifania per me, per
quanto possa sembrare sciocco raccontarlo.
- Non sarai giovane per
sempre, e non desidererai per sempre stare sola. L’amore
arriverà, che tu lo
voglia o meno: è questa la qualità innata dei
sentimenti. –
Ed in un attimo fu come
se di fronte a me non ci fosse più la mia adorata nonna
Tina; era improvvisamente
ritornata Augusta Roma, la scrittrice che aveva fatto emozionare intere
generazioni coi suoi libri. Io li conservavo tutti – lei era
il mio idolo, era
la risposta a tutte quelle sciocche domande che ci si poneva da bimbi:
ma io,
poi, cosa voglio fare da grande? Dacché avevo memoria, io
volevo essere come
mia nonna.
Mia nonna mi aveva
cresciuta, ed era stata il centro del mio mondo sin da quando ero nata.
A sei
anni avevo deciso che sarei stata una scrittrice - proprio come lei - e
quella
sera, tredici anni dopo, mi accorsi per la prima volta di quanto in
fondo,
sotto scorze così differenti, ci somigliassimo –
eravamo due sognatrici, io e
lei, due donne innamorate dell’amore, della favola, e che
nonostante gli anni
scorressero inesorabili sarebbero sempre rimaste giovani
nell’anima. Così mi
sentivo: una bambina, troppo persa a vivere le mie fantasie per
prestare
attenzione al mondo reale.
Sarei stata così,
in
vecchiaia? Come lei? Mi sembrava un pensiero ridicolo, inarrivabile.
Eppure
anche diventare una scrittrice professionista mi era sembrato ridicolo
ed
inarrivabile fino a qualche anno prima.
Naturalmente il merito
era tutto suo, tutto di quella nonna speciale ed un po’ pazza
che mi ritrovavo
ad avere a modello. Le lunghe chiacchierate con lei erano state
l’ispirazione
per il mio primo romanzo, scrittro di getto cinque anni prima; ed era
stata
ancora lei a puntare i piedi a terra ed insistere perché lo
inviassi a tutte le
case editrici che le venissero in mente – in barba il fatto
che io avessi
quindici anni! Avevo o no talento? Lei credeva di sì.
Era stata la mia forza,
ed io, io che avevo un carattere così debole, non potevo
fare altro che
guardarla ardere con fervore e sperare che un giorno, forse, anche io
sarei
stata illuminata da una fiamma così splendente.
- Lo so, - le dissi
solo, e non seppi se sentirmi amareggiata o gioiosa. La stanchezza
infine
prevalse, e la nonna mi lasciò, donandomi un ultimo sorriso
e un bacio di
buonanotte.
Forse non avrei finito
il manoscritto in tempo. Forse. In quel momento, però,
l’unico mio problema era
cercare di tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo da puntare la
sveglia per
la mattina successiva.
- Ehi, grazie per il
posto, non saprei come avrei fatto altrimenti, - mi accasciai sulla
poltrona
nel salotto di Daniele, una birra in mano e la mente in tumulto.
- Nah, figurati. E poi
avevamo bisgno di un cameriere, la sera c’è troppo
casino. –
Osservai quello che
consideravo come un fratello buttarsi sul divano, solo per imprecare
due
secondi dopo, quando si accorse di aver lasciato il telecomando in
cucina.
Scoppiai a ridere, perché quella era una cosa
così tipica di lui da rasentare
il cliché. Mi alzai in piedi, rabbrividendo al contatto del
pavimento con i
miei piedi nudi – le scarpe erano stata la prima cosa che
avevo abbandonato, di
rientro dal pub.
La cosiddetta cucina
era in realtà più un bancone
nell’angolo del salotto – ma tanto Lele non sapeva
sbucciarsi una mela, da solo, figuriamoci fare qualcosa di
così alieno come,
che so, cucinare. A volte pensavo
seriamente che sarebbe morto di fame, non ci fosse stato l’Hooligans al piano di sotto. Abitare
sopra al pub di famiglia gli
aveva salvato la vita – ed il portafogli – nessun
dubbio.
- Da’ qua, - mi
disse,
quando infine tornai con il mio bottino: telecomando e, soprattutto,
due nuove
birre, fredde di frigorifero.
Un altro cliché
della
mia vita? Mezzo irlandese, ed adoravo la birra. Probabilmente il mio
più grande
amore – bhè, magari
il mio più grande
amore dopo la Ducati nel mio
garage.
La mia bambina rappresentava la storia d’amore più
duratura della mia vita: due
mesi di pura ed insormontabile passione.
Lele afferrò
telecomando e birra
perché,
nazionalità a parte, lui amava la bevanda quasi
quanto me.
In televisione non
c’era ovviamente nulla, e questo lo sapevamo entrambi, ma
perché privarsi dell’estremo
piacere di fare zapping per
mezz’ora, solo per accontentarsi alla fine di vedere un film
già visto – non
una, non due, ma tre, e dico tre,
benedettissime volte?
- Naturalmente il fatto
che Brad Pitt stia mostrando il suo derrière al mondo non ha
nulla a che vedere
con la tua scelta di canale, vero? –
Daniele mi lanciò
un’occhiataccia, ma arrossì, il che mi fece
scoppiare a ridere – e quasi
strozzare con un sorso di birra andato di traverso. Quando riuscii a
riprendere
fiato, dopo quella che mi sembrò un’ora di colpi
di tosse, era lui ad avere il
sorriso stampato in viso.
- Il karma, mio caro...
–
- Ma vaffanculo! –
Ridacchiò, e
tornò come
nulla fosse a fare una radiografia alle rotondità
dell’attore, mentre io ancora cercavo di riprendere fiato.
Il mio rapporto con
Lele in parole spicce? Amici nonostante tutto. Era stato qualche anno
prima che
mi aveva confessato - preoccupatissimo a suo dire - di aver scoperto di
essere
bisessuale. Io gli avevo risposto: - Ah, perché, non lo
sapevi? –
- E comunque non
l’ho
scelto per il culo di Brad Pitt. Non c’è niente in
televisione. E, - mandò giù
un sorso di birra, - il fatto che il culo di quel gran figo sia da
oscar non è
colpa mia, Nate. –
Feci una smorfia,
più
per scena che per reale fastidio – no, davvero, se mi avesse
disturbato un
commentino così come accidenti avrei fatto a sopravvivere a
quasi un decennio
di amicizia con quel pazzo? Noi due eravamo semplicemente oltre.
- Dici? Tesoro, il tuo
è totalmente meglio!
– Commentai in
falsetto, sbattendo le ciglia in modo teatrale e gesticolando con le
mani, al
ché Lele scoppiò a ridere. Eh, sì, la
mia imitazione di Marco, sua vecchia
fiamma, riscuoteva sempre tanto successo.
- La finirai mai di
martoriare quel poveraccio? Mica era così male. –
Lo guardai storto, e lui
ridacchiò. – Okay, era un po’ così,
però faceva ridere. –
Innalzai la birra in un
finto brindisi, sorridendo in segno d’assenso,
perché sì, Marco faceva ridere e
mi mancava persino un po’, a volte. Nessuno aveva mai
sopportato le mie prese
per i fondelli tanto di buon grado, ma lui era fatto così:
ci rideva su,
l’autoironia fatta persona. Lo apprezzavo, ecco.
Un quarto d’ora
dopo le
bottiglie di birra erano tristemente vuote, ed il film beatamente privo
di
natiche maschili – non che lo stessi davvero guardando per la
quarta volta,
quel benedetto film. Lele era mezzo addormentato sul divano, ed io mi
sentivo
in dirittura d’arrivo. Con le ultime energie della giornata
mi alzai da quella
poltrona e mi diressi in camera da letto, dove non ebbi alcun rimorso
nel
rubare il letto al mio miglior amico.