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Autore: Gea_Kristh    06/07/2012    0 recensioni
Quando il destino lega il tuo futuro a quello di un altro, lo senti come una corda muta, che rintocca nei più profondi recessi della tua anima.
Ana, diciannove anni, è una scrittrice che ha perso l'ispirazione. Ma cosa accade quando il destino ci mette lo zampino, e lei si trova di fronte un ragazzo che sembra uscito dalla sua immaginazione, tanto somiglia a Caden, il suo protagonista?
Nate, madre irlandese e padre italiano, non avrebbe mai immaginato di rimanere stregato da una timida bellezza come quella di Ana. C'è solo un problema: lei non sembra avere intenzione di parlargli.
Può davvero il destino intrecciare le trame di due vite così distanti l'una dall'altra? Forse... Forse sì.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Dopo tanto, troppo tempo eccomi tornata a scrivere! Non so bene come questa cosa mi sia balzata in mente, so solo che stavo facendo la doccia e... era lì.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che decideranno di leggere questa mia storia.
Ciao e a presto,
Gea

NOTA: questa storia è a rating arancione. Sono presenti accenni di linguaggio volgare, pertanto quei lettori che pensano di poterne rimanere offesi si ritengano avvisati.

Dove Volano Gli Angeli

La Mente di Lei

 Quando il destino lega il tuo futuro a quello di un altro, lo senti come una corda muta, che rintocca nei più profondi recessi della tua anima. Non fa rumore, ma è assordate–

 Sospirai, il tè dimenticato affianco alla macchina da scrivere; da ore ero ferma su quella stessa maledettissima pagina, le parole ormai confuse nella mia mente.

 Con una mano pesante mi stropicciai gli occhi, stanchi e gonfi, gemendo nel sentire il collo rigido e indolenzito. L’orologio segnava le undici e quarantadue di quel giovedì sera; la data di scadenza incombeva, ed il manoscritto non era neanche lontanamente pronto. Di nuovo.

 Qualcuno bussò alla porta della mia camera, ed io l’accolsi come un segno del destino: non avrei scritto una sola parola di più, non quella sera – ero troppo esausta, troppo assonnata, troppo scoraggiata.

 - Avanti, - biascicai, notando solo in quel momento il dolore martellante alle tempie.

 Fu la testa riccioluta di Tina a far capolino dall’uscio, e mi ritrovai a sorridere mio malgrado. La nonna era una donna eccentrica, nulla da dire: dalla punta dei suoi boccoli bianchi, tirati indietro dall’immancabile fascia fucsia, alla zeppa di legno degli zoccoli messicani, Tina era uno “spirito libero e giovane” – parole sue, eh.

 - Tesoro, - entrò, richiudendo piano la porta alle sue spalle, - ancora sveglia? –

 - Hei, - mi lasciai andare sul materasso, sentendomi un secolo più vecchia dei miei diciannove anni.

 - Le parole verranno da sole quando sarai pronta, lo sai che è così, - si sedette accanto a me, posandomi una mano gentile sul capo. Io sorrisi, perché quello era l’effetto che mi faceva mia nonna; a volte pensavo che ci fosse qualcosa di sbagliato in noi: non potevo essere io quella giovane.

 - Un mese, nonna, - socchiusi gli occhi, - mi rimane solo un misero mese. –

 Lei si mise a ridere, ed immancabilmente anch’io sorrisi. – Ana, hai scritto romanzi interi in meno tempo di così. Solo non è il momento. Devi svegliarti, ragazza! Sei in stallo. Ti serve qualcosa che ti scuota, che ti emozioni davvero. –

 - Ancora prediche sull’amore, nonna? Davvero? –

 Lei aggrottò le ciglia, ed improvvisamente mi ricordai che era vecchia; fu come un’epifania per me, per quanto possa sembrare sciocco raccontarlo.

 - Non sarai giovane per sempre, e non desidererai per sempre stare sola. L’amore arriverà, che tu lo voglia o meno: è questa la qualità innata dei sentimenti. –

 Ed in un attimo fu come se di fronte a me non ci fosse più la mia adorata nonna Tina; era improvvisamente ritornata Augusta Roma, la scrittrice che aveva fatto emozionare intere generazioni coi suoi libri. Io li conservavo tutti – lei era il mio idolo, era la risposta a tutte quelle sciocche domande che ci si poneva da bimbi: ma io, poi, cosa voglio fare da grande? Dacché avevo memoria, io volevo essere come mia nonna.

 Mia nonna mi aveva cresciuta, ed era stata il centro del mio mondo sin da quando ero nata. A sei anni avevo deciso che sarei stata una scrittrice - proprio come lei - e quella sera, tredici anni dopo, mi accorsi per la prima volta di quanto in fondo, sotto scorze così differenti, ci somigliassimo – eravamo due sognatrici, io e lei, due donne innamorate dell’amore, della favola, e che nonostante gli anni scorressero inesorabili sarebbero sempre rimaste giovani nell’anima. Così mi sentivo: una bambina, troppo persa a vivere le mie fantasie per prestare attenzione al mondo reale.

 Sarei stata così, in vecchiaia? Come lei? Mi sembrava un pensiero ridicolo, inarrivabile. Eppure anche diventare una scrittrice professionista mi era sembrato ridicolo ed inarrivabile fino a qualche anno prima.

 Naturalmente il merito era tutto suo, tutto di quella nonna speciale ed un po’ pazza che mi ritrovavo ad avere a modello. Le lunghe chiacchierate con lei erano state l’ispirazione per il mio primo romanzo, scrittro di getto cinque anni prima; ed era stata ancora lei a puntare i piedi a terra ed insistere perché lo inviassi a tutte le case editrici che le venissero in mente – in barba il fatto che io avessi quindici anni! Avevo o no talento? Lei credeva di sì.

 Era stata la mia forza, ed io, io che avevo un carattere così debole, non potevo fare altro che guardarla ardere con fervore e sperare che un giorno, forse, anche io sarei stata illuminata da una fiamma così splendente.

 - Lo so, - le dissi solo, e non seppi se sentirmi amareggiata o gioiosa. La stanchezza infine prevalse, e la nonna mi lasciò, donandomi un ultimo sorriso e un bacio di buonanotte.

 Forse non avrei finito il manoscritto in tempo. Forse. In quel momento, però, l’unico mio problema era cercare di tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo da puntare la sveglia per la mattina successiva.


La Vita di Lui

 - Ehi, grazie per il posto, non saprei come avrei fatto altrimenti, - mi accasciai sulla poltrona nel salotto di Daniele, una birra in mano e la mente in tumulto.

 - Nah, figurati. E poi avevamo bisgno di un cameriere, la sera c’è troppo casino. –

 Osservai quello che consideravo come un fratello buttarsi sul divano, solo per imprecare due secondi dopo, quando si accorse di aver lasciato il telecomando in cucina. Scoppiai a ridere, perché quella era una cosa così tipica di lui da rasentare il cliché. Mi alzai in piedi, rabbrividendo al contatto del pavimento con i miei piedi nudi – le scarpe erano stata la prima cosa che avevo abbandonato, di rientro dal pub.

 La cosiddetta cucina era in realtà più un bancone nell’angolo del salotto – ma tanto Lele non sapeva sbucciarsi una mela, da solo, figuriamoci fare qualcosa di così alieno come, che so, cucinare. A volte pensavo seriamente che sarebbe morto di fame, non ci fosse stato l’Hooligans al piano di sotto. Abitare sopra al pub di famiglia gli aveva salvato la vita – ed il portafogli – nessun dubbio.

 - Da’ qua, - mi disse, quando infine tornai con il mio bottino: telecomando e, soprattutto, due nuove birre, fredde di frigorifero.

 Un altro cliché della mia vita? Mezzo irlandese, ed adoravo la birra. Probabilmente il mio più grande amore – bhè, magari il mio più grande amore dopo la Ducati nel mio garage. La mia bambina rappresentava la storia d’amore più duratura della mia vita: due mesi di pura ed insormontabile passione.

 Lele afferrò telecomando e birra perché, nazionalità a parte, lui amava la bevanda quasi quanto me.

 In televisione non c’era ovviamente nulla, e questo lo sapevamo entrambi, ma perché privarsi dell’estremo piacere di fare zapping per mezz’ora, solo per accontentarsi alla fine di vedere un film già visto – non una, non due, ma tre, e dico tre, benedettissime volte?

 - Naturalmente il fatto che Brad Pitt stia mostrando il suo derrière al mondo non ha nulla a che vedere con la tua scelta di canale, vero? –

 Daniele mi lanciò un’occhiataccia, ma arrossì, il che mi fece scoppiare a ridere – e quasi strozzare con un sorso di birra andato di traverso. Quando riuscii a riprendere fiato, dopo quella che mi sembrò un’ora di colpi di tosse, era lui ad avere il sorriso stampato in viso.

 - Il karma, mio caro... –

 - Ma vaffanculo! –

 Ridacchiò, e tornò come nulla fosse a fare una radiografia alle rotondità dell’attore, mentre io ancora cercavo di riprendere fiato.

 Il mio rapporto con Lele in parole spicce? Amici nonostante tutto. Era stato qualche anno prima che mi aveva confessato - preoccupatissimo a suo dire - di aver scoperto di essere bisessuale. Io gli avevo risposto: - Ah, perché, non lo sapevi? –

 - E comunque non l’ho scelto per il culo di Brad Pitt. Non c’è niente in televisione. E, - mandò giù un sorso di birra, - il fatto che il culo di quel gran figo sia da oscar non è colpa mia, Nate. –

 Feci una smorfia, più per scena che per reale fastidio – no, davvero, se mi avesse disturbato un commentino così come accidenti avrei fatto a sopravvivere a quasi un decennio di amicizia con quel pazzo? Noi due eravamo semplicemente oltre.

 - Dici? Tesoro, il tuo è totalmente meglio! – Commentai in falsetto, sbattendo le ciglia in modo teatrale e gesticolando con le mani, al ché Lele scoppiò a ridere. Eh, sì, la mia imitazione di Marco, sua vecchia fiamma, riscuoteva sempre tanto successo.

 - La finirai mai di martoriare quel poveraccio? Mica era così male. – Lo guardai storto, e lui ridacchiò. – Okay, era un po’ così, però faceva ridere. –

 Innalzai la birra in un finto brindisi, sorridendo in segno d’assenso, perché sì, Marco faceva ridere e mi mancava persino un po’, a volte. Nessuno aveva mai sopportato le mie prese per i fondelli tanto di buon grado, ma lui era fatto così: ci rideva su, l’autoironia fatta persona. Lo apprezzavo, ecco.

 Un quarto d’ora dopo le bottiglie di birra erano tristemente vuote, ed il film beatamente privo di natiche maschili – non che lo stessi davvero guardando per la quarta volta, quel benedetto film. Lele era mezzo addormentato sul divano, ed io mi sentivo in dirittura d’arrivo. Con le ultime energie della giornata mi alzai da quella poltrona e mi diressi in camera da letto, dove non ebbi alcun rimorso nel rubare il letto al mio miglior amico.

   
 
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