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Autore: logosandpathos    07/07/2012    1 recensioni
Erano solo i gemiti degli amanti a scandire i secondi nel silenzio dell’appartamento a Harrow Road e, mentre raggiungeva l’amplesso, Sherlock sapeva già che quella volta sarebbe stata l’ultima, quindi la assaporò melanconico, pregustando sin da allora il momento in cui la carne ne avrebbe sentito la mancanza più dello spirito. Colse la bellezza delle sue palpebre chiuse, ascoltò le sinfonie in battere e levare che i polmoni e il cuore si divertivano a comporre in parallelo, gareggiando per stabilire chi fosse riuscito a creare il ritmo più ipnotico; memorizzò il modo in cui le labbra serrate si schiudevano nel sorriso più dolce che avesse mai visto; inspirò a fondo il profumo dei suoi capelli e con le dita tracciò il contorno del suo volto.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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White lies.

 

« …Et il est parti 
sous la pluie, 
sans une parole, 
sans me regarder.

Et moi, j'ai pris 
ma tête dans ma main 
et j'ai pleuré.
 »
J. Prévert – “Déjeuner du matin”

 
“First love grows and then it dies, and it’s all white lies.”
A Valeria.

 
Marzo 2010.
Mentre John si lanciava su Jim afferrandolo per il collo, con la minaccia di farlo saltare in aria insieme a lui, Sherlock vide il passato ed il presente fondersi in una scarica emotiva così potente da dargli le vertigini. Fece tremare per un attimo la mano che teneva la pistola puntata contro l’uomo nel costoso completo elegante, ma il tremito non passò inosservato. Il dinamitardo aveva notato il modo appena percettibile in cui Sherlock Holmes aveva vacillato e ne aveva riso di gusto.
« Non è dolcissimo? Capisco perché ti piace averlo accanto. Ma poi le persone si affezionano troppo ai loro animaletti domestici, Sherlock. »
E il detective seppe per certo che non sarebbe mai stato capace di uccidere quel pazzo criminale, perché quel folle, tenuto fermo dalle forti braccia dall’ormai unico uomo davvero importante nella vita di Sherlock, era stato una volta il più importante di tutti.
 
Novembre 1989.
Erano solo i gemiti degli amanti a scandire i secondi nel silenzio dell’appartamento a Harrow Road e, mentre raggiungeva l’amplesso, Sherlock sapeva già che quella volta sarebbe stata l’ultima, quindi la assaporò melanconico, pregustando sin da allora il momento in cui la carne ne avrebbe sentito la mancanza più dello spirito. Colse la bellezza delle sue palpebre chiuse, ascoltò le sinfonie in battere e levare che i polmoni e il cuore si divertivano a comporre in parallelo, gareggiando per stabilire chi fosse riuscito a creare il ritmo più ipnotico; memorizzò il modo in cui le labbra serrate si schiudevano nel sorriso più dolce che avesse mai visto; inspirò a fondo il profumo dei suoi capelli e con le dita tracciò il contorno del suo volto. Era tutto così statico, celestiale, irraggiungibile nella sua perfezione, che riusciva a contare i granelli di polvere nell’aria; riusciva a percepire la solitudine che l’abbandono di quella stanza calda e buia avrebbe comportato. Si sentì inutile e indegno dell’amore di una creatura così eterea come quella che si era appena accasciata con la testa sul suo petto, il quale continuava ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più lentamente, fino a trovare una cadenza regolare.
« Sher… » mormorò una voce ancora ansante.
« Mh…? » fu il mugugno interrogativo che ricevette in risposta.
« …ti amo. »
Il colpo più forte al centro del cuore. Lo amava anche lui, era ovvio, ma non era possibile. Non lo era davvero. Non potevano loro e i loro corpi da sedicenni. Non potevano nella stanza di Jim mentre i suoi genitori erano via. Proprio non potevano fare l’amore ignorando i rischi e le conseguenze dei loro piaceri.
« Ti amo anche io, James » gli sussurrò tra i capelli, sollevando leggermente la testa per baciarli. E le mani si cercarono e si intrecciarono in un gesto primitivo, un gesto romantico e semplice. “Un gesto significativo” penso Sherlock e, per questo, si ritrasse dalla delicata stretta delle palme giunte, delle dita annodate.
Jim si stava ancora sistemando la cintura, mentre lui frugava tra le scatole di cereali e di biscotti nella credenza della cucina.
« Oh Jim, possibile che in casa dei tuoi esista solo cibo integrale? » piagnucolò il ragazzo, insofferente.
« Lo sai com’è mia madre… » tentò di giustificarsi l’altro.
« Già – confermò sbuffando Sherlock, epigrafico – Hai almeno il latte? » chiese continuando a rovistare senza troppi complimenti nel frigorifero, spostando rumorosamente tutti i contenitori che si frapponevano tra lui e l’oggetto delle sue ricerche.
« Non ne beviamo visto che mia madre è vegana, lo sai. E poi scusami – lo canzonò Jim – ma se dopo che siamo andati a letto insieme hai bisogno di latte e biscotti, potresti portarteli da casa! »
Un’occhiata decisamente eloquente di Sherlock lo zittì all’istante, ma il silenzio tra i due durò solo qualche frazione di secondo, perché il rumore delle chiavi nella serratura li mise sull’attenti. Si scambiarono un rapido bacio sulle labbra, poi la voce a tratti stridula della mamma di Jim echeggiò tra le mura domestiche: « Jimmy, ci sei? Sono tornata! »
« Sì mamma! Sono qui, in cucina – replicò il figlio, con un tono piuttosto seccato – C’è anche Sherlock. »
« Oh, ciao Sherlock caro! – squittì la donna passando di fronte alla porta della cucina mentre si sfilava il cappotto – desideri una tazza di tè? »
« Non si preoccupi, signora Moriarty, l’ho già preso venendo qui. Troppa teina mi rende nervoso » replicò il giovane, passandosi la mano tra i capelli.
« Se cambi idea, credo tu sappia dove trovarlo. Ormai casa nostra non ha più segreti per te, eh? » fece la donna, senza alcuna intenzione di voler essere maliziosa, ma provocando invece in Sherlock una morsa allo stomaco che gli fece venire voglia di piangere e di vomitare tutto ciò che aveva mangiato negli ultimi giorni. Con un sospiro, tentò di ignorare il magone che si era impadronito della sua gola secca. Riuscì solo a bofonchiare qualche parola di assenso e poi raccolse in fretta il suo zaino, rimettendo dentro tutti i libri e le matite sparpagliate sul tavolo solo per fare scena. Più i suoi movimenti acceleravano, più ogni suo gesto si faceva nervoso e febbrile, più non riusciva più a tenere dietro le lacrime. Quanto stava per diventare insignificante ora quel “ti amo” sussurrato poco prima. I secondi non accennavano a dilatarsi, anzi sembravano presi da una certa foga di sfuggire dalla concezione del tempo come acqua tra le mani. Si alzò in piedi con uno scatto e glissò abilmente il tentativo di Jim di donargli ancora un bacio. Lo abbracciò stretto, inspirando forte la fragranza della sua pelle. Si scusò mentalmente di un dolore che ancora non gli aveva inflitto e disse addio al loro amore così, baciando la fronte liscia dell’esile uomo che teneva tra le braccia e sapendo già cosa lo aspettava a casa.
 
Ottobre 1989
« Io so » disse con una voce glaciale.
« Tu sai cosa, Mycroft? – chiese il secondo ridacchiando – Cosa hanno scoperto le tue grandiose abilità deduttive? Che oggi ho marinato la scuola? »
« Esatto » gli rispose, senza scomporsi davanti allo scherno nella voce del fratello.
« Beh, non ti disturbare troppo a fare lo spione con mamma, perché ho intenzione di dirglielo io stesso » fu la secca replica del ragazzo, che si girò verso la porta per uscire dalla stanza.
« Le dirai anche che hai bigiato per andare a casa di Jim a fare sesso? »
Sherlock rimase pietrificato a contare gli infiniti brividi che gli correvano lungo tutta la spina dorsale, a chiedersi come fosse possibile che il fratello l’avesse scoperto.
« Nel caso tu ti stia chiedendo come faccia a saperlo, ci tengo a dirti che era palese giù da qualche tempo la tua omosessualità. E, Sherlock, sei sempre stato un pessimo bugiardo. Sin da bambino. »
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo carico di un odio puro e fuori controllo. Mycroft, per la prima volta nella sua vita, si sentì pericolosamente minacciato.
« Perché dovresti farlo? » gli domandò poi, mettendo per un attimo da parte quella prorompente voglia di prenderlo per i capelli e sbattergli violentemente la testa contro il muro.
« Per tutelarti, fratellino. Mi sembra ovvio » affermò il fratello.
« Per tutelare il nome della nostra famiglia e la tua nascente carriera nei servizi segreti! – gridò Sherlock, ormai troppo disperato per darsi un contegno – Perché in questa Inghilterra del cazzo l’accettazione dell’omosessualità è solamente di facciata, non è vero? »
« Vedo che riesci a capire le cose in fretta. Forse non tutto è perduto con te. »
« Non lo fare, Mycroft, ti prego » quella supplica così innaturale per lui sgorgò dalla sua bocca invece con una facilità disarmante e lo fece sentire quasi spossato.
« Ti do tempo un mese per smetterla, Sherlock. Altrimenti lo dirò io stesso alla mamma. »
« Bene – fece il più giovane, sibilando a denti stretti – ma sappi Mycroft, e te lo dico da fratello, che sei molto più frocio di me. Sei infinitamente più frocio di me. »
 
Novembre 1989
Se li ritrovò davanti tutti e due, seduti sul vecchio e costoso sofà nel salotto. In un altro contesto, forse avrebbero fatto l’effetto di una madre ed un figlio che si vogliono bene e che passano il pomeriggio a conversare davanti al caminetto, ma il silenzio tombale che regnava tra i due suggeriva rapporti decisamente tesi a cui si era deciso di mettere una tregua momentanea per il bene di entrambi. La penombra che regnava nell’ampia sala, rischiarata solo dal fuoco, rendeva per Sherlock ancora più difficile sopportare la situazione di giudizio a cui lo avrebbero sottoposto.
Decise di recitare la sua parte e fingere di non sapere il motivo di quella commovente riunione di famiglia, ma Mycroft aveva ragione: non aveva talento nel dire bugie.
« Mamma… mi volevi parlare? »
« Sei stato da Jim, vero? » domandò lei, diretta ma con la voce tremante. Il figlio decise di non cedere subito, ma di provare a mentire prima di capitolare, solo per farle capire che non si sarebbe arreso senza combattere.
« Sì mamma, te l’avevo detto, ricordi? Dovevamo studiare per quel test di… »
« Bugiardo! – alzò la voce lei, interrompendolo bruscamente – Sono molto più intelligente di quanto non ti faccia piacere credere, Sherlock. »
Lo sguardo avvelenato dell’imputato si posò sul fratello che sedeva rigido accanto alla madre, con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia.
« Alla fine glielo hai detto. »
« Ovviamente – confermò lui – Te lo avevo promesso. »
« Quindi ora cosa devo fare? Andarmene di casa? Trovarmi una nuova famiglia? Rinunciare a tutti i miei beni? »
« Oh Sherlock, sei sempre molto più teatrale di quanto venga imposto dalle circostanze » disse Mycroft, divertito.
« Da quanto tempo va avanti questa storia? » si intromise la madre.
« Da quasi un anno e mezzo. »
« Bene. Devi lasciarlo » sentenziò, mantenendo un’intonazione piatta e un portamento pieno di compostezza.
« Altrimenti? » la provocò lui.
« Altrimenti sarò costretta a dirlo a tuo padre. »
A sedici anni Sherlock aveva ancora paura del padre. Aveva paura delle sue mani, che somigliavano tanto alle sue, affusolate e morbide, ma che avevano molta più forza; aveva paura del suo sguardo accigliato e pieno di riprovazione ogni volta che qualcosa non gli andava a genio; aveva paura persino della sua voce, estremamente melliflua e letale, e del suo modo di utilizzare le parole in modo decisamente affilato. Sherlock non aveva mai provato affetto per i componenti della sua famiglia, ma quello che sentiva per il padre non era solo disprezzo: era l’angoscia del terrore.
Cadde a terra in ginocchio accanto al divano. « Non potete, non potete! » continuava a pregare, ma la mamma gli passò la mano tra i capelli e sussurrò: « È per il tuo bene, amore mio » e, dopo avergli dato un bacio sulla testa riccioluta, si alzò e lasciò la stanza.
Quando finalmente anche Mycroft uscì, aveva il naso sanguinante e, probabilmente, una costola incrinata.
Per un paio di giorni Sherlock saltò la scuola e rimase rintanato sotto le coperte, rifiutando di mangiare e di rispondere a qualsiasi telefonata di Jim che la madre gli passava con occhi severi. In quelle quarantotto ore fu sicuro, più di una volta, di essere sull’orlo della pazzia. Le crisi di pianto lo lasciavano stanco e spossato e cadeva continuamente in un sonno breve e troppo movimentato per poter essere riposante. La camera ormai era pervasa da un insopportabile tanfo di chiuso, ma per il ragazzo non faceva molta differenza, infatti non alzò le serrande e non aprì le finestre fino all’inizio del terzo giorno, quando ormai gli occhi non erano più rossi e gonfi di lacrime e la fame non era più ignorabile.
La prima cosa che fece, però, ancora prima di mettere qualcosa sotto i denti o di lavarsi, fu chiamare Jim e chiedergli di vedersi per parlare. E intanto, il primo fiocco di neve, annunciava l’arrivo di dicembre.
 
Dicembre 1989
Sherlock gli spiegò la situazione con calma, mentre si metteva lo zucchero nel caffè, versava il latte e mescolava tutto, per poi sorseggiarlo lentamente. Stava cercando di apparire distaccato, sperando che ciò avrebbe reso più facile la separazione, ma non lo fece.
Jim lo osservava con sguardo assente mentre fiumi di parole gli uscivano dalla bocca, straripanti di disgustosa autocommiserazione e poi scuse, scuse e ancora scuse. Non riusciva nemmeno a sentirsi arrabbiato, dopo quel pugno allo stomaco. Sapeva per certo che la sofferenza sarebbe arrivata dopo, con una potenza inaudita. La stessa inimmaginabile potenza di quel discorso insulso che il suo ormai ex ragazzo si ostinava a portare avanti, senza mai guardarlo negli occhi. Un fulmine a ciel sereno, dato che solo quattro giorni prima la loro storia sembrava un idillio senza fine.
Continuò a stare in silenzio, perché era l’unica cosa che lo faceva stare davvero bene: il silenzio mentale.
Intanto fuori dal bar la pioggia sembrava essere inarrestabile. “Oh, fanculo” pensò lui e smise di ascoltare, stavolta definitivamente.
« Tutto qui? » chiese poi, quando fu palese che le lagne compunte ma pur sempre discrete del suo interlocutore si erano concluse.
« Tutto qui » rispose l’altro, passandosi il dorso della mano sugli zigomi leggermente umidi e tirando fuori una sigaretta dalla tasca del cappotto, quindi uscì senza voltarsi. Si tirò tu il bavero del cappotto e sparì nella pioggia.
Jim, da dentro il bar, mise la testa tra le mani e cominciò a sentire dolore.
 
Lo sbatté contro il muro con una tale foga da lasciargli la schiena indolenzita. Aveva un sorriso inquietante stampato in faccia e i suoi amici gli stavano intorno con la loro aria da duri.
« Quindi sei un frocetto, eh? Vero Jim, che sei un frocetto? – gli chiese tenendolo fermo – E dimmi, quante volte te lo sei menato pensando a noi? »
Dietro, tutti continuavano a ripetere: « Sì Jim, ti toccavi, pensando a noi, eh? »
Lui, completamente bloccato, sussurrò: « Vaffanculo, Powers. Non mi toccare con quelle tue mani da lebbroso. »
« Avete sentito, ragazzi? Il frocio mi ha dato del lebbroso! » e giù un pugno, mentre Jim con un rantolo si piegava sulle ginocchia. L’ultima cosa che vide furono le sue costose scarpe da ginnastica avvicinarsi troppo velocemente al suo volto.
I piedi dei suoi compagni di nuoto non furono clementi con lui, colpendolo al naso, alla milza, al mento, rompendo le ossa, lacerando la carne.
« Carl! Carl, smettila! – gridò poi un ragazzo – lo ucciderai! Sta perdendo troppo sangue! »
E, spaventati dalle conseguenze, corsero via tutti in massa, senza chiamare aiuto, lasciandolo a terra privo di sensi e con parecchie ossa fratturate.
Quando gli addetti alle pulizie lo ritrovarono giaceva in una pozza di sangue accanto alla piscina: era vivo, ma tremava e non riusciva a parlare. Dopo i tre giorni di ricovero in ospedale, l’unica cosa che il suo cervello riusciva a concepire era la vendetta.
 
Jim Moriarty era sempre stato un ragazzo particolarmente dedito all’osservazione, un dote fondamentale per chi cerca un regolamento di conti. La sera dello stesso giorno in cui fu dimesso, ignorando totalmente la madre e gli agenti di polizia che lo pregavano l’una di riposare e gli altri di fare il nome degli aggressori, si chiuse a chiave in camera sua, ma solo per uscire dalla finestra e recarsi in piscina. Negli spogliatoi, sbloccò con un paio di scatti l’armadietto di Carl e trovò quello che cercava: i farmaci contro l’eczema che Powers conservava lì nel caso avesse dimenticato di portarli da casa. Fece scivolare il veleno – clostridium botulinum – in ogni boccetta, in ogni tubetto. Poi richiuse tutto con cura, spense la torcia e sgattaiolò via dall’edificio nello stesso modo silenzioso e furtivo con cui era entrato.
 
Gennaio 1990
« Vi dico che è stato ucciso, per l’amor del cielo! Come diavolo fate ad essere così ciechi? » sbraitava il ragazzo di fronte ai poliziotti.
« Sono trent’anni che lavoro in questo ufficio, signor Holmes, e mai un mocciosetto si era permesso di darmi consulenze investigative! » esclamò l’altro, non riuscendo a trattenersi dal gridare.
« Beh, dovrete darmi ascolto, per una volta, perché sono sulla pista giusta! Ho delle prove ad avvalorare la mia tesi, ho fatto… »
« Fuori di qui, Holmes, o saremo costretti a farla uscire con le cattive! » minacciò il commissario, digrignando i denti.
« Ma… »
« Ho detto: fuori! »
Sherlock non avrebbe mai accettato di essere scortato fuori nel modo in cui lo intendeva la polizia: preso per le braccia e lanciato via come un sacco dell’immondizia; quindi girò i tacchi e se ne andò sulle proprie gambe, senza degnare di uno sguardo quegli imbecilli, mentre si infilava i guanti neri di pelle.
“Come si può essere più ottusi? – pensava il giovane – Hanno tutti gli indizi per poterlo considerare omicidio, a partire dal fatto che le scarpe di Powers sono scomparse. Ma cosa c’entrano le sue scarpe? Cosa?”
All’avanzare del suo diciassettesimo anno di età, Sherlock Holmes si accingeva a diventare l’uomo che avrebbe sovvertito ogni regola dell’investigazione. Ed era partito tutto da quel piccolo caso, la misteriosa morte di Carl Powers, avvelenato da un’intossicazione alimentare e rimasto a piedi scalzi.
 
 Marzo 2010.
« Avrai mie notizie, Sherlock. Te lo assicuro. »
Jim uscì dalla stanza con un gran rumore di passi, una cadenza lenta come erano lenti i battiti del cuore del detective. Si girò verso John, che lo guardava con uno sguardo pieno di domande e di sincera apprensione.
« Un vecchio… amico. »
Il soldato si alzò in piedi, lo guardò dritto negli occhi e proferì, in tono solenne: « Se tutti i tuoi amici, più avanti nel tempo, diventano degli psicopatici con gravi disturbi della personalità, forse per il mio bene dovrei allontanarmi da te. »
Sherlock sgranò gli occhi, seriamente spaventato dalle parole del coinquilino, ma una fragorosa risata dissipò ogni suo timore: John era lì, accanto a lui, e Sherlock giurò a Dio o a chi per lui, per la prima volta nella sua vita al cospetto di qualche entità superiore, che non lo avrebbe mai lasciato andare, per nulla al mondo. Non poteva immaginare che la sua promessa sarebbe stata spezzata in poco tempo.
   
 
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