Storie originali > Commedia
Segui la storia  |      
Autore: Elenoir De la Blache    08/07/2012    0 recensioni
Amelia è stata lasciata. Amelia ha il nome sfigato di un'eroina sfigata di un romanzo-mattone, e sarà per questo che è un po' sfigata anche lei. Amelia vuole partire, ma non sa per dove. Sa solo una cosa: deve cercare Marie, perché è lei la chiave di tutto. Chiunque sia questa Marie.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic

1.

 
Bonjour tristesse. Le file di lampioni accesi e spenti sulla strada e l’asfalto che scorre sotto le ruote. L’autobus è pieno della puzza stratificata di tutta una giornata di uomini in giacca e cravatta, vecchiette col carrello della spesa, bambini con la tuta da calcetto. Poi io. Adesso che è notte e l’ultima corsa sta arrivando al capolinea e ci sono solo io. Bonne nuit, tristesse. Affondo il naso nel polso per sentire un odore che non sia sudore, ma do di sudore anch’io, ormai.
E non ho pianto. La cosa che ci si aspetterebbe da me in una situazione del genere sarebbe proprio questa, che io piangessi a dirotto come un temporale, ma è che non mi va. Non mi va di fare ciò che gli altri si aspettano, anche se qui non c’è nessuno a parte me e l’autista e i sedili vuoti con su scritto “Gianna troia”. Doveva essere proprio troia, questa Gianna: se me lo dice ogni sedile ci credo, è questione di maggioranza.
“Scendi all’ultima?” mi grida l’autista con un accento barese da brivido.
“Sì.”
Lo dico flebile flebile, che  non mi sente neanche Gianna troia, e così lo ripeto. Più forte. Così forte che mi spacca il cervello da dentro, come un martello pneumatico, il mio sì. Passando davanti alla stazione do un’occhiata all’orologio sopra la tettoia. Le undici e un quarto. Il buio che cola intorno al quadrante , e nessuna stella.
L’autobus si ferma, era l’ultima corsa, l’autista si stiracchia e preleva dalla borsa il suo pacchetto di sigarette.
“Che, me ne daresti una?” gli chiedo, uscendo, e non so proprio da dove mi venga tutta questa confidenza. Io che da piccola non chiedevo nemmeno il pezzettino della merenda agli altri, a scuola. E’ che sto impazzendo, forse.
“Tiè. Vuoi anche l’accendino?”
“No, grazie. La fumerò dopo. Con calma.”
Con calma. Mi allontano dall’autobus e mi sembra ancora più notte di prima. Gente a capannello intorno al McDonald. Ho voglia di comprare una confezione di fiammiferi e accendere la sigaretta alla vecchia maniera, come faceva il nonno. Ché non mi ricordo niente del nonno, fuorché questo.
L’orologio della stazione mi dice che adesso sono le undici e venti: devo decidere subito che cosa fare, altrimenti perderò gli ultimi treni. Ammesso che ce ne siano, a quest’ora. Ammesso che io sappia dove voglio andare.
 
A casa. Voglio andare a casa. A piedi.
 
                                                                                              * * *
 
Mia madre non sa ancora niente. Come potrebbe? E’ successo tutto così in fretta che a malapena lo so io. Mi guardo il dito. La fedina è ancora lì, in perpetua memoria. E se la tolgo, vedo una sottile striscia bianca: è che mi sono abbronzata, nel frattempo. Che la fedina c’è anche quando non c’è, adesso. Come Samuele, che c’è anche quando non c’è. Che non c’era anche quando c’era.
Entro in casa in punta di piedi per non svegliare nessuno, e il portachiavi della Benetton con le borsette di plastica fa tic tac tic tac mentre attraverso il corridoio. Mio padre russa. Superando la porta del bagno cerco di fare ancora più piano, ché dentro c’è la gatta che dorme e se la sveglio è l’apocalisse, roba che me ne vado in giro con la zeta di Zorro sulla faccia, gentil dono dei suoi artigli. Ma si chiama Zendra, non Zorro, ed è femmina, e mia madre ci ha messo venti mesi e tredici giorni per imparare il nome e smettere di chiamarla con le varianti Zelda Zenna Zedra. Li ho contati, i giorni, uno per uno. Russa anche mia madre  ma mio padre la copre col suo ronfare: solidarietà di coppia, questa. Amore, oserei dire, se non fosse che ho l’assoluta certezza che i miei si detestino. Si fanno i dispetti come Michael Douglas e consorte in La guerra dei Roses, che tra l’altro è uno dei film preferiti di mia madre, guarda un po’ perché. Al compleanno di mia madre, mio padre le regala sempre lo stesso portafoglio. Lo stesso, identico, di Carpisa, da anni. La Carpisa ha brevettato quel portafoglio solo per lui, affinché potesse rovinare il compleanno di mia madre nei secoli. Lei, per contro, gli regala ogni anno una bottiglia di Pinot grigio che, oddio, sarebbe fantastica se non fosse che mio padre è il migliore degli astemi. Roba da pazzi.
Entro in camera che mi fanno male le dita dei piedi a furia di camminare in punta come una ballerina; lancio le scarpe contro il muro e atterrano con un rumore ovattato sulle riviste sparse sul parquet. Tutte riviste di arredamento Shabby Chic. Adoro questo stile, l’abbondare di fiori rosa, il pizzo, il color panna, i mobili antichi con la vernice scrostata. Cozzalate, le chiama mia madre. Arte della dolcezza, la chiamo io.
“Amelia?”
La voce di mia madre che attraversa il russare di mio padre e arriva nebbiosa, come in una coltre di fumo.
“Sì, sono tornata.”
“E ti sembra ora?”
“Sono solo le undici e mezza!”
Stiamo svegliando tutto il palazzo, poco ma sicuro.
“E con chi sei stata?”
“Ne parliamo domani.”
“Con Samuele?”
“Ne parliamo domani.”
Mia madre interrompe il suo interrogatorio e riprende – miracolosamente – a dormire. Vorrei poter dire anche a me stessa Ne parliamo domani, ma è che non posso. E’ che Amelia non dà tregua ad Amelia.
E’ che ti amo, Samuele.
E’ che vaffanculo. Samuele.
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Commedia / Vai alla pagina dell'autore: Elenoir De la Blache