Crossover
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Autore: Registe    10/07/2012    3 recensioni
Seconda storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone". Sono passati tre anni dagli avvenimenti narrati ne "Il Castello dell'Oblio", e i membri dell'Organizzazione hanno perduto gran parte dei loro poteri e sono ridotti a vagare per il loro mondo primitivo come vagabondi o ladruncoli qualunque. Auron e Mu invece si sono uniti alla Resistenza contro il Grande Satana, anche se Auron non e' ancora riuscito a dimenticare la breve storia d'amore vissuta con Zachar tre anni prima. Nella Galassia Mistobaan, ancora sotto l'influsso del condizionamento, e' diventato il fedele braccio destro dell'Imperatore. Ma il Grande Satana non intende rimanere a guardare, e tentera' con ogni mezzo in suo potere di riprendersi il suo servitore...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 6 - Liberazione


Dungeon fantasy prison

Le prigioni del Baan Palace




Fu un sollievo quando il loro carceriere aprì la porta e reclamò proprio lui. Vexen si sollevò sulle ginocchia doloranti e si fece trascinare più che volentieri per il braccio fuori dalla cella, e nonostante le orribili prospettive che lo attendevano tirò un sospiro di sollievo.
Camus picchiò contro la porta della cella e lo chiamò, ma il soldato lo aveva già condotto verso la fine del corridoio.
I giorni trascorsi in cella gli erano sembrati ere geologiche, perché oltre lui e Camus c’era qualcuno che era irritato, forse anche impaurito, ma soprattutto pericoloso ed infuriato con lui come poche persone al mondo. Non aveva sentito la mancanza del sorrisetto gelido di Marluxia per tre anni, ed avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere chiuso a chiave in una cella contigua. L’unica nota positiva era che quella pazza furiosa di Larxen era altrove, in chissà quale laboratorio demoniaco. Comunque lontano da lui.
Il principe dai capelli rosa non ci era andato per il sottile, e dopo la prima decina di sibili era passato ai fatti; il campo di incantesimi che i servitori del Grande Satana aveva eretto tutto intorno al blocco di detenzione aveva impedito al n. XI di strangolarlo con le sue liane o trafiggergli la gola con le spine durante il sonno, ma evidentemente in quegli anni trascorsi con Axel e Larxen aveva preso l’abitudine a colpire i nemici in maniera ben poco principesca. Lo avrebbe di certo ucciso se Camus non si fosse interposto. Il bravo assistente condizionato aveva vegliato su di lui per tutti quei giorni senza mai dormire, e si era guadagnato una discreta collezione di lividi ed una valanga di insulti.
In fondo ha avuto la sua utilità …
Aveva dormito ben poco in quella cella, ed avanzò barcollando lungo la prima rampa di scale. La persona che lo trascinava era il ragazzo umano dai capelli che andavano dall’azzurro all’argento, lo stesso che li aveva scortati al blocco di detenzione al loro arrivo dal Baan Palace.
“Il Grande Satana ha chiesto espressamente di te, scienziato” sentenziò, guardando sempre fisso davanti a lui “È per Mistobaan”.
“Mistobaan? Vi abbiamo già detto dov’è e …”
L’altro accelerò il passo e lo condusse verso un corridoio ampio, dove decine di mostri pattugliavano l’ingresso “Non è questo ciò che vuole”.
Vexen non aveva mai visto nessun demone provare verso un essere umano un sentimento diverso dall’odio e dal disprezzo, eppure alcuni demoni minori che si adoperavano come inservienti rivolsero al ragazzo dei profondi inchini e qualcuno abbozzò ad un saluto militare. Passarono davanti ad alcune creature bizzarre, che il n. IV aveva visto soltanto in dei bestiari primitivi: esseri con tentacoli, altri dotati di scaglie, altri dotati di forme che non sapeva delineare. Furono sorpassati da alcune armature senzienti, e Vexen notò che gli sguardi di tutti erano puntati soprattutto su di lui.
Avrebbe voluto saperne di più sul suo carceriere un po’ fuori posto, ma l’amara verità era che in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per non ricomparire al cospetto del signore della famiglia demoniaca. Aveva sperimentato una volta il suo disappunto.
Non aveva alcuna intenzione di conoscerne la furia.
Quando arrivarono davanti al portone che conduceva alla stanza del trono trovò qualcuno ad attenderli. Non lo aveva notato al momento della cattura, ma le sue forme non promettevano nulla di positivo. Continuava a roteare una lunga falce nella mano destra, e dietro la sua maschera nera fischiettava un motivetto che, nella sua vivacità, suonava alquanto inquietante perché mescolato al sibilo dell’ arma.
Il carceriere fermò il passo, ed il suo sguardo era gelido “Stai aspettando qualcuno, Killvearn?”
“Oh, no, generale Hyunkel” rispose l’altro, senza interrompere il lugubre movimento “O almeno, non al momento”.
Eppure lo scienziato ebbe l’orribile sensazione che stesse aspettando proprio loro due. Sulla spalla della creatura comparve un buffo gnomo che iniziò a saltellare ed a spargere strane polverine colorate nell’aria “Volevo solo appurare che il prigioniero giungesse a destinazione”.
“Questo è un compito mio, Killvearn”.
“Non lo nego, ma sai come vanno le cose … ero solo preoccupato che il tuo sangue umano non provasse una qualche forma di simpatia per i prigionieri e quindi …”
“TACI!” Vexen sperò con forza che i due non iniziassero un duello quando lui era potenzialmente a tiro delle loro armi “La mia fedeltà al Grande Satana è assoluta, e non accetto prediche da persone senza onore come te, Killvearn. Il modo con cui hai riportato qui Mistobaan e quella ragazza non è stato per niente leale”.
“Lealtà? Pfff … Sai bene come la penso, generale Hyunkel. Ammetto che non avrei possibilità in uno scontro diretto con il nostro vecchio e beneamato Braccio Destro, quindi perché correre rischi?”
Lo scienziato rabbrividì.
Mistobaan è qui. Quindi il Grande Satana sarà davvero …
Il ragazzo dai capelli azzurrini non rispose, ma lo trascinò senza tanti riguardi ed aprì il portone, dando le spalle allo strano essere con la falce che li seguì riprendendo a fischiettare. Stavolta la sala non era affollata, ed oltre a qualche demone guardiano con le lance o le spade in bella mostra non c’erano mostri o figure curiose a lanciargli sguardi indiscreti da dietro le colonne. Vexen si sarebbe aspettato un’accoglienza con tanto di palla di fuoco, con il Grande Satana fluttuante su di lui nel pieno del suo sdegno. Si stupì di trovarlo seduto sul trono nero, intento a spostare quelli che sembravano minuscole pedine su una scacchiera impreziosita: l’uomo posò lo sguardo su di lui solo per qualche attimo, alla ricerca di qualche segnale che gli indicasse l’umore del demone antico seduto davanti a lui. Ma sul suo viso, più che su quello dei suoi servitori, era disegnata soltanto un freddo distacco, una valanga di pensieri che gli esseri umani non potevano condividere o comprendere.
Il generale Hyunkel si inginocchiò al suo cospetto e lo costrinse a fare altrettanto. Nella mente di Vexen gli attimi passarono come ore, finché la creatura spostò la fatidica scacchiera e concentrò la sua attenzione su di loro. Nel momento in cui sentì di nuovo la sua voce lo scienziato tremò.
“Ho visto come hai ridotto Mistobaan, essere umano. Ho visto il frutto del suo ignobile esperimento”.
Una Sfera Infuocata sarebbe stata preferibile “Io …”
“Quindi immagino che tu sappia tutto su di lui e sulla sua natura”.
“Io ho soltanto …”
“Basta così”.
Vexen tacque. Negli attimi successivi sentì il suo respiro andare avanti ed indietro come un tamburo strozzato.
“Avete usato Mistobaan come un esperimento, un trastullo per la vostra razza ed il vostro egoismi e tu, vile parassita umano, hai osato posare il tuo sguardo sul suo segreto e sollevare il velo del Dono. Non posso tollerare affronto del genere al mio Braccio Destro”. Il . IV non sollevò lo sguardo, e fissò il pavimento di marmo nella speranza che si aprisse una crepa in cui nascondersi “Tu hai condizionato Mistobaan e tu lo farai tornare come prima”.
Ha bisogno di me …
Il pensiero non lo consolava troppo. Il Grande Satana non sembrava intenzionato a dirgli cosa sarebbe successo dopo. Ma questo fatto volevano dire giorni, settimane, attimi di vita in più da poter sfruttare, perché pur avendo superato la metà della vita non aveva alcuna intenzione di finire ucciso in qualche cella di quel palazzo volante, doveva … se fosse riuscito a recuperare Camus …
“Come lei desidera, Grande Satana. Mi faccia disporre di una sala operatoria decente e …”
Volò.
L’impatto lo portò contro una delle colonne nere, mozzandogli il fiato. Ed il dolore alla spalla non presagiva nulla di buono, ma non era nulla in confronto all’espressione del demone sul trono.
L’incantesimo si spense tra le sue dita “OPERARE? UMANO, SE OSERAI DI NUOVO METTERE LE TUE LURIDE MANI NEL CERVELLO DI MISTOBAAN TI DARO’ IN PASTO AI DRAGHI DEL GENERALE BARAN!”
“Ma non posso riuscire senza operarlo!”
Quando aveva condizionato l’essere incappucciato aveva usato tutti i poteri del castello dell’Oblio per raggiungere il suo intento, ed aveva approfittato delle potenzialità delle stanze della memoria per alterare i ricordi del prigioniero. L’operazione era stata minima, ma Vexen sapeva che il merito era stato soprattutto del grande potenziale del Castello e dello Spirito addormentato. Ma alterare i ricordi senza di esso … avrebbe dovuto lavorare manualmente. Aveva fatto delle pratiche sui suoi sacerdoti, intervenendo su Camus in più occasioni, ma per il ripristino delle funzioni cognitive doveva approcciarsi in modo diretto alle sinapsi, regolare gli intervalli di trasmissione ad occhio e scegliere le nuove memorie da inserire in base alla configurazione neurologica. Doveva operare manualmente nell’encefalo, e in tutti i suoi interventi non aveva impiegato meno di cinque ore.
Come poteva il Grande Satana pretendere di …
“Sono convinto che ci riuscirai” fece l’altro, con la voce insolitamente tornata calma “Voi umani non dite sempre che quando siete in pericolo il vostro ingegno si aguzza? Datemi una dimostrazione”.
Ma io non …
“Ti lascerò a disposizione il laboratorio di Zaboera e l’accesso alla biblioteca. Hai dieci giorni per trovare una soluzione. Altrimenti …”
Non terminò la minaccia, o forse era lui a non averla sentita.
Non posso farlo senza operare, non senza il Castello …
Dieci giorni …

Si lasciò portare via dal generale Hyunkel senza protestare, ma nella sua mente ormai c’era solo un calderone di formule e paura e senza più alcun senso.


“MU, RALLENTA, DANNAZIONE!”
Solo una parte lontana della sua mente fu cosciente dell’urlo di avviso del suo compagno. Il giovane sacerdote corse lungo la scala divorando i gradini, fissando con il cuore in gola la devastazione che lo circondava. Le loro Case non esistevano più.
Due notti prima lui ed Auron stavano organizzando un piccolo fuoco da campo nel cuore del bosco quando avevano sentito l’esplosione accompagnata da un lampo di luce accecante quanto il sole che sorgeva dal Tempio delle Dodici Case che fino a qualche minuto prima si era stagliato nel pacifico panorama della regione di Papunika. Aveva sperato, aveva pregato, aveva implorato fino all’ultimo che non si trattasse di loro, ma quelle rovine non lasciavano altra spiegazione possibile.
Chi può … chi può aver fatto una cosa del genere …?
E perché loro? Avevano stretto un patto!

Le rovine delle Case erano vuote, non c’era nessun corpo lungo la scalinata e nulla persino nei resti del roseto di Aphrodite, dove soltanto qualche ramo secco rimaneva a testimoniare che in quel luogo sorgeva uno dei giardini più belli del loro mondo. Ma non era preparato alla scena davanti ai suoi occhi.
“MAESTRO DOHKO!”
La grande roccia dell’osservatorio era ridotta in pezzi. Il pavimento, le colonne, l’altare maggiore, tutto ciò che aveva custodito nella sua memoria nel corso di quegli anni era ridotto in frammenti, e tra quelle macerie vi erano i corpi delle persone che aveva amato e rispettato per un’intera vita, scaraventati in modo scomposto in mezzo a sangue non ancora rappreso “MAESTRO DOHKO!”
La testa del vecchio sacerdote era alla base dell’osservatorio, distante dal piccolo ammasso di abiti che doveva essere il suo corpo. Mu corse verso di lui, poi verso gli altri resti, chi accasciato, chi mutilato, l’espressione di stupore ancora dipinta sul viso di Milo e Aiola.
Lo colpì un freddo improvviso ed il dolore arrivò fin nello stomaco.
“Mu” la mano di Auron lo prese per la spalla. Sentì la forza delle sue dita che cercavano di mantenerlo in piedi “Mu … lo sai che le parole non sono il mio forte ma … mi dispiace”.
“Auron, loro … erano i miei confratelli, i miei amici! Erano persone buone, rispettavano gli dèi, chi ha osato fare una cosa del genere?”.
“I demoni”.
Già.
C’era la loro furia dietro quella devastazione. C’era la loro mano, la loro arroganza, la loro superbia senza pari in quel gesto. Si erano portati via le loro armature dorate come trofei ed avevano lasciato i loro corpi lì senza degnarsi di portare loro il rispetto dovuto. Si inginocchiò verso Milo, gli chiuse gli occhi e pianse. Cercò il rosario che Shaka gli aveva regalato e strinse le perle fino a far sanguinare le dita, cercando le parole giuste della preghiera del Riposo Eterno, ma nella sua mente c’era soltanto un velo umido di lacrime.
Vennero solo poche parole, strozzate dai singhiozzi.
Si sforzò, continuò, ma l’unico pensiero era che quella che era stata per una vita la cosa più vicina ad una famiglia era stata spazzata via insieme al Tempio in cui aveva imparato al essere un sacerdote. Dèi, perché avete permesso una cosa del genere?
Perché …?

“Mu, vieni subito!” dovette richiamarlo Auron “Qui ce n’è uno ancora vivo!”
Il sacerdote si alzò, e barcollò verso il suo amico, che si era levato dalla cintura la borraccia e stava versando il suo contenuto sulle labbra di Saga dopo avergli sollevato la testa dalla posa scomposta in cui lo aveva ritrovato. Anche senza armatura ed il corpo pieno di ferite, il sacerdote dei Gemelli manteneva ancora lo spettro della sua forza e del carisma che Mu aveva sempre apprezzato.
Gli appoggiò il rosario tra le mani, e tremò per il gelo che trasmettevano “Saga, gli dèi siano lodati! Non temere, adesso andremo a trovare un guaritore e ti riprenderai, stanne …”
“Mu …” non era abituato a sentire la sua voce tremare ed arrancare, la semplice sillaba sembrò troncargli il fiato. Auron fece per scostargli la testa, ma appena appoggiò la mano alla base del collo si incupì, ed al sacerdote dai capelli rosa non sfuggì lo sguardo tetro al di sotto degli occhiali.
In quei tre anni di guerra e campi di battaglia era successo molte volte.
“Mu … dunque non sei stato tu … il patto … il Grande Satana …”
Dèi, vi imploro, fatelo vivere, non basta il sacrificio di tutti gli altri? Lui merita molto più di me!
“Allora … se non sei tu … allora Camus …” sputò un primo fiotto di sangue tra i rantolii, mentre le braccia e le gambe rimanevano inserti nonostante l’agitarsi del petto “Camus … lo ha preso il Grande Satana … e poi il patto …”
Camus? Le parole gli arrivarono come una doccia d’acqua gelida. Fino a poco tempo prima si stava quasi rassegnarlo all’idea di liberarlo, impossibilitato dal trovare lui e padron Vexen nel loro vasto mondo, e quel nome gli scivolò tra le mani come un piccolo filo azzurro da seguire che Saga e gli dèi gli stavano lasciando tra le mani.
Gli ultimi respiri furono i più difficili, ma Mu si sforzò di stringergli le dita e di non voltarsi per rispetto verso l’antico orgoglio del cavaliere. Poi dietro lo sguardo vitreo vide un piccolo scintillio dietro gli occhi azzurri “Mu, devi anche trovare S …”
Il gorgoglio di sangue spense le parole, e scivolò lungo i vestiti suoi e di Auron.
Il giovane strinse al petto la sua testa ed esplose in singhiozzi, riprendendo il rosario che le dita del suo confratello non erano riuscite a stringere. Tutto sembrava incredibilmente sbagliato, lui era l’unico ancora vivo in quello che era diventato un cimitero, lui che era stato così debole da lasciarsi condizionare dall’Organizzazione e da dimenticare i suoi compiti, lui che aveva deciso di partire dal tempio seguendo solo i suoi personali sogni di giustizia. Death Mask, Aiolos, Saga, nessuno di loro aveva mai sollevato la testa contro il dominio del Grande Satana, eppure a causa di quel patto l’odio della famiglia demoniaca si era abbattuto su degli innocenti. Se quello era il volere degli dèi … non riusciva a capirlo in quel momento. Non fino in fondo.
Auron gli venne accanto e allontanò le sue braccia da Saga, sollevandolo “Ai loro corpi ci penso io, Mu. Tu resta quassù e prega ancora per loro, guardare il loro strazio non ti servirà a nulla” gli strinse ancora una volta la mano sulla spalla “È meglio che tu li ricordi per come erano”.


Nella cella non filtrava alcuna luce, perciò era difficile comprendere quante ore fossero trascorse. Aveva chiamato più volte, ma il carceriere dai capelli azzurri non si era presentato, e nessuno degli strani scheletri animati al suo servizio aveva aperto la porta per portare loro qualcosa da mangiare.
Si sedette in un angolo, cercando di evitare il penetrante sguardo blu del suo compagno di cella, che si era portato in piedi al centro della stanza e lo fissava come un rapace. Padron Marluxia aveva smesso di attaccarlo da quando padron Vexen era stato trascinato via e di certo stava pensando a qualche piano per fuggire da lì.
“Cosa c’è, Camus? Da quando non c’è più il tuo padroncino hai smesso di abbaiare?”
Il sacerdote cercò di non dargli peso. Padron Vexen aveva sempre detto che padron Marluxia era il più pericoloso ed infido tra tutti i Membri dell’Organizzazione, e non ne aveva dubbi visto che padron Vexen era il più saggio ed il più potente di tutti. Doveva pregare gli dèi ed avere fiducia in lui.
Chiuse gli occhi, cercando di nascondere all’altro la sua preoccupazione. Non era solo per padron Vexen, ma anche per i suoi confratelli e l’ordine che il Grande Satana aveva proferito nella sua sala delle udienze e di cui non riusciva ad avere notizie. Il loro ordine era composto da abili maghi e sacerdoti, ma nessuno in grado di competere contro la furia anche di uno solo dei leggendari corpi d’armata della famiglia demoniaca. Sono stato io.
Non sapeva nulla di quel patto di cui aveva parlato il sovrano, ma la sua furia si sarebbe abbattuta su di loro che erano innocenti ed estranei di tutto. Aveva chiesto al carceriere una seconda occasione per poter parlare col Grande Satana e spiegargli il malinteso, ma quello aveva solo biascicato qualcosa sulla viltà della razza umana mentre padron Vexen gli aveva intimato anche solo di pensare a simili idiozie. E di certo lui aveva ragione perché era saggio e potente, però … era stata colpa sua. Sua e soltanto sua.
Ogni secondo che passava sentiva il bisogno di avere loro notizie, forse gli dèi dall’alto della loro bontà erano riusciti ad impedire la catastrofe.
Devo confidare in loro. E in padron Vexen.
Non si era accorto che padron Marluxia si era avvicinato a lui con tutta la sua grazia, e quando riaprì gli occhi si trovò davanti il suo profilo e si alzò in piedi, ma quello non accennò ad andarsene. “Ti metto tanta paura, piccolo Camus?”
“Non mi fido di lei”.
“Immagino perché il tuo adorabile padron Vexen ti avrà detto tante cose orribili sul mio conto”.
“Padron Vexen è saggio e potente, e non si fida di lei a buona ragione”.
“Lo avrei immaginato”.
Il sacerdote scoprì di trovarsi lontano dall’angolo buio in cui si era rifugiato, molto più al centro della cella e vulnerabile all’uomo dai capelli rosa che con i suoi movimenti sembrava girargli intorno. Aveva sempre avuto quel passo fermo ed autoritario, anche più di quello del suo padrone.
Poi quello si fece sfuggire una lieve risata, trattenuta da un sorriso spaventoso “Povero Camus, contento di essere uno schiavo!”.
“Io non sono uno schiavo. Servo padron Vexen di mia spontanea volontà. E sono felice di essere al fianco della persona più saggia e potente del mondo”.
“Comprendo. Eppure sai che è in grado di condizionare la gente per costringerla ad obbedirgli”.
“Io non sono condizionato”.
Non era un uomo, quello. Era una sua impressione oppure i suoi movimenti si erano fatti più rapidi? Il sacerdote era costretto a ruotare la testa di continuo, seguendo le lunghe falcate del n. XI mentre scivolava intorno a lui senza mai perdere la presa con i suoi profondi occhi blu. Il suo sorriso di sfida … lo spaventava. Si sentì come una mosca circondata da un ragno predatore che attende il momento propizio per saltargli addosso con le parole cariche di veleno. “Oh, non lo metto in dubbio … mi chiedevo solo se per caso tu non avessi da qualche parte una cicatrice strana … di quelle che segnano il passaggio del bisturi di Vexen”.
“Non ho nessuna cicatrice strana e non sono condizionato!”.
Qualcuno entri! Persino il Grande Satana, ma qualcuno entri!
Il predatore passò all’attacco. Abbatté ogni distanza di sicurezza e gli venne incontro scivolando come un petalo, e l’unica difesa di Camus fu allontanarsi di un passo per scoprire di essere di nuovo con le spalle al muro; ma stavolta l’uomo dai capelli rosa era contro di lui ed il suo braccio destro era appoggiato per impedirgli di muoversi, leggero ma impassibile. Le sue dita, avvolte nel guanto, scivolarono sulla sua fronte e gli sollevarono i capelli, fermandosi nel punto in cui questi si univano alla testa e vi scivolò sopra un paio di volte, quasi con noncuranza “E questa da dove viene? Perché ricordo che il caro Vexen usava sempre la fronte come accesso per condizionare i suoi servetti”.
Il sacerdote tremò al solo contatto.
Certo, aveva una cicatrice proprio in quel punto, ma ricordava perfettamente come se l’era procurata.
“Mi lasci, padron Marluxia” cercò di suonare intimidatorio, ma la verità era che la sua voce tremava più che mai “… quella cicatrice me la sono fatta quando ero ancora al Grande Tempio, Aphrodite ha solo sbagliato mira e mi ha ferito con le spine di una sua rosa, tutto qui!”.
Eppure l’altro non se ne andò, continuando il suo movimento delicato e riempiendo il suo sguardo con uno strano ghigno “Davvero? Perché non me lo ripeti di nuovo?”
“Le ho detto che Aphrodite ha sbagliato mira e …”
“Ripetilo!”
“Aph …”
“Ricordati meglio la scena …”
Scosse la testa, preso da un brivido di cui non conosceva l’origine “Quella cicatrice me la sono fatta quando ero ancora al Grande Tempio, Aphrodite ha solo sbagliato mira e mi ha ferito con le spine di una sua rosa!” gridò, cercando rifugio nell’immagine della sua mente, che apparve vivida alla sua chiamata, forse l’unica scena forte e salda tra tutti i ricordi che lo collegavano al passato.
“Ma che bravo pappagallino. Ripeti”
“QUELLA CICATRICE ME LA SONO FATTA QUANDO ERO ANCORA AL GRANDE TEMPIO, APHRODITE HA SOLO SBAGLIATO MIRA E ….
“Pensaci meglio, Camus. Soffermati solo su quello”
“QUELLA CICATRICE …”
Fu in quel momento che l’immagine si incrinò. La scena dell’allenamento, qualche secondo prima così vivida, sembrò attraversata da una gigantesca crepa ed andò in frantumi insieme alla rosa che saettava verso la sua fronte. Fu attraversato da un’improvvisa sensazione di freddo che partì dalla sua testa e si propagò verso il cuore, ed insieme ad essa i ricordi della sua vita al Grande Tempio ripresero a muoversi ed a mescolarsi, liberati da quella gelida stasi in cui gli erano apparsi incarcerati. Ma cosa …?
Strinse la testa tra mani, ed il predatore si allontanò da lui, scivolando di nuovo nell’ombra.
Il mal di testa aumentò, ed ogni volta che cercava di soffermarsi su un ricordo le pulsazioni ed il freddo aumentavano; scuotere la testa non servì a nulla. Cosa vuol dire?
Cosa ha fatto padron Marluxia?

“Sei stato un bravo schiavo, Camus. Obbediente al punto giusto” la voce dell’altro aveva un tono ancora più minaccioso “E quando te ne renderai conto saprai cosa fare. Perché sono sicuro che il tuo adorato padrone ti farà chiamare, e allora chissà se gli ripeterai la stessa cantilena”.
Doveva chiedere aiuto a padron Vexen, la testa gli stava andando in frantumi.
“Se devo proprio venire giustiziato dai demoni non permetterò a chi ci ha trascinati in rovina di passarla liscia”.
  
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