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Autore: thenightsonfire    11/07/2012    6 recensioni
Missing Moment ambientato tra l'ultimo capitolo e l'epilogo di Mockingjay. SPOILER per chi non ha letto l'ultimo libro.
E conto. Mi concentro sul leggero ticchettio dell’orologio a muro, contando i secondi, misurando il tempo che passa per allontanarmi dal dolore. Conto per svuotare la mente, esattamente come faccio quando il passato torna più feroce che mai. Ma oggi non funziona. Oggi fa troppo freddo.
Uno. Prim non c’è più. Fuori, le mani di Peeta continuano a muoversi sulla statua. Riesco a scorgere il suo guardo concentrato per un secondo prima che si giri nuovamente, dandomi la schiena, nascondendomi ciò che sta creando. Lui sa che lei manca. Stamattina mi ha rivelato che molte volte, nel sonno, mormoro il suo nome.
[...]
Nove. Conta, Katniss, conta i secondi. Ogni secondo superato è un passo. Cammina, un passo dopo l’altro, cammina e va’ via da ciò che ti fa male.
Dieci. Questa tra me e i miei ricordi non è una guerra perché, in realtà, è solo una fuga. E le fughe finiscono solo quando trovi la forza di affrontare ciò che ti insegue.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Run.

 

 

Peeta aggiunge un altro po’ di neve al cumulo che ha davanti e che, ormai da ore, sta plasmando e perfezionando per creare un perfetto pupazzo di neve – più di un pupazzo, una vera e propria statua: da dentro casa – la nostra –, oltre la schiena del mio ragazzo del pane, riesco a vedere il torso di neve e ghiaccio di quest’ultima, un braccio esile, il pezzo di una gamba. Ma, sebbene sia la prima giornata di sole dopo giorni di nevicate, fa ancora troppo freddo per me, per la Ragazza di Fuoco, così rimango dentro casa, a guardarlo da lontano. Così ho detto a Peeta, perlomeno.

La verità è che questa neve, questi cumuli alti quanto me mi ricordano l’inverno dell’ultima edizione degli Hunger Games, l’Edizione della Memoria. L’ultima prima che il mondo intero sembrasse sul punto di crollare. Le frustate di Gale, i nomi miei e di Peeta chiamati ancora una volta, la prima volta che ho incontrato Finnick, la decisione di proteggere il ragazzo che ancora non sapevo di amare, di proteggere Prim... La mia Prim, che non c’è più...

Ma qui mi fermo. No. Devo tenere le redini dei miei pensieri, devo tenere le redini dei miei ricordi. Devo combattere contro questi ultimi, perché non posso lasciarmi andare. Mi stringo nelle spalle, pronta a sentire quel dolore ormai familiare, quel freddo che con le temperature basse di fuori non c’entra niente e che viene da qualcosa che la Ragazza di Fuoco non può vincere – perché il volto pallido di Prim nei miei ricordi e il camice immacolato che indossava quell’ultimo giorno, prima che le fiamme l’avvolgessero, sono dello stesso biancore dei fiocchi caduti fino a stamattina.

E conto. Mi concentro sul leggero ticchettio dell’orologio a muro, contando i secondi, misurando il tempo che passa per allontanarmi dal dolore. Conto per svuotare la mente, esattamente come faccio quando il passato torna più feroce che mai. Ma oggi non funziona. Oggi fa troppo freddo.

Uno. Prim non c’è più. Fuori, le mani di Peeta continuano a muoversi sulla statua. Riesco a scorgere il suo guardo concentrato per un secondo prima che si giri nuovamente, dandomi la schiena, nascondendomi ciò che sta creando. Lui sa che lei mi manca. Stamattina mi ha rivelato che molte volte, nel sonno, mormoro il suo nome.

Due. Andare avanti, penso, è questa l’ultima missione della Ragazza di Fuoco, della Ghiandaia Imitatrice, di ciò che è rimasto del simbolo della Rivolta.

Tre. Sono gli anni passati, penso ancora una volta. Troppo pochi.

Quattro. È una guerra contro me stessa che non avrà un vincitore.

Cinque. Le mani di Peeta che si muovono sulla neve, improvvisamente più lente.

Sei. Come fa Peeta a vincere la neve? Come fa a vincere il freddo?

Sette. Chiudo gli occhi e mi appoggio al muro dell’ingresso. Stringendomi le braccia, mi chiedo quanto tempo ci vorrà affinché questi ricordi scivolino via e scompaiano coma la neve in primavera.

Otto. Peeta aveva ragione fin dall’inizio, non possiamo dimenticare.

Nove. Conta, Katniss, conta i secondi. Ogni secondo superato è un passo. Cammina, un passo dopo l’altro, cammina e va’ via da ciò che ti fa male.

Dieci. Questa tra me e i miei ricordi non è una guerra perché, in realtà, è solo una fuga. E le fughe finiscono solo quando trovi la forza di affrontare ciò che ti insegue.

«Katniss!»

Sento Peeta chiamarmi da fuori, così apro gli occhi e cerco di fare un respiro profondo. E adesso cammino davvero, fuori dalla porta di ingresso, verso gli occhi azzurri del mio ragazzo del pane. Ha il naso arrossato per il freddo e gli occhi rossi.

«Domani avrai la febbre» lo rimprovero, ma lui sorride e mi bacia. Le sue labbra sono sorprendentemente calde, e questo è l’unico calore che voglio, perché in realtà sono stanca persino del fuoco. Sono stanca di me stessa.

«Ho finito la statua» sussurra, allontanandosi. Prima che io possa rispondere si scosta, rivelando ciò per cui ha lavorato tante ore.

Ed è come tornare indietro. I secondi scorrono al contrario. Perché la statua è Prim, è il suo corpicino esile, i suoi occhi, persino il suo sguardo determinato, è la sua treccia, e indossa il vestitino che alla Mietitura per la prima edizione degli Hunger Games le stava ancora largo. È Prim com’era prima di quell’anno. È Prim quando era niente più che una bambina e la morte non ci aveva ancora raggiunti. È una Prim di neve che dentro di me brucia e fa più male di una ferita aperta.

Quando capisce che sto per crollare, Peeta mi abbraccia e mi bacia la fronte.

«Perché, Peeta?» riesco a mormorare, nascondendo poi il viso sul suo petto.

«Per dimostrarti che c’è ancora.»

Scuoto la testa, stringendo i denti. «No, Peeta, non c’è più. Non esiste più.»

Rabbia. Non voglio ascoltarlo. Voglio solo distruggere la statua. Voglio colpirla a calci e a pugni. Voglio colpire Peeta. Voglio fare male a chiunque stia meglio di me.

Mi stringe più stretta quando sente che voglio allontanarmi. «Sì, invece. Perché io la ricordo. Perché tu la ricordi.» Faccio forza contro il suo petto, ma è inutile, e lui si scosta per prendermi il viso tra le mani e guardarmi negli occhi. «Guardami, Katniss. Quando la statua si scioglierà, tu la ricorderai di meno?»

Ed è solo per fingere una forza che non ho che non piango. «No.»

«Quando l’inverno sarà passato, sarà cambiato qualcosa?»

«Voglio solo dimenticare, Peeta.»

Lui scuote la testa, mi sorride debolmente. «Smettila di combattere, Katniss. La guerra è finita. Non serve a nulla dimenticare, né tu vuoi davvero dimenticare tua sorella. È perché fa male, ma dobbiamo convivere con tutto questo. Tu devi ricordarla, Katniss, ma così. Quando tutto andava bene, quando era solo la tua piccola Prim. Non c’è più alcun nemico.»

E allora comincio a capire. Non il freddo che sferza la pelle, ma la neve che lenisce le felice come, inverni fa, fece con le piaghe delle frustate di Gale. La neve che cura. Il freddo come quello delle mani di Peeta in questo momento, che mi carezzano il volto e spengono l’incendio dei ricordi che bruciano. Il freddo che guarisce e che Peeta non cerca di vincere, ma di accettare.

I ricordi non sono un nemico, perché Prim ormai è solo questo, e non posso odiarla. Devo volerle bene come se fosse ancora qui, devo accettare l’idea che esiste solo dentro di me, e, paradossalmente, solo così esisterà ancora.

«Mi ci vorrà del tempo, Peeta» dico debolmente, chiudendo gli occhi.

«Tutto il tempo che vuoi. Te l’ho promesso, Katniss. Io ci sarò sempre.»

Ancora una volta la sua sincerità mi disarma completamente.

«Prima o poi andrà tutto bene» dico con voce tremante, avvicinandomi alle sue labbra. «Vero o falso?»

E lui mi risponde: «Vero».

   
 
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