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Autore: Raggedy Moon    13/07/2012    1 recensioni
La famigerata trappola del post-Reichenbach ha catturato anche me, come anche Sherlock. Quindi, ecco qui.
[Dalla storia]
Così, John si era finalmente alzato da quella poltrona, l’aveva girata con le spalle alla porta, si era lisciato i pantaloni con le mani ed era uscito da casa. Appena fuori dalla porta si era sentito come un bambino: la luce, il traffico, i taxi. I taxi. Non prendeva un taxi da esattamente due mesi.
Non se l’era sentita, ed aveva deciso di prendere la tube.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Disclaimer: purtoppo i qui presenti signori Sherlock Holmes e John Hamish Watson non mi appartengono. Essi sono il frutto della mente di Sir Arthur Conan Doyle, presi in prestito da quei geniacci della BBC di Moffat e Gatiss. Ma credo che questo voi lo sappiate già.
Enjoy! C:


Fantasmi


In quel momento, non un attimo prima né uno dopo, John Hamish Watson ha la certezza di aver perso per sempre Sherlock Holmes. Non quando lo ha visto fare quel passo fatale verso il vuoto, non quando ha osservato, come intontito da qualche farmaco, il suo volo verso il marciapiede, non quando è stato investito da un ciclista e ha sbattuto la testa sul cemento senza poter vedere l’impatto del corpo.
No.
Lì era stato solo vuoto e confusione e panico e un sacco di altre emozioni che gli avevano accartocciato lo stomaco con gli stessi riguardi con cui si schiaccia una lattina vuota.
La comprensione era venuta quando aveva visto il cadavere, e tutto quel sangue sul volto dell’amico.
La certezza era arrivata quando aveva trovato il coraggio di guardarne gli occhi: troppo vuoti, troppo chiari.
“Oh, Cristo!”
Ecco tutto quello che era riuscito a dire prima di venire sommerso da una valanga di pensieri, che finivano tutti alla stessa direzione: è morto. È morto e non tornerà.

Due mesi dopo, per John Hamish Watson era arrivato il momento di cominciare una nuova vita: non riusciva più a sopportare le giornate chiuse in casa, a fissare il vuoto, oppresso da una cappa di noia e depressione che lo aveva portato ad imprigionarsi nel piccolo appartamento del 221b di Baker Street.
Mrs. Hudson gli aveva più volte intimato di fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma lui aveva sempre rifiutato. Così, per quei due lunghissimi mesi, le sue giornate erano state una catena di monotonia: alzarsi dal letto, fare colazione, radersi, vestirsi, sedersi su quella poltrona con il volto rivolto alla porta. Aspettare.
Già, aspettare. Ma cosa? Nemmeno John lo sapeva. Il ritorno di Sherlock? Una lettera che gli comunicava che era stata tutta un’enorme beffa? Uno degli assassini di Moriarty pronto ad ucciderlo?
Aspettava, pranzava, tornava ad aspettare, cenava, aspettava ancora un poco e infine si svestiva e andava a dormire. Il mattino dopo, ancora la stessa sequenza di azioni.

Infine, due mesi dopo la caduta, Mrs. Hudson era entrata nel piccolo appartamento, seccata, senza nemmeno bussare, e si era piantata, con i pugni serrati sui fianchi, davanti a quello che, almeno anagraficamente, era ancora John Hamish Watson, medico militare della guerra in Afghanistan e migliore amico dell’ormai defunto Sherlock Holmes.
“John. Hamish. Watson.”
Ad ogni pausa era corrisposta una sberla sul volto dell’uomo, ma lui non vi aveva fatto molto caso.
“È giunto il momento che tu ti alzi e ti trovi un lavoro.”
Non rispose: non ne aveva nessuna voglia. Come non aveva voglia di alzarsi e trovarsi un lavoro.
“John, seriamente, o trovi un lavoro oppure ti caccio fuori di casa e getto tutto: libri, alambicchi, pezzi di cadavere ancora nel congelatore – sì, so che non li hai tolti! – e anche il teschio.”
All’udire quelle parole, John si riscosse un poco dal suo torpore: non gli importava finire a vivere sotto un ponte, ma la minaccia di buttare tutte quelle cose lo spaventava. Buttare le sue cose sarebbe stato come ammettere che non c’era più nessuno da aspettare, che non c’era più alcun motivo per rimanere lì.
Gettare tutto avrebbe significato ammettere che Sherlock Holmes era davvero morto.
“No.” La prima parola che John le rivolgeva da circa due mesi.
“Troverò un lavoro, mi dia solo un po’ di tempo.”
Così, John si era finalmente alzato da quella poltrona, l’aveva girata con le spalle alla porta, si era lisciato i pantaloni con le mani ed era uscito da casa. Appena fuori dalla porta si era sentito come un bambino: la luce, il traffico, i taxi. I taxi. Non prendeva un taxi da esattamente due mesi.
Non se l’era sentita, ed aveva deciso di prendere la tube. Poco più di cento metri a piedi, poi attraversare la strada e girare a sinistra, ancora qualche passo ed entrò nella stazione di Baker Street, come sempre affollata. Si era diretto allo sportello dei ticket, aveva comprato un biglietto mensile valido tra la zona 1 e la zona 3 ed era salito sul primo treno per Latimer Road, dove ricordava esserci una piccola clinica privata.
Pochi metri separavano la clinica dalla stazione: John li percorse ciondolante, ancora chiedendosi perché si trovasse in quel posto, perché stesse ancora cercando un lavoro come medico, perché quella fosse stata la prima cosa a cui aveva pensato.
Oh, certo, lo sto facendo per un teschio, un mucchio di libri e dei vecchi alambicchi.
Lo sto facendo perché credo in un uomo morto.

Aveva preso un grosso respiro, aveva alzato gli occhi ed aveva varcato le porte di vetro smerigliato della clinica: dentro l’odore non gli era familiare. Lui era un medico di guerra, non aveva mai avuto il privilegio di lavorare in ambienti così asettici e perfetti: lui aveva operato in una tenda con il pavimento di terra sporco di sangue, e subito dopo si era ritrovato a sparare a ragazzi come lui che sarebbero finiti in tende simili a quella in cui lavorava. Quindi, tutta quella pulizia lo disorientava un po’.
Si presentò a lui un infermiere, sulla trentina, capelli rossicci ben pettinati ed occhi verdi: probabilmente un qualche assistente, o un segretario, lì per fare pratica.
“Buongiorno, signore, posso fare qualcosa per lei?”
Erano secoli che nessuno gli dava del lei. Erano secoli che nessuno lo chiamava “signore”.
“Certo.” Rispose maledicendosi. “Se non le dispiace, vorrei parlare con il primario. O con il direttore.”
L’infermiere gli sorrise e lo condusse davanti alla porta in fondo al corridoio, sulla quale una targhetta recitava: Dottor Frederick Molloy. Null’altro. Non in cosa fosse specializzato, non che ruolo avesse all’interno della clinica. Niente di niente.
L’infermiere bussò, una voce bassa (come la sua, fu quello che pensò John) rispose dall’interno e Watson entrò: la stanza non era molto grande, né arredata in modo particolare. Una scrivania, una sedia per ogni lato lungo e qualche quadro alle pareti: era un posto semplice, che dava l’idea di una persona per la quale contassero più le abilità che le apparenze. John venne fatto accomodare sulla sedia dal dottor Molloy, che prese a sua volta posto di fronte a lui, rivolgendogli un sorriso gentile.
“Buongiorno, signor…”
“John Watson, dottor Molloy.” Esitò un attimo. “Buongiorno.”
L’altro medico gli sorrise. “Benissimo, signor Watson. Conosco il suo nome, ma non il motivo della sua visita. Ha forse riscontrato qualche sintomo insolito? Non si è sentito bene recentemente? È la prima volta che viene qui, se non sbaglio: non mi pare di ricordare altri pazienti con il suo nome.”
John deglutì.
Chiedere? Non chiedere? Chiedere.
“Veramente, non mi presento qui in veste di paziente. Sono qui per domandarle un posto di lavoro come chirurgo, se disponibile.”
Per tutto il resto del colloquio di lavoro, John fu sottoposto ad ogni genere di domande riguardanti la sua vita, la sua esperienza in Afghanistan, i motivi che lo spingevano a trovare un lavoro; tutte domande a cui rispose omettendo però che per 18 mesi aveva svolto l’attività di “aiutante consulente detective”.
Quella specie di interrogatorio durò per circa due ore, dopodiché John venne congedato con un classico e altrettanto scoraggiante “Le faremo sapere”.
Tornando a casa,  non si fermò nemmeno per fare la spesa, nonostante sapesse che nel loro frigorifero – no, nel suo frigorifero, si corresse – non fosse rimasto assolutamente nulla di commestibile: non aveva voglia di mangiare, né di vedere tutta quella gente che provava emozioni, né di sforzarsi a chiacchierare con il commesso mentre pagava (perché i commessi di Tesco hanno sempre tutta questa dannata voglia di chiacchierare? Si chiese perplesso*).
Semplicemente, non aveva voglia di niente.
 
Prese la tube, come all’andata, e quando arrivò a casa si accorse che mrs. Hudson era uscita, forse per qualche commissione. Gli aveva lasciato un biglietto: Caro John, tornerò tardi (cena tra vecchie amiche), ma se hai bisogno di qualsiasi cosa chiama.
La vecchia signora sapeva che lui non l’avrebbe mai chiamata, ma ci aveva provato comunque, come sempre e come tutti: le persone che conosceva, da quel giorno, avevano cominciato ad offrire aiuto per ogni più piccola cosa, nonostante sapessero che ciò di cui aveva bisogno era un miracolo disperato.
Quella notte, fedele alla silenziosa promessa che aveva fatto a se stesso girando la poltrona con le spalle alla porta, non si sedette ad aspettare, ma si spogliò, si fece una doccia gelida e andò a letto. Come sempre, il sonno tardò ad arrivare: gli sembrò quasi di essersi addormentato, o almeno di essere scivolato in quel torpore che precede l’assopimento, quando sentì un rumore provenire dalla cucina.
Non ci fece caso: poteva anche essere un serial killer venuto ad ucciderlo, e non gli importava.
Dalla cucina, il rumore si spostò sul pianerottolo, e poi lungo le scale che portavano alla sua piccola stanza al piano superiore. Sembravano passi, ma nel torpore non riusciva a distinguere se di uomo o di donna: si convinse che era mrs. Hudson che, apprensiva, veniva a controllare che lui stesse effettivamente dormendo. Sentì la porta della sua stanza aprirsi, e qualcuno scivolarvi all’interno. Qualcuno che si stava sdraiando sul letto, al suo fianco: sentì i capelli sfiorargli la schiena, le mani toccarlo come a volerlo svegliare e poi… uno sparo. E un altro, e un altro ancora: una serie di colpi che gli martellavano il cranio.
 
Si svegliò.
 
Era solo, la porta era chiusa, esattamente come l’aveva lasciata prima di addormentarsi, e la parte di letto che per la sua mente era stata occupata da Sherlock era perfettamente in ordine.
Idiota! Sherlock Holmes non avrebbe mai fatto tutto quel rumore. Sherlock Holmes sarebbe sgattaiolato nella stanza senza farsi sentire e non ti avrebbe certamente svegliato in modo così delicato.
Gli spari? La sveglia che nemmeno ricordava di aver puntato.
Erano quelle le cose che lo tormentavano: non l’assenza, non il silenzio dell’appartamento, non l’apprensione degli altri. No, quelle poteva facilmente ignorarle. Ciò che più lo assillava era dentro di lui: i sogni, le ombre agli angoli delle strade, le illusioni fugaci che la sua mente costruiva inutilmente ogni giorno, e che lui puntualmente negava.
Si alzò, senza nemmeno preoccuparsi di fare il letto, andò in salotto, si sedette alla solita poltrona ed iniziò a guardare le persone che camminavano in strada: moltissimi turisti, pochi Londoners che camminavano sicuri verso la loro meta, senza perdersi a guardare ogni negozio, ogni angolo, ogni mattonella, come invece facevano i primi. Persone senza preoccupazioni, persone che probabilmente non avevano mai visto nessuno buttarsi da un tetto e sfracellarsi al suolo come un frutto troppo maturo.
Spesso, John Watson commetteva l’errore, o la presunzione, di pensare di essere l’unico ad avere sofferto della perdita di Sherlock, o di una perdita in generale: per questo, liquidava gli altri come “persone senza problemi”. Probabilmente, sapeva di sbagliare, ma che senso avrebbe avuto ammetterlo a se stesso?
 
Lo squillo del cellulare lo riscosse dai suoi pensieri: rispose, senza nemmeno guardare il numero.
“Pronto? Parlo con il dottor John Hamish Watson?” Piccola pausa quasi impercettibile. “Sono il dottor Frederick Molloy, della clinica privata a cui si è rivolto ieri.”
John pensò che, in quelle condizioni, un altro colloquio di lavoro non era quello di cui aveva bisogno, ma rispose lo stesso. “Sì, sono io. Come posso aiutarla?”
“Dottor Watson, le comunichiamo che siamo lieti di accoglierla nel nostro team a partire da lunedì prossimo. La saluto, è arrivato un nuovo paziente.”
Mai impiego era stato trovato più velocemente. “La ringrazio. Arrivederci, dottor Molloy.”
John riattaccò, e si accorse con amarezza che quello che per molte persone era un momento felice, per lui era semplicemente un momento. Uguale a mille altri, senza sfumature di sentimenti.
Anche quando due giorni dopo varcò le porte della clinica come chirurgo, non si sentì eccitato, o impaurito, o entusiasmato: tutte quelle emozioni, ormai, non facevano più parte di lui. Le aveva respinte lo stesso giorno in cui aveva chiesto ad una tomba un miracolo impossibile.
 
I mesi che seguirono furono tutti caratterizzati dalle stesse giornate: svegliarsi, fare colazione, prendere la tube, lavorare, operare con la precisione di un automa, salvare vite, a volte, e poi tornare a casa, cenare e addormentarsi. Aveva provato ad uscire con qualche ragazza, ma non ci era riuscito: tutte si erano accorte che persino mentre facevano l’amore la mente di John era da qualche altra parte.

Ma John Hamish Watson non fu l’unico a provare dolore, in quei dieci lunghissimi mesi.
Da qualche parte nel mondo, alla caccia di qualche criminale facente parte della rete di Moriarty, Sherlock Holmes per la prima volta in tutta la sua vita (o quasi) provava dei sentimenti e, soprattutto, non capiva. Sherlock Holmes non capiva e questo gli dava sui nervi: non capiva perché John non riuscisse a crearsi una nuova vera vita, non capiva come mai non poteva ritornare a Londra, non capiva come mai il suo cervello fosse rimasto quello di sempre, al contrario di quel qualcosa che si trovava dentro di lui e si contorceva ogni volta che sentiva il nome dell’amico.
Solo una volta, in quegli eterni dieci mesi, era riuscito a tornare a Baker Street: nascosto, aveva spiato John entrare in casa, sedersi davanti alla finestra, sorseggiare una tazza di the,rimanere immobile. Poi se n’era andato.
Aveva chiamato suo fratello Mycroft, l’unico a sapere che lui non era morto, e gli aveva domandato quanto ancora ci avrebbe messo a ripulire la sua immagine da tutto il fango che Moriarty gli aveva gettato sopra. Sapeva benissimo che il vero problema non era quello: non gli era mai importato del pensiero del pubblico. Il vero problema era che mancava qualcosa: ancora un filo di quell’odiosa ragnatela, che si nascondeva da qualche parte, pronto ad avvolgersi attorno a chiunque. Doveva trovarlo, prima di poter tornare.
E un mese dopo (undici mesi, per entrambi), ci era riuscito: ferito, zoppicante, con la voce roca e gli occhi pesti, sarebbe potuto tornare da John. E anche da Molly, Lestrade, mrs. Hudson.
Ma suo fratello maggiore, il Governo Britannico, gli aveva intimato di rimanere lontano ancora un poco: non mancava molto alla completa riabilitazione della sua immagine.
“Ancora qualche mese, Sherlock, e tornerai ad essere l’eroe del Reichenbach.”
“Me ne frego, dei tuoi giornali.” E aveva attaccato la telefonata.
Una settimana dopo era salito su un aereo merci diretto a London-Gatwick: era atterrato di notte e, poiché non aveva un soldo, aveva fatto 47km a piedi prima di trovare qualcuno disposto a dargli un passaggio fino al 221b di Baker Street.
Alle 7, Sherlock Holmes si trovava davanti a casa sua, ancora ferito, zoppicante, con la voce roca e gli occhi pesti: era passato quasi un anno.

Quella stessa mattina, John Hamish Watson si svegliò, come sempre, molto presto, nonostante avesse il giorno libero. Si alzò, andò in cucina, preparò una tazza di the e si sedette alla solita poltrona, ad osservare le solite persone dalla solita finestra. In quegli undici lunghissimi mesi, tornando a lavorare come medico, aveva ripreso il bastone e non aveva mai chiamato un taxi; soprattutto, non aveva più scritto una parola sul suo blog, con grande disappunto di Ella, che insisteva perché lui appuntasse ogni avvenimento rendendolo pubblico al mondo.
Non lo aveva mai fatto per non rivedere tutti quei vecchi casi.
Dopo aver girato la poltrona, non si era più ribellato a nessuna delle sue abitudini, ma decise di continuare quella rivolta interiore quel giorno. Accese il portatile, avviò internet e aprì il suo vecchio blog.
Undici mesi dall’ultima cosa che aveva scritto: Era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.
Non sapeva nemmeno di cosa raccontare, quando aprì la finestra di scrittura di un nuovo post. Cominciò a battere sui tasti, raccontando del suo nuovo lavoro, di qualche operazione che ricordava. La solita banalità.
Mentre digitava, sentì qualcosa, alle sue spalle. Capelli ricci che gli sfioravano la guancia, il tessuto ruvido di un cappotto che gli toccava appena la pelle. Fantasmi, illusioni che si ripetevano da undici mesi.
Non ci fece caso nemmeno quando un dito gli picchiettò la spalla.
È tutta un’illusione: i miracoli non esistono, John Hamish Watson.
“John.” Nessuna reazione. Sherlock si stupì. “JOHN!” Gridò allora più forte.
 
Tutto successe in un attimo: il pc cadde a terra, John si alzò e si girò, trovandosi faccia a faccia con Sherlock, una macchina frenò in strada.
“Sherlock. Holmes.” Due pugni al petto. Non si curava di fargli male.
Altri pugni, senza nemmeno sapere dove colpiva. “Tu. Dovresti. Essere. Morto.”
Non gli importava un gran che, in realtà: ora era lì.
Si fermò solo quando notò che Sherlock non versava nelle migliori condizioni per una scazzottata.
John si calmò, fece bruscamente sedere Sherlock sulla poltrona, andò a prendere cerotti e disinfettante e medicò l’amico tentando di fargli più male possibile.
 
In quel momento, non un attimo prima né uno dopo, John Hamish Watson ebbe la certezza di non aver mai perso Sherlock Holmes.




*Sì, i commessi di Tesco hanno sempre questa dannata voglia di chiacchierare che nemmeno io capisco.

Ecco la prima fanfiction in questo (per me) nuovo fandom: sono caduta anche io nella letale trappola del post-Reichenbach, non posso farci nulla!
Ringrazio il moroso per aver letto e corretto questo "masterpiece", chiedo umilmente perdono per lo schifo e mi ritiro nella mia tana.

Miao!
   
 
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