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Autore: Marguerite Tyreen    15/07/2012    3 recensioni
"Mi vergogno di pensare a queste sciocchezze quotidiane, quando vorrei entrare e dirti ben altro. È che tra il pollo, le scadenze, i soldi che non bastano, a sera c'è poco da parlare di arte e di bellezza, ormai. E anche i nostri sogni non so più in che cassetto li abbiamo riposti: non so nemmeno se ci abbiano seguito in questa casa o se siano rimasti a dormire nell'aula di un'università ormai troppo lontana."
Davide e Barbara: un praticante avvocato e un'impiegata di banca. Una coppia moderna come tante e una città di provincia. Problemi quotidiani e vecchie ambizioni accantonate. La fatica di rassegnarsi e qualche sogno da recuperare: con un po' di illusione e un po' di amore.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Buonsalve, popolo di Efp! ^^
Vengo a tormentarvi con un altro delirio – questa volta vecchio di parecchi mesi – frutto di un periodo ormai chiuso e di una canzone ascoltata in loop per mezza giornata.
Questa storiella è troppo personale per essere decente, ma mi è troppo cara per avere il coraggio di cestinarla. In un certo senso, ve la lascio per liberarmene io.
E niente, grazie di cuore se arriverete alla fine, ma anche soltanto per essere passati di qui.
Un bacione,
Marg.

 

CREDITS: La canzone che è servita per l'idea centrale è “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco. La trovate qui. L'immagine di copertina è “Room in New York” di E. Hopper.
 

 

Ad A.
Anche se non ha più molto senso adesso.



 

Si lo so che questa non è certo la vita
che ho sognato un giorno per noi.

(L. Tenco, Vedrai vedrai)

 

Vedrai, vedrai


 

 

Mi tiro dietro il portone d'ingresso e salgo le scale. Giro la chiave nella toppa, controvoglia: dovremmo oliare anche i cardini, una volta o l'altra, ma finiamo sempre per dimenticarcene.
Sorrido di scherno con me stesso e mi vergogno di pensare a queste sciocchezze quotidiane, quando vorrei entrare e dirti ben altro.
È che tra il pollo, le scadenze, i soldi che non bastano, a sera c'è poco da parlare di arte e di bellezza, ormai. E anche i nostri sogni non so più in che cassetto li abbiamo riposti: non so nemmeno se ci abbiano seguito in questa casa o se siano rimasti a dormire nell'aula di un'università ormai troppo lontana.
-Davide, sei tu? - la tua voce mi arriva dalla cucina. Hai sempre quell'accento così pesantemente emiliano che fa allegria, nonostante abbiamo cambiato città da tempo.
-Sì, Barbara. - poso le chiavi della macchina sul mobile dell'ingresso e appendo il soprabito di sghimbescio all'attaccapanni.
La borsa pesa ancora sulla mia spalla, ma è piena solo di inutili scartoffie. Trentacinque anni, due lauree e faccio ancora fotocopie nello studio dell'avvocato Pavoni.
Tu imprechi qualcosa, nel tuo incomprensibile dialetto, contro l'acqua che ha sbordato dalla pentola, inondandoti il fornello. “Cucino bene, sai. - mi avevi detto quando ci siamo conosciuti. Poi avevi riso – Sposami e smetti di comperarti i panini al bar della facoltà, ché non sai nemmeno se sono freschi.”
Non ti ho sposata, ma abbiamo preso casa comunque. E tu non sai cucinare, ma ti amo comunque.
Io ti avevo fatto ben altre promesse e neppure io le ho mantenute. E mi sento più in colpa, sai, di quanto non ti senti tu per un piatto malriuscito.
-Tutto bene, con lo stronzo? - è il tuo epiteto preferito per l'avvocato.
-La solita noia. - rispondo, stanco.
-Mi sei mancato.
Ti sfuggo e tu ti appoggi allo stipite della porta, tormentandoti il ciondolo che hai al collo.
-Mi manchi sempre, anche quando ci sei.
-Ma la smetti di guardarmi così, Barbara? - sbatto la borsa sul pavimento.
-Così come?
-Come fossi un bambino, accidenti! Un bambino che torna di scuola con un pessimo voto.
-Scusami.
Hai gli occhi grandi, pieni di tenerezza. Smetti di guardarmi, per favore. Sono anni che mi guardi con quell'espressione rassegnata. E non so più se ti ho conosciuta rassegnata o se ti sei rassegnata stando con me. Ho l'impressione di averti reso io così sconfitta, perchè io stesso mi sento sconfitto.
-E' una vita che ti scusi. Non lo sopporto. Di cosa cavolo devi scusarti? Non è colpa tua se a quest'età faccio ancora il portaborse, se tu aspetti ancora un successo che non arriva e se questa vita non ci ha ancora dato niente!
-A me non sembra che non abbia dato niente... mi ha dato... - ti mordi le labbra, perchè sai che non amo i sentimentalismi. E tu sei rimasta la bambina romantica che scriveva racconti su un'agendina nera nel cortile dell'università.
-Sì, non intendevo in quel senso. - sospiro, sentendo la stanchezza farsi più pesante – Intendevo che questo posto da eterno precario mi sta inaridendo. Che non vale di certo i sacrifici che ho fatto, che non vale gli anni buttati all'Accademia a Roma. Che io non l'ho mai calcato un palco, non ho mai fatto del cinema, riducendomi a spostare scartoffie in un ufficio.
-Lo so, che non è degno di te. - hai gli occhi lucidi, mentre mi accarezzi i capelli – Ma cambierà, vedrai. Cambieranno le cose.
-Non è questa la vita che sognavamo, Barbara. Non è quello che ti avevo promesso.
-Ma che mi importa? Che mi importa? Mi distrugge solo vederti così. Magari non sarà proprio domani, ma arriverà qualcosa di meglio, ne sono sicura.
-Mi chiedo come tu faccia a farti bastare la speranza. Quanto tempo è che non commentiamo un film?
-Come?
-Sì, sì, rispondimi: quanto tempo è che non commentiamo un film, come facevamo nel cortile dell'università?
-Ma non lo so. Non ne ho idea.
-Da quanto tempo non scrivi?
Ti torturi le mani.
-Non lo so.
-Abbiamo mandato tutto in mona, Barbara. Il cinema, la scrittura, l'arte, la “vita dello spirito”, come la chiamavi tu. Guarda come ci siamo ridotti.
-Davide, per favore...
-Davide, Davide... Davide è stanco.
Davide è stanco e non ti capisce. Lo so che dietro la tua espressione c'è più di quanto non dici. Ed io ho paura ad entrare nel tuo mondo, a volte. Ho paura di tutto: quella forte sei sempre stata tu. Ho paura di prenderti le mani e dirti che sei importante e parlarti davvero seriamente di tutto questo, perchè fra l'ironia e la rassegnazione mi diventi troppo spesso inaccessibile.
Entro in cucina e c'è una busta sulla credenza. Tu stai sistemando il mio soprabito ed io la leggo. Un altro rifiuto dall'editore e la prospettiva di passarci davvero gli anni a contare i centesimi in banca. Sono un egoista, Barbara. Lo so come ti senti dentro. Lo so perchè ci sono passato anch'io, alla tua età e perchè ci sto ancora passando. E conosco la fatica di vagare per la strada solitaria dei sogni.
-Mi dispiace, Barbara.- ti dico, riparato dal muro.
-Non importa. Il cassetto della mia scrivania è grande: di storie ne può contenere ancora.
Mi raggiungi.
-Vieni qui.
Ti abbraccio. Sai di buono, di casa e di inchiostro. Io devo sapere di pioggia, ne ho presa tanta, prima.
-Vedrai che hai ragione. Cambierà tutto, ce ne andremo da questa provincia, avremo quello che sognavamo.
-Arte e amore?
Annuisco: -Arte e amore.
-Sono un disastro, ma non può essere tutto finito, no?
-No, non può. Non so dirti come e quando cambierà, ma non può.
-Ho un po' paura, sai.
-Anch'io. - e mi dispiace ammetterlo – Piangi, su. Piangi. Preferisco così. Arrabbiati, Barbara, tira qualche accidente al giorno che ci siamo incontrati. Incazzati con me perchè ti ho delusa, piuttosto che prendere quello che viene. Sei troppo dolce da risultare imbarazzante.
-Davide, ma a cosa mi serve? Io lo sapevo a cosa andavamo incontro. E ho scelto te, perchè quando ti togli quel completo scuro da aspirante avvocato, sei un artista. E perchè quando io esco da quel buco di banca, sono un'artista. Nessuno ci può togliere questo. Indipendentemente dal successo che si ha, un artista rimane tale, se lo è nell'animo. Sono parole tue. Sono parole tue di quando ti ho conosciuto. Come avrei potuto rimanerne indifferente?
Scosto la tenda. Dietro i vetri la periferia di Padova si agita, prima di ritirarsi definitivamente in casa. Qui non è Parigi e non è Hollywood. Non è nulla, solo una periferia del nord est: niente di più della cittadina in cui sono cresciuto e niente di meno della provincia da cui ti ho portata via. Ma è il tempo, il luogo che ci è dato dal caso. È quello che abbiamo. È quello che hai, a parte me.
Mi abbracci, arrivandomi alle spalle.
-Davide, mi fa disperare vederti così infelice. Vorrei darti qualcosa di più, ma...
-E cosa? È tutto qui.
-Però sono felice che sia tutto qui, a volte. In fondo, se siamo insieme è perchè le circostanze sono queste. In altre, forse, non ti avrei trovato. O ti avrei perso.
-Forse. Forse sì. Ma vedrai, vedrai, Barbara, che...
-Non voglio vedere, Davide. Non mi interessa di cosa sarà domani, ad un certo punto. La penna posso chiuderla se non vale nulla, il cinema possiamo lasciarlo a chi lo sa fare davvero.
-Non dovresti rinunciare. I sogni sono quello che ci tengono in vita, quello che ci salvano da questa mediocrità, da questo provincialismo.
-Lo so, lo so. Ma magari sono un orizzonte che si sposta. Un orizzonte a cui tendiamo, ma che non è necessario raggiungere.
Ti prendo le mani nelle mie, quando tu appoggi il viso sulla mia spalla.
-E se ci ridurremo ad essere proprio quello che non volevamo?
-Io volevo solo un lavoro che mi lasciasse tempo per scrivere. E tempo per te. Saremo ciò che vogliamo essere, come allora.
-E se non cambiasse nulla, Barbara?
-Vorrà dire che saremo ancora qui, abbracciati a guardare la sera. Un po' di successo non vale questo momento. Non è poi così male, no?
No, non è così male. Stringimi, Barbara. Stringimi forte e respira contro la mia schiena. Fammi sentire che ci sei. Che conto più dei sogni, per te. Che non mi lascerai andare.
-Sai che fanno una rassegna sul cinema di Bergman? - ridi appena.
-Davvero? Dovremmo riprenderci del tempo, io e te.
-Decisamente. - passi la mano tra i miei capelli.
Non è così male, Barbara. Non è così male affatto.

 

 

Fine

   
 
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