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Autore: serelily    17/07/2012    9 recensioni
Elisa non avrebbe mai voluto che suo figlio nascesse in quel posto, ma era stata costretta a farlo. Primo, perché il pianeta Terra non era più abitabile in gran parte delle sue terre emerse. Tutta l’Europa, gran parte dell’Asia e l’America del Nord erano diventati luoghi invivibili.
Per cui, i coloni come lei erano costretti a vivere sugli Asteroidi, nell’attesa che venisse loro indicato il pianeta in cui potevano insidiarsi.
Questa storia fa parte della Challenge "Dal nome alla storia" di Nonnapapera!
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Questa storia fa parte della Challenge Dal nome alla storia  di Nonnapapera! Il protagonista è Luciano: nato alle prime luci del mattino.

Vi lascio le immagini dei protagonisti: Luciano e Alberto
Volevo spendere due parole su questa stora: è nata da un'idea improvvisa che ho avuto leggendo il significato del nome Luciano. Nato alle prime luci del mattino...così ho pensato, e se invece fosse nato in un luogo che non ha nessuna alba, tipo un'astoide? Ed ecco che è venuta fuori sta roba!
E' fortemente influenzata da Guerre Stellari e un po' anche da Doctor Who =) Due mie grandi passioni.. Il ritmo è molto scorrevole... è un effetto voluto XD
OK, la smetto di blaterare e vi lascio alla lettura...




RITORNO SULLA TERRA



Anno 3014
Asteroide B507K
Elisa non avrebbe mai voluto che suo figlio nascesse in quel posto, ma era stata costretta a farlo. Primo, perché il pianeta Terra non era più abitabile in gran parte delle sue terre emerse. Tutta l’Europa, gran parte dell’Asia e l’America del Nord erano diventati luoghi invivibili.
Per cui, i coloni come lei erano costretti a vivere sugli Asteroidi, nell’attesa che venisse loro indicato il pianeta in cui potevano insidiarsi.
Secondo, l’Asteroide era solo un luogo di passaggio, per cui non era sicuro. Il suo bambino era speciale, e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di portarglielo via.
Avrebbe tanto voluto che il bambino nascesse sul pianeta Veniria, dove tutto era verde e calmo e tranquillo. Sarebbe stato bello se fosse nato alle prime luci del mattino, quando ancora l’aria era fresca e pulita, quando tutto era immobile, calmo e placido, come in attesa dell’arrivo del giorno.
Elisa amava quel momento della giornata, per questo aveva deciso di dare al bambino il nome di Luciano. Era stato suo padre a dirgli che nell’antica Roma voleva dire “nato alle prime luci del mattino”.
Invece, il piccolo stava per nascere su un buio asteroide, lontanissimo dalla Terra e da qualunque altro pianeta in grado di dargli quello che meritava.
Aveva cercato di resistere, di ignorare le contrazioni e il dolore, ma quando le acque si erano rotte, non poteva più fingere. Le infermiere della stazione di controllo l’avevano portata in una struttura sterilizzata, dove la disposero su un lettino, divaricandole le gambe e dicendole di aspettare il medico.
Non fece in tempo ad arrivare. Il dolore divenne sempre più forte, ed Elisa lasciò che fosse l’istinto a guidarla. Spinse, spinse, spinse fino anche a perdere l’anima, e quando sentì che il bambino stava uscendo, continuò a spingere, sapendo che era giusto.
Quando le infermiere tornarono, presero il bambino che piangeva disperato tra le gambe della madre, sporco di sangue e di liquidi, con il cordone ombelicale ancora attaccato.
Si sporsero per chiedere alla donna se voleva tenere in braccio il suo bambino, ma si accorsero subito che qualcosa non andava.
Elisa aveva lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi vuoti e freddi. Le sue braccia cadevano mollemente ai lati del lettino, prive di vita.
Il suo cuore aveva smesso di battere nel momento stesso in cui suo figlio aveva respirato per la prima volta.
Una delle donne strinse al petto il piccolo corpicino, mentre l’altra controllò la donna per sincerarsi della sua morte. Le prese una delle due mani, e sul palmo vide poche lettere scritte di fretta con una penna. Doveva averlo fatto poche ore prima, quando aveva sentito le prime contrazioni arrivare.
Solo una parola spiccava sulla pelle candida: Luciano.
 
Anno 3042
Veniria era il più bel pianeta su cui Alberto fosse stato. Era contento che la sua famiglia fosse riuscita a permettersi una villa in quel posto meraviglioso, proprio su un lago ghiacciato che riempiva il cuore di gioia solo a guardarlo.
Quando l’Italia era stata evacuata, dopo che i livelli di smog e radiazioni avevano raggiunto altezze critiche, la famiglia di Alberto aveva subito cercato una sistemazione consona al loro status. E dove potevano andare, se non nel pianeta più bello dell’universo. Un pianeta dove era sempre primavera, ma con enormi laghi ghiacciati dove si poteva pattinare e ci si poteva divertire.
Alberto era felice di essere cresciuto in un posto meraviglioso come quello, e non poteva chiedere di meglio dalla vita.
Come consuetudine, quel giorno si sarebbe presentato all’Alto Consiglio della città, visto che stava per compiere diciotto anni e sarebbe ufficialmente entrato nella vita adulta.
Si era preparato con cura a questo evento, mettendosi i suoi abiti migliori e facendosi truccare da tutti gli esperti che sua madre Mariangela si portava sempre dietro.
Ora era pronto.
I saggi erano disposti in cerchio, sulle loro poltrone elettroniche, e lo fissavano. Alberto arrossì come un bambino, imbarazzato per tutta quella attenzione che gli stavano dando. Avrebbe voluto nascondersi e basta.
«Benvenuto tra gli adulti, giovane Alberto.» disse una voce indistinta, che il ragazzo non seppe collegare a nessuno dei visi.
Sapeva che i saggi non parlavano, ma ti infondevano nella testa le loro parole, eppure sperimentarlo di persona era strano ed inquietante.
«D’ora in poi, il tuo unico obiettivo sarà quello di obbedire alle leggi dell’Alto Consiglio e di fare tutto il possibile per diventare un orgoglio per la città.» riprese la voce.
«Sì,» fece il ragazzo inginocchiandosi e chinando il capo «sono pronto a diventare un cittadino, saggi.»
Un ragazzino, forse uno schiavo, si avvicinò a lui per mettergli al collo il ciondolo simbolo della città. In realtà era un cip che controllava i movimenti delle persone, per evitare che tenessero comportamenti contro la legge. Veniva dato a tutti per mantenere l’ordine pubblico e per rendere i cittadini partecipi della vita della comunità.
Lo schiavo stava per mettere il cip al collo di Alberto, quando all’improvviso vi fu un enorme boato e la stanza si riempì di fumo all’istante.
Un gruppo di figure nere entrò nella stanza con i fucili carichi in mano. Molti di loro si disposero davanti ai saggi, puntandogli le armi contro, altri invece andarono dietro di lui, dove c’era la sua famiglia, sempre per tenerli sotto tiro.
L’ultimo ad entrare fu un ragazzo più grande di lui, alto, muscoloso e slanciato. Alberto non poteva vedergli il volto, parzialmente coperto da una sciarpa nera, però poteva vedere i suoi meravigliosi occhi azzurri. Erano così limpidi e chiari da ricordare l’acqua della piscina nella sua casa, oppure le cascate che con la loro forza rompevano il ghiaccio dei laghi, rivelando l’azzurro sottostante.
«Ora state tutto buoni qui,» disse il ragazzo con voce minacciosa «se non fate scherzi le cose andranno a finire bene.»
Senza aggiungere altro, due uomini si avvicinarono ad Alberto e lo presero per le spalle, trascinandolo via.
I suoi famigliari provarono a fermarli, ma erano accerchiati dagli uomini vestiti di nero, mentre il ragazzo con gli occhi azzurri ordinò loro di portare via Alberto e di ritirarsi.
Nel marasma generale, Alberto si accorse a mala pena dell’ago che gli conficcarono nel collo, ma dopo qualche secondo la sua vista si annebbiò, fino a calare del tutto.
 
Si risvegliò in un luogo che non conosceva. Era freddo, grigio e sembrava la cella di una prigione. Era steso su un morbido lettino, mentre attorno a lui un ragazzo vestito di arancione stava trafficando con alcuni strumenti.
Provò ad alzarsi, ma la testa gli girava troppo forte.
«Non dovresti,» disse il ragazzo «riposa ancora, almeno finché gli effetti del narcotico non svaniscono del tutto.»
«Perché sono qui?» biascicò Alberto, riconoscendo a stento la propria voce.
«Non sono la persona giusta per dirtelo. Mi chiamo Martino e mi prendo cura delle persone. So qualcosa di medicina, anche se non sono certo un dottore. Dobbiamo arrangiarci come possiamo,
qui alla base. Scusami, sto parlando troppo, il capo dice che non ti dobbiamo disturbare.»
Gli fece un sorriso gentile, poi si allontanò, uscendo dalla porta automatica e lasciandolo solo nella stanza.
Dall’altra parte della base, il ragazzo con gli occhi azzurri si era messo le mani tra i capelli, sospirando stancamente.
«Non dovresti essere così pensieroso,» disse la vocina di una ragazza «è andato tutto bene, abbiamo preso il ragazzo. Cosa volevi di più, Luciano?»
«Niente!» rispose freddamente Luciano passandosi le dita sugli occhi e cercando di svegliarsi «Solo che è stato fin troppo facile prenderlo. Pensavo che sarebbe stato scortato da energumeni armati fino ai denti, invece in meno di mezz’ora siamo riusciti a prenderlo e portarlo via.»
«Pensi che ci sia qualcosa sotto?»
«Non lo so, Margherita, ma dobbiamo stare attenti. La missione è troppo importante. Appena il ragazzo si sveglia, portalo da me.»
Margherita annuì, facendo sventolare la bionda chioma, prima di uscire dalla stanza e lasciare solo Luciano.
Il ragazzo si fermò a guardare distrattamente l’ologramma di sua madre; giovane, bella e sorridente, era così che appariva nell’immagine blu sfocata.
La carezzò con le dita, ma non sentì la consistenza della carne, solo il freddo pizzichio del contatto che veniva interrotto.
Rise infelicemente al pensiero del nome che gli aveva dato. Luciano, colui che nasce alle prime luci del mattino. Proprio lui, che era nato su uno sperduto asteroide qualsiasi, sotto il freddo e buio spazio sconfinato. Lui, che nella sua vita non aveva altro che notte.
Scosse la testa, sospirando. Avevano bisogno di Alberto; se il ragazzo non avesse collaborato con loro, sarebbe stato tutto inutile.
 
Dopo un paio d’ore, Alberto si sentiva meglio. Il giovane che l’aveva curato era tornato e gli aveva portato qualcosa da mangiare. Era gentile con lui, e Alberto ne fu rincuorato. Sapeva che la famiglia di suo padre era molto importante e piena di nemici, quindi non era rimasto poi così sorpreso del suo rapimento. Era contento che non l’avessero picchiato o buttato in una cella buia, non l’avrebbe sopportato.
Poco dopo il ritorno del ragazzo, entrarono altre persone nella stanza. Una donna e due uomini. Lei era bionda, piccolina con un viso a forma di cuore. Aveva un cipiglio imbronciato, come se lo stare lì fosse per lei un peso enorme. I tizi dietro di lei erano entrambi alti, grossi e muscolosi, il volto freddo e severo non lasciava trapelare le emozioni. Erano identici, gemelli.
«Margherita!» esclamò sorpreso il ragazzo vedendola «Che ci fai qui?»
«Il capo ha detto che vuole vedere il ragazzino.» rispose lei con voce dura, indicando malamente Alberto.
«Perché mai ti sei portata i gemelli?» continuò Martino, osservandola corrucciato «Ti aspetti forse che ti aggredisca nel bel mezzo della nostra base?»
Margherita non rispose. Andò dritta al lettino e prese Alberto per un braccio, trascinandolo giù con uno strattone.
«Muoviti,» disse duramente «non ho tempo da perdere.»
Alberto venne letteralmente trascinato via dalla ragazza, mentre i due energumeni camminavano dietro di loro e gli lanciavano occhiatacce cupe.
Il ragazzo, che grazie a Martino si era tranquillizzato, ora cominciava serialmente ad avere paura.
Non aveva la più pallida idea di dove lo stessero portando o di quello che gli avrebbero fatto.
Arrivarono davanti ad una porta grigia. Margherita mise la sua mano sulla superficie e questa si aprì in automatico.
«Risponde solo al Dna di chi è stato autorizzato,» gli disse lei con voce dura «quindi non provare a fuggire. Non servirebbe a nulla e ci faresti perdere tempo.»
Alberto gettò un’occhiata ai gemelli, e capì che perdere tempo equivaleva a farli arrabbiare, e farli arrabbiare equivaleva a venire maltrattato.
Meglio non provare a fuggire con quei due di fianco.
«Siamo qui» disse all’improvviso Margherita, con la voce addolcita e l’espressione morbida.
Alberto spostò lo sguardo davanti a sé, e lo vide.
Lo riconobbe immediatamente, nonostante non l’avesse visto in faccia. Eppure, quegli occhi erano inconfondibili. Non poteva essere che lui, il ragazzo che aveva organizzato il rapimento.
E nonostante i suoi occhi fossero certamente bellissimi, non poteva negare che la linea della mascella velata da una leggera barba, il naso pronunciato e le labbra morbide e piene fossero dannatamente sexy.
Alberto sapeva che provare attrazione per una persona che voleva ucciderti era controproducente, ma non poteva fare a meno di guardarlo sognante.
«Grazie, Margherita,» disse lui con voce pacata ma profonda, che mandò brividi in tutta la schiena del diciottenne «puoi lasciarci soli, ora. Ti farò chiamare quando dovrai riportarlo nella sua stanza.»
Margherita non doveva essere rimasta soddisfatta dalle parole del ragazzo, perché strinse le labbra e sembrò sul punto di dire qualcosa. Poi rinunciò, uscendo dalla stanza assieme ai due gemelli.
Il ragazzo fece cenno ad Alberto di sedersi di fronte a lui.
«Ti starai chiedendo cosa fai qui e perché ti abbiamo preso, immagino» disse passandosi una mano tra i cortissimi capelli biondo cenere.
Alberto annuì, non avendo idea di che cosa aspettarsi.
«Come hai potuto vedere entrando in questa stanza, esistono porte che possono essere aperte rivelando il Dna attraverso il contatto con l’epidermide. La nostra base dispone di queste porte, ma sono modelli obsoleti, ormai, e facilmente ingannabili. Tu sei qui per aiutarci a superare porte molto più tecnologiche.»
Alberto lo guardò stupito, non avendo idea di come avrebbe potuto fare lui per aiutarli. Non aveva idea di come si potessero ingannare certi sistemi di sicurezza, non era certo la persona adatta.
«Vedi, Alberto, noi abbiamo bisogno di una cosa che tuo padre custodisce con molta cura. Una cosa molto importante per la nostra sopravvivenza. Questa è conservata su uno dei piccoli satelliti del pianeta, e la struttura nella quale si trova usa diversi sistemi di sicurezza.»
Si interruppe un attimo per essere sicuro che il ragazzo più piccolo avesse la sua completa attenzione, prima di iniziare a spiegare come mai avevano scelto proprio lui.
«La porta più esterna richiede un codice di sicurezza che siamo riusciti a rubare. Poi la seconda e la terza richiedono l’analisi del Dna come quella che hai usato per entrare qui. Dell’ultima porta non sappiamo molto, ma siamo sicuri che qualunque membro della vostra famiglia può entrare. Se ci aiuterai, noi ti lasceremo libero e incolume.»
Alberto non rispose, lo sguardo perso nel vuoto. Lo stavano mettendo davanti ad una scelta difficile; tradire la sua famiglia oppure venire ucciso. Era sicuro che non l’avrebbero lasciato in vita, se non avesse ubbidito alle loro richieste.
«Posso almeno sapere che cosa state cercando?» chiese con voce fredda.
Il ragazzo sospirò, come se si aspettasse quella domanda ma non avesse idea di come rispondere. Si passò di nuovo una mano nei capelli e poi lo guardò negli occhi.
«Nessuno è d’accordo con il rivelarti questa informazione, ma io sono il capo e spetta a me la decisione finale. So che se non te lo dico non ci aiuterai, quindi sarò sincero con te. Gli umani sono originari del pianeta Terra, un pianeta che diversi anni fa era stato evacuato a causa dello smog e delle radiazioni. Il pianeta è stato posto in quarantena, e tutti gli umani si sono sparpagliati. I più fortunati sono venuti a vivere qui, su Veniria, mentre gli altri si sono dovuti accontentare dei centri di accoglienza sugli asteroidi.
Un paio di anni fa, alcuni scienziati hanno analizzato lo status del pianeta e l’hanno giudicato vivibile. Tutti gli umani potrebbero tornare a casa, ricominciare la loro vita sul loro pianeta d’origine.»
Si fermò a guardarlo di sottecchi, quasi fosse indeciso se continuare o meno, mordendosi il labbro inferiore.
«Non so se mi crederai o meno, ma devi sapere. Tuo padre ha fatto sparire gli scienziati e ha nascosto i documenti che approvano la riapertura della Terra.»
Alberto non poteva credere alle sue orecchie.
«Non può essere vero, perché mai avrebbe fatto una cosa del genere?» urlò sconvolto. Suo padre era una persona splendida, non avrebbe mai fatto una cosa simile ai membri della sua stessa specie.
«Non capisci,» sbottò l’altro «tuo padre vive grazie ai centri di accoglienza. Nelle sue fabbriche sparse sui vari asteroidi lavorano tutti gli umani che non si sono potuti permettere una casa su un altro mondo. Se dovessero tornare sulla terra, lascerebbero il lavoro e le imprese di tuo padre fallirebbero. Lui li sfrutta, li paga una miseria e loro non si ribellano perché altrimenti non saprebbero come andare avanti, ma se riavessero indietro il pianeta, sarebbe lui a ritrovarsi nei guai.»
Alberto non riusciva a crederci, continuando a fare no con la testa mentre l’altro ancora parlava. Non era vero, lo stava prendendo in giro per convincerlo a fare quello che voleva.
«Non ti sto mentendo, Alberto» fece l’altro, stupendolo.
Era la prima volta che pronunciava il suo nome, facendolo arrossire sulle guance.
«Io…» balbettò il ragazzo.
«Puoi pensarci, hai un paio di giorni di tempo. Dopo, voglio una risposta concreta»
 
Il giorno dopo, Alberto si aggirava per la base incuriosito. Finalmente aveva scoperto chi erano i suoi rapitori. Facevano parte di un gruppo di resistenza chiamato “Luce del mattino” che lottava da anni per salvare gli umani costretti a vivere nei centri di accoglienza e per abolire la schiavitù nei pianeti colonizzati dagli umani.
Non riusciva ancora a credere che suo padre avesse davvero nascosto una cosa tanto importante, ma i ragazzi della resistenza gli sembravano sinceri e onesti, quindi non sapeva più cosa pensare.
Girando in un corridoio, vide il ragazzo dagli occhi azzurri intento a fissare uno schermo sintonizzato sull’immagine di una giovane donna.
Alberto si fermò dietro di lui, osservandolo mentre il suo cuore cominciava a battere impazzito.
«E’ molto bella,» disse imbarazzato per attaccare discorso «chi è?»
Il ragazzo si voltò a guardarlo con un sorriso triste.
«Lei era mia madre,» rispose «è morta dandomi alla luce. È in suo nome che è nata la resistenza.»
Alberto lo fissò ammutolito, un’espressione dispiaciuta dipinta sul volto giovane.
«Il nome “Luce del mattino” deriva dal significato del mio nome,» spiegò lui «Luciano, colui che nasce alle prime luci del mattino.»
«Ed è così? Sei nato alle prime luci del mattino?» chiese Alberto.
«No,» rispose «sono nato su un asteroide. Non c’è stata nessuna luce, nessuna alba alla mia nascita, né in tutta la mia vita. A volte penso che il mio nome non rispecchi per niente quello che sono.»
Alberto non era d’accordo. Tutto in Luciano era luminoso come l’alba, anche se lui pareva non accorgersene.
«Mia madre era povera,» cominciò a raccontargli «non poteva permettersi una casa in un altro pianeta, così venne smistata all’Asteroide B507K dove nacqui io. Morì di parto perché non vi erano le strutture e il personale adatto per aiutarla, senza contare che era costretta a lavorare per quindici ore al giorno nonostante fosse al nono mese di gravidanza. Sono passati ventotto anni dalla sua morte, ma le cose non sono cambiate poi molto. È per questo che continuiamo a lottare.»
Alberto non sapeva cosa risponderli, sentiva soltanto una grande confusione in testa.
Prima di allora, non aveva idea di quello che succedeva al di fuori delle sue mura dorate, non aveva idea che nella galassia ci fossero condizioni di vita così misere. Era cresciuto nella convinzione che gli umani abitassero tutti in case come la sua, grandi e dotate di ogni confort.
«Hai mai sentito parlare della terra, il pianeta da cui veniamo?» al cenno di diniego di Alberto, cominciò a raccontare «Noi veniamo da uno stato chiamato Italia, che faceva parte del continente Europeo. Era bellissima, piena di opere d’arte, paesaggi meravigliosi, traboccante di cultura. Tutto è stato rovinato a tal punto da dover mandare via la popolazione nello spazio…»
«Mi sarebbe sicuramente piaciuta.» disse Alberto senza riflettere. Luciano sorrise.
«Potresti ancora vederla, se riusciamo ad arrivare ai documenti.»
Alberto lo guardò con occhi seri, poi prese la sua decisione.
«Vi aiuterò, vi porterò ai file.»
 
Era passato un mese dalla decisione che aveva fatto entrare Alberto nella resistenza. Dopo quanto aveva scoperto su suo padre, non solo aveva deciso di aiutarli, ma voleva essere uno di loro.
In un primo momento, la scoperta di essere figlio di un uomo tanto perfido (non era solo per i documenti, ma per la scoperta di tutte le malefatte che suo padre faceva di nascosto dalla sua famiglia e dai cui provenivano tutti i loro soldi) l’aveva atterrito, poi gli aveva fatto nascere la voglia di combatterlo, di provare in qualche modo a riscattare il suo nome. E così si era ritrovato a chiedere a Luciano di poter essere uno di loro.
Luciano aveva chiesto a tutti se accettavano che Alberto entrasse nel gruppo, e la maggioranza aveva votato favorevolmente. Soltanto Margherita e i gemelli erano contrari.
Alberto aveva capito perché la ragazza l’avesse preso in antipatia. Era palesemente innamorata di Luciano, e non sopportava il fatto che il ragazzo si fosse affezionato a lui.
Erano quasi pronti per andare in spedizione e provare ad entrare nella struttura che suo padre aveva utilizzato per nascondere i documenti.
Alberto ovviamente sarebbe andato con loro, e per questo si stava preparando nella palestra assieme a Martino, uno dei pochi con cui aveva stretto amicizia lì dentro.
«Sei in grande forma» disse una voce divertita dietro di lui. Era Luciano, venuto a controllare come procedesse il tutto.
«Grazie» ripose Alberto arrossendo come un bambino. Martino intanto li guardava sorridendo e scuotendo la testa.
«Io vado a controllare gli altri, ci vediamo più tardi» gli disse, il sorriso sulle labbra mentre li lasciava soli, chiudendosi dietro la porta della stanza.
«E’ un po’ che sei qui con noi» iniziò Luciano senza guardarlo negli occhi «come ti trovi?»
«Bene» fece Alberto, ancora rosso sulle guance «a parte Margherita che non mi sopporta. Per il resto, non c’è problema.»
«Margherita è solo un po’ dura, ma vedrai che presto miglioreranno le cose. Hai deciso di aiutarci, questo è importante.»
«Non credo che il suo problema siano le mie origini,» fece il ragazzo divertito «ma il fatto che io ti stia così simpatico.»
Luciano lo guardò con un’espressione perplessa.
«E’ cotta di te, non l’avevi notato? Forse le dà fastidio che sprechi il tuo tempo con me invece che dedicarti a lei» spiegò il più piccolo ridendo.
«E’ impossibile» disse Luciano confuso «io non…»
«E’ così, te lo assicuro. Mi stupisce davvero che tu non te ne sia accorto» trovava la cosa molto divertente, soprattutto davanti all’espressione sconvolta dell’altro.
«Non è questo è che… insomma, lei sa che non ci potrà mai essere niente tra di noi»
«E perché mai?»
«Perché…» improvvisamente il volto di Luciano si era fatto molto vicino.
Una sua mano - grande, calda e delicata - andò a posarsi sulla guancia di Alberto, carezzandola dolcemente. Il ragazzino era immobile, pietrificato. Sentì le guance bollenti imporporarsi, il respiro bloccato in gola.
Luciano chiuse gli occhi e si avvicinò ancora di più, finché le due labbra non si sfiorarono. Alberto sentì un brivido partire dalla schiena e diffondersi in tutto il corpo.
Non era un bacio sensuale o esperto, era solo uno sfiorarsi di labbra, eppure lo elettrizzava come niente nella sua vita.
Luciano, non vedendo risposta nel giovane, si ritrasse, osservandolo malinconico.
«Mi dispiace,» gli disse tristemente «forse non avrei dovuto.»
Alberto si riscosse, capendo che Luciano aveva smesso di baciarlo credendo che a lui non piacesse. Senza pensare, gli gettò le braccia al collo e premette la bocca sulla sua.
A contatto con le sue labbra, sentì il sorriso di Luciano, che lo strinse a sua volta fino a farlo sollevare da terra e a premerlo contro il suo petto.
Rimasero così per un tempo infinito, senza approfondire il contatto delle loro bocce, godendosi semplicemente quell’innocente, timido sfiorarsi di labbra.
 
Dopo quell’episodio non ce ne furono altri. Alberto sapeva che Luciano era troppo preso dalla missione e che il discorso sarebbe stato ripreso dopo, ma non poteva fare a meno di sorridere ogni volta che lo guardava, ricordando il suo sapore come se l’avesse baciato un attimo prima.
La sera prima della missione, Alberto era seduto nella sua stanza, con in mano un tablet a ripassare gli ultimi dettagli della missione.
Luciano era andato da lui per assicurarsi che andasse tutto bene, ed era rimasto ad osservarlo mentre si preparava.
«Sei inquietante, sai» disse il più giovane «non mi piace essere fissato in quel modo.»
«Non è colpa mia se sei così carino» disse l’altro con un sorriso, avvicinandosi e togliendogli l’aggeggio dalle mani per posarlo sulla scrivania.
«Vieni» gli disse, prendendolo per mano. Lo condusse al letto, lo fece stendere e si posizionò di fianco a lui, stringendolo in un abbraccio.
«Se qualcosa dovesse andare storto domani…»
«Andrà tutto bene» lo interruppe Alberto massaggiandogli la nuca con i polpastrelli.
«Se qualcosa dovesse andare storto» riprese lui «voglio che torni dalla tua famiglia.»
Alberto sospirò, non sapendo cosa ribattere.
«Nessuno sa che ti sei unito a noi» continuò Luciano «nessuno sospetterà nulla. Penseranno che ci hai portati lì per salvarti la vita. Se gli dirai così, ti crederanno.»
«Non voglio abbandonarti» disse tristemente, stringendosi contro il suo petto, improvvisamente inquieto.
«Allora prega che vada tutto bene» fece Luciano baciandogli la fronte, guardandolo titubante «Vorrei che tu venissi con me sulla terra. Lo faresti?»
«Sì» rispose sicuro «verrei dovunque con te»
«Vorrei portarti dove vivevano i miei nonni, prima che il pianeta fosse fatto evacuare. Ci compreremmo una casina e, chi lo sa, magari anche un po’ di terra da coltivare. Non sarebbe magnifico?»
«Sì. Tu coltivi la terra e io gestisco.» fece Alberto ridendo.
«Sei il solito» fece Luciano prima di baciarlo sulle labbra e stringerlo a sé «Spero tanto che riusciremo ad averlo, quel futuro.»
Luciano prese a baciarlo più forte, lasciando venire le due lingue a contatto e cominciando a vagare le mani sulla schiena.
«Ehi,» fece Alberto staccandosi per respirare «non dovevamo andarci piano, noi due?»
«E questo chi lo ha deciso?» chiese Luciano con lo sguardo corrucciato.
«Beh, pensavo che fosse così» Alberto arrossi. «Non mi hai più baciato dopo quella volta in palestra.»
«Possiamo restare così, se vuoi» disse il ragazzo più grande, prendendolo sottobraccio e baciandolo sulla testa «posso raccontarti ancora com’era l’Italia e immaginare come sarà quando ce la saremo ripresa»
Alberto annuì soddisfatto, addormentandosi poco dopo con il dolce suono della voce di Luciano in sottofondo.
 
Finalmente erano davanti alla struttura dove erano nascosti i documenti. Era ben mimetizzata tra la giungla dove suo padre l’aveva fatta costruire. Le pareti erano verdi e completamente ricoperte di piante rampicanti.
Avevano passato ore a cercare l’ingresso principale, l’unica porta che si apriva con un codice di accesso che Margherita aveva rubato appositamente per loro durante il rapimento di Alberto.
Il ragazzo osservava ammutolito la porta aprirsi su un lungo corridoio completamente grigio, in netto contrasto con il colore esterno.
Entrarono con cautela, sebbene sapevano che l’edificio non era controllato. Non era il caso di prendere la cosa sottogamba, i controlli potevano essere aumentati da quando Alberto era stato rapito. Luciano era stato molto chiaro, su questo. Non dovevano rilassarsi troppo; se avessero trascurato anche una minima parte, sarebbe andato tutto a rotoli.
Alberto gli stava vicino, il respiro trattenuto. Quando l’aveva visto prendere in mano la pistola, si era spaventato, ma Luciano l’aveva guardato e gli aveva sorriso, trasmettendogli tutta la sua calma e fiducia.
Ce la faremo, sembrava dirgli.
Ben presto arrivarono davanti alla prima porta. Come gli aveva spiegato Luciano, tutte le porte avevano di fianco un congegno, un piccolo schermo. Bastava che Alberto ci mettesse sopra la mano e si sarebbero aperte automaticamente.
Il ragazzo lo fece, e infatti le due metà della porta si distanziarono l’una dell’altra, aprendo il varco per passare.
Sorridendosi, i due ragazzi la oltrepassarono per primi, seguiti dagli altri del gruppo. Erano dieci in totale; tra di loro vi erano anche i gemelli, Margherita e Martino.
«Quante porte ci restano?» chiese Luciano alla ragazza.
«Tre» rispose lei con l’espressione corrucciata, ma ci sono alcune probabilità che l’ultima abbia un qualche congegno di cui non siamo a conoscenza.»
«Speriamo di no» fece il ragazzo, mettendo istintivamente una mano sulla spalla di Alberto «ora andiamo.»
Per fortuna, tutto filò liscio con le prime due porte, ma ciò che disse Margherita si rivelò veritiero. Infatti l’ultima porta non si apriva semplicemente con il Dna di Alberto, ma necessitava di una particolare chiave magnetica.
«Giorgio, vieni a dare un’occhiata, sei tu l’esperto» ordinò Luciano ad un signore sulla quarantina.
L’uomo osservò attentamente la serratura metallica, sfiorandola con la punta delle dita.
«E’ una serratura magnetica che ogni quindici secondi genera un diverso codice identificativo. Bisogna inserire la chiave, aspettare che compaia il codice giusto e digitarlo entro quindici secondi. Il terminale da cui inserirlo deve essere da queste parti.»
Lo trovarono a diversi metri dalla porta.
«Questo è un problema» disse Giorgio «la chiave funziona soltanto in mano ad Alberto, in quanto anche lei riconosce il Dna. Chi inserisce la chiave ha solo quindici secondi per entrare, poi la porta si chiude e quello che ha digitato i numeri resta fuori.»
«Come lo aggiriamo?»
«Prima di tutto, dovremmo avere la chiave» fece Giorgio.
Al che, Alberto alzò il braccio.
«E’ forse questa?» chiese sorridente, mostrando il suo braccialetto. Aveva sempre pensato che fosse il regalo di suo padre per i suoi quattordici anni, ma quando aveva visto che la serratura combaciava perfettamente con la forma del braccialetto, aveva capito che era sicuramente la chiave che stavano cercando.
«Sì» disse Giorgio con il viso illuminato «possiamo entrare, allora. Ora l’importante è decidere chi entra con Alberto. Abbiamo solo quindici secondi, possono entrare due, al massimo tre persone.»
«Andrò io con lui» disse prontamente Luciano «prenderemo i documenti ed usciremo in men che non si dica.»
«Vengo anche io» si intromise Margherita «è più sicuro.»
Alberto non ne fu contento, ma non ribatté al cenno affermativo di Luciano. Se a lui andava bene così, non aveva nulla da dire.
«Bene, allora teniamoci pronti» fece Luciano «Giorgio, tu digita il numero. Noi tre stiamo attaccati alla porta e vediamo di fiondarci subito dentro.»
Tutti si misero ai loro posti. Alberto posizionò il braccio nei pressi della serratura, incastrando il ciondolino che pendeva e osservando piano i numeri formarsi su un piccolo schermo posto sopra la porta.
Lì detto a voce alta a Giorgio, che li digitò e aprì la porta. Subito, i tre si fiondarono dentro senza nemmeno guardare cosa avevano davanti. La porta si richiuse alle loro spalle immediatamente.
«Ce l’abbiamo fatta» disse Luciano entusiasta.
Alberto si guardò intorno. Erano in una piccola stanza circolare, con al centro una teca che evidentemente conteneva i documenti. La teca era protetta da un campo di forze, e di fianco c’era l’impronta di una mano. Istintivamente il ragazzo premette la sua, e il campo di forze si annullò, permettendogli di alzare il vetro.
I documenti erano racchiusi in una piccola pendrive a raggi infrarossi che portava su di sé il marchio ufficiale delle più alte cariche del pianeta. Se fosse venuto alla luce, suo padre sarebbe certamente stato condannato per aver nascosto documenti di simile importanza.
Ma lui ormai aveva fatto la sua scelta. Aveva scelto di seguire il suo cuore, di seguire il suo Luciano, per cui niente avrebbe potuto fargli cambiare idea.
Dietro di sé, all’improvviso, sentì il click di una pistola. Sia lui che Luciano si voltarono, trovando davanti a loro Margherita che li teneva sotto tiro.
«Mi dispiace» disse solo, guardando Luciano tristemente.
«Margherita, che diavolo fai?»
«Non potevo lasciare che qualcuno ti portasse via un’altra volta da me» disse la ragazza con voce dura «e lui lo stava facendo. Sai quanti soldi ha messo in palio la sua famiglia per chi glielo riporta vivo? Ora abbiamo i documenti, non ci serve più, deve tornarsene da dove è venuto.»
«Non puoi obbligarmi» disse il ragazzino stringendo i pugni, furioso. Non aveva alcuna intenzione di lasciare Luciano proprio ora che l’aveva trovato.
«Se non lo fai, ucciderò l’uomo che ami» disse lei puntando la pistola su Luciano «preferisco ucciderlo piuttosto che lasciartelo. Se non ti farai da parte, lo farò.»
«Sei pazza?» urlò Luciano «Come puoi farci questo?»
«E’ per il tuo bene» disse lei «abbiamo pochi minuti, ho chiamato il padre di Alberto e presto saranno tutti qui. Sbrigati a decidere, ragazzino. Se non fai in fretta, manderai a monte la missione tanto importante per il tuo innamorato.»
Li guardava con un sorriso crudele dipinto sul volto.
«Oh mio Dio» fece Luciano, inorridito «gli altri non si aspettano certo un attacco, dobbiamo avvisarli.»
Fece per uscire, ma lei lo fermò con un gesto della pistola.
«Tu non ti muovi o ti sparo, giuro che lo faccio.»
Alberto era furioso, nessuno poteva portargli via qualcosa per cui aveva lottato così tanto. Non lo avrebbe permesso. Senza pensare alle conseguenze si avventò su di lei, cercando di toglierle la pistola di mano.
Lottarono per avere il controllo, mentre Luciano li fissava scioccato. Stava quasi per disarmarla, quando partì un colpo…
 
Aprì gli occhi, respirando l’aria pura di prima mattina. Mise i piedi giù dal letto, premette un tasto e automaticamente le tende che coprivano le finestre si aprirono, rivelando una magnifica vista sul mare.
Sorrise, godendosi la vista e ispirando l’odore di salsedine. Era meraviglioso, blu, calmo e rilassante. E lui lo adorava.
Si passò una mano sul braccio, sentendo sotto le dita la cicatrice di quel colpo che a lui aveva preso solo di striscio, uccidendo invece qualcun altro.
«Sei già sveglio?» disse la sua voce, mentre le sue labbra scesero a baciargli la nuca.
«Non riuscivo a dormire, è una mattina così bella.»
Luciano sorrise, dietro di lui, e lo abbracciò.
«Ti amo» gli disse, e questa volta fu il turno di Alberto di sorridere.
Erano liberi, finalmente. Non poteva ancora crederci che ce l’avevano fatta. Quel giorno, in quella stanza, era stata Margherita a morire, uccisa da un colpo della sua stessa pistola. Per fortuna non c’erano state altre vittime. Erano riusciti a fuggire in tempo, aiutati dai gemelli, liberi dall’influenza della ragazza.
Era stato un periodo difficile, per Alberto. Tutta la sua famiglia l’aveva ripudiato, dopo che avevano scoperto il suo tradimento. Ma lui era andato avanti lo stesso, senza paura.
Erano riusciti nel loro intento; la Terra, ora, poteva essere di nuovo ripopolata. Loro erano stati i primi a scendere sul pianeta, i primi a cercare un posticino dove vivere e dove crescere il loro amore.
Avevano scelto di vivere sulla spiaggia, per godersi quel mare così bello, così blu, che su Veniria non avevano mai visto.
«Sei la mia alba» gli disse ancora Luciano, e Alberto capì cosa intendeva. Dopo tante notti buie, finalmente anche lui poteva vedere la sua luce, ma solo se si tenevano per mano.
 
FINE

   
 
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