C’era
una volta, nel paese di
Cipango, una città grande e popolosa chiamata Chō, che nella
nostra lingua significa
“farfalla”. Era davvero una città
stupefacente, con strade ampie su cui si
affacciavano case grandi come paesi di campagna, circondate da grandi
giardini
profumati e mura cariche di fiori e piante odorose.
In una di queste grandi case
viveva una ragazza; il suo nome era Miyoko.
La
casa in cui abitava aveva
cento porte, che si aprivano su stanze così splendidamente
ammobiliate che
avrebbero fatto felici persino la moglie e le figlie
dell’imperatore.
Miyoko, però, ancora non era
entrata in tutte le stanze della casa, poiché preferiva
trascorrere il suo
tempo nel giardino incantato che circondava la magione: che in Cipango
e a Chō
fosse estate, o autunno, o primavera, o inverno, nel giardino di Miyoko
scendeva sempre la neve, da un cielo perennemente scuro e annuvolato.
Lei vedeva sempre e solo le
sagome degli alberi celate da mantelli bianchi e, più
lontano, le mura che la separavano
dal resto della gente. Se avesse voluto avrebbe potuto uscire dal
portone di legno,
ma non veniva aperto da così tanti anni che i rampicanti,
prima di ghiacciare, ne
avevano preso possesso. Miyoko non voleva uscire, avendo tutto quello
che
desiderava nelle molte stanze della sua dimore.
Una
notte – in città era
primavera, nel cielo violetto splendeva una luna tonda – una
tempesta di neve,
con forti raffiche di vento, si abbatté sulla casa di
Miyoko.
Ogni tanto capitava, perfino
nel suo invernale angolo di paradiso, e nulla di nuovo sarebbe accaduto
se una
tegola venne sollevata dagli sbuffi del vento e cadde contro il
portone.
Il legno era oramai marcito e
si creò, così, una piccola fenditura.
Dall’altra parte del muro, un
uomo camminava sul marciapiede.
Potete ben immaginare la sua
sorpresa, quando sentì uno schiocco e vide una scheggia di
legno volare,
proprio davanti al suo naso! Quando si fu ripreso, decise di accostare
il viso
alla fessura che era venuta a crearsi: e cosa vide,
dall’altra parte!
La
ragazza fece scorrere un
pannello e andò ad inginocchiarsi sul ballatoio che correva
lungo tutta la
facciata della casa: tra le mani teneva una tazza scura, da cui saliva
il
vapore. Prima che si richiudesse il pannello alle spalle,
l’uomo vide l’angolo
di un futon.
La ragazza, che era sicuro di
non aver mai visto prima, indossava una sottoveste verde oliva ed un
kimono
nero, a tinta unita. L’obi era verde e giallo scuro. Il
legno, sotto le sue
dita, scricchiolò, e se nel rumore della città
lui se ne accorse appena, nel
silenzio ovattato della neve risuonò come se qualcuno avesse
appena abbattuto
un albero.
La ragazza drizzò la testa, prese
qualcosa che stava sul ballatoio, accanto a lei.
Era un ombrello nero; lo aprì
e, a piccoli passi, venne da lui.
- Da quando è buona norma spiare
nei giardini altrui? – chiese, ma il suo tono era dolce.
- Sono stato
imperdonabilmente maleducato – rispose lui. La ragazza gli
sorrise.
- Entrate pure.
Miyoko
attese, sotto l’ombrellino
laccato, che l’uomo tirasse il chiavistello.
Con un cigolio, il portone si
aprì verso di lei e una brezza tiepida le ricordò
le notti primaverili, il
profumo dei fiori chiusi ancora nell’aria, la luce della luna
sulle guance.
Insieme a quel miscuglio di
sensazioni, entrò anche un uomo con i capelli neri, che
alzò subito la testa
verso il cielo, stupito forse dalle nuvole basse e levigate, forse dai
fiocchi
di neve quasi invisibili che gli cadevano sulle labbra. Cortese, Miyoko
gli
offrì del posto sotto il suo ombrello e si avviarono,
vicini, verso la casa
illuminata. Alla luce dorata che traversava i pannelli scorrevoli, i
due si
studiarono per un breve istante: Miyoko inarcò appena le
sopracciglia: doveva
essere uno straniero perché, oltre all’altezza
inconsueta, aveva la pelle molto
chiara, molto più chiara della sua, che non vedeva il sole
da tempo.
Gli occhi erano quasi neri, attorniati
da ciglia lunghe.
Sotto il suo sguardo stupito,
le belle labbra rosee si allargarono in un sorriso.
- Signora, ho attraversato
molte terre per arrivare qui: sono stato in Catai e da lì ho
preso una nave per
il paese di Cipango: ma mai, mentre viaggiavo su quella barchetta
fragile, ho pensato
che avrei potuto trovarvi una simile bellezza – le
rivelò, soffiandole in volto.
Miyoko arrossì e lo invitò in
casa.
- Torno subito, signore, e le
porterò un tazza di tè, per riscaldarvi.
Indossò
una sottoveste rosa scuro
e un kimono giallo chiaro; all’altezza delle cosce erano
state ricamate nuvole bianche,
dalle ginocchia in giù un volo di libellule tra fili
d’erba.
Infilò un fazzoletto nell’obi
nero.
- Scusate il ritardo – si inginocchiò
e versò il tè in una tazza bianca, che lui
avvicinò a sé, ma senza bere. Non distoglieva
un attimo lo sguardo da lei e dai suoi movimenti.
- È da molto tempo che un
uomo non mi degna della sua attenzione – aggiunse,
mascherando a fatica il
piacere nella sua voce. L’uomo aggrottò le
sopracciglia.
- Non sei… una donna delle
nevi? – chiese, a fior di labbra.
Miyoko rise. – Oh, una yuki-onna?
E dov’è il kimono bianco, i
miei occhi terrificanti?
- Ma il tuo giardino…
- Incantato. Un giorno dissi di
non voler cambiare mai e la neve che cadeva su Chō non smise mai di
cadere sul
mio giardino e sulla mia casa – rivelò e bevve un
sorso di tè.
- Come ti chiami?
- Miyoko.
- Vieni con me, Miyoko.
La prese per mano, con molta
delicatezza, e la condusse in giardino, a piedi scalzi.
Attraversarono di corsa il
giardino innevato, silenziosi e fuggevoli come ombre; lui
aprì il pesante
portone e i profumi della primavera accarezzarono il naso di Miyoko.
Di nuovo, lui la prese per
entrambe le mani e la sospinse sulla strada; era davvero una notte
dolce e
tiepida e le persone passeggiavano sui marciapiedi, chiacchierando
amabilmente.
Miyoko si voltò verso la sua
casa e notò, non senza stupore, che la neve non
c’era più: la luna irradiava la
sua luce bianca sulle rocce, sui sentieri e sui fiori chiusi.
- Miyoko – le disse lui,
sfiorandole le labbra con un dito – accetta sempre
ciò che il destino ti offre:
sia esso una tempesta di neve o una tegola rotta, farà
sì che prima o poi la
neve si sciolga. Siamo parte della natura e la natura non tollera
l’immobilità.
C’era una volta, nel paese di
Cipango, una città grande e popolosa chiamata Chō, che nella
nostra lingua significa
“farfalla”. Era davvero una città
stupefacente, con strade ampie su cui si
affacciavano case grandi come paesi di campagna, circondate da grandi
giardini
profumati e mura cariche di fiori e piante odorose.
In una di queste grandi case
viveva una piccola famiglia; da una finestra aperta risuonava una dolce
ninna
nanna.
Quando tutti saranno assopiti,
anche gli uccelli e le pecore
nei giardini e nei campi,
le stelle questa sera
riverseranno la loro luce dorata
dalla finestra!
(Memorie
di una geisha)