La giornata volgeva al termine e l’ospedale stava pian piano acquistando
quell’aria di quiete crepuscolare che distende i nervi e rilassa i muscoli.
Nel suo ufficio, House armeggiava con uno dei suoi aggeggi tecnologici, quando
per caso alzò lo sguardo e attraverso la porta a vetri vide Cameron che avanzava
nel corridoio con passo svelto e cellulare in mano. Era più raggiante del solito
e civettava sorridente con il suo interlocutore.
Guardò l’orologio: mancavano 5 minuti alle 17:00, e sollevando il sopracciglio,
fissando un punto nel vuoto, pensò “strano...”.
Wilson spense il computer, ripose distrattamente alcuni documenti nella sua
cartella in pelle e chiuse la porta dietro di sè, stampandosi in faccia quel
sorrisetto vittorioso che in poche altre occasioni aveva potuto sfoggiare. Più
si avvicinava all’ufficio di House e più s’impettiva.
“Allora...” – disse affacciandosi oltre la porta a vetri – “sei pronto?”.
House non lo sentì, o forse fece solo finta, e restò incollato alla finestra a
guardare qualcosa nel parcheggio.
“Che c’è? Non dirmi che ti hanno rubato la moto?” aggiunse Wilson, ma le sue
parole non riuscirono a distrarre neanche per un attimo quegli occhi indagatori.
Allora, quasi scocciato, si avvicinò ad House e con un filo di rabbia nella voce
disse
“guarda che una scommessa è una scommessa, e questa volta hai perso, quindi non
inventare scuse per...”
non riuscì a terminare la frase, perchè House improvvisamente chiuse la tenda e,
con un movimento rapido del bastone, lo trascinò fuori dal suo ufficio, dicendo
solo “andiamo!”.
Non era la moto, e questo Wilson l’aveva capito in quell’attimo in cui era
riuscito a guardare oltre la tenda, perciò non si stupì del silenzio carico di
tensione che li accompagnò, attraverso ascensori e corridoi, fin davanti alla
sua auto.
Montarono in macchina e, pur sapendo che non avrebbe avuto una risposta, tentò
di rompere il ghiaccio:
“allora, dove mi porti a cena?”
House non si girò neanche a guardarlo, inclinò un pò la testa per poggiarla sul
finestrino, socchiuse gli occhi e cominciò a battere ritmicamente il bastone sul
cruscotto.
Wilson, rassegnato, mise in moto e cominciò a guidare senza una meta precisa. Le
strade erano stranamente libere.
“Maledizione” - borbottò - “neanche una sana rissa tra automobilisti frustrati e
infastiditi per distrarmi...”.
House continuava a battere sul cruscotto, mantenendo incredibilmente lo stesso
preciso ritmo.
Wilson provò ad accendere la radio, ma la voce gracchiante della speaker lo urtò
ancora di più, e con una specie di pugno mise fine all’ennesimo tentativo di
fingere che non ci fosse niente di strano.
Erano passati pochi minuti da quando avevano lasciato l’ospedale, ma a lui erano
parsi un’infinità.
“Joe” disse con voce sommessa ma decisa “si chiama Joe”.
Improvvisamente House fermò il bastone: “sei diventato gay?”.
Wilson sbuffò, sollevando gli occhi al cielo...
“Era il migliore amico di suo marito. Se ne innamorò durante gli ultimi mesi
della malattia”.
“uhm...guarda, guarda...il dottor Wilson sbircia nel diario segreto della sua
collega...gira a destra”
“a destra? Ma da questa parte non...”
“gira a destra ti ho detto!”
“ehi...va bene...vado dove diavolo ti pare, ma non leggo i diari degli
altri...idiota...”
House riprese a battere col bastone sul cruscotto.
Wilson avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non sapeva bene cosa...poteva tentare
la strada della paternale, quella del “io ho provato a metterti in guardia”, ma
lo conosceva troppo bene...avrebbe ottenuto solo l’ennesimo insulto; oppure
poteva lanciarsi nella parte del commiseratore, ma lo infastidiva il sol fatto
di averci pensato. Fece un respiro profondo e socchiuse le labbra; stava per
accennare qualcosa...
“a quel semaforo, di nuovo a destra”
...ma quel tono freddo e scostante chiuse violentemente la strada a qualsiasi
tentativo di dialogo.
Passarono altri minuti: quell’assordante silenzio era interrotto solo dal
ticchettio del bastone e, di tanto in tanto, dalle indicazioni di House. Wilson
aveva capito che stavano ritornando verso il Princeton, ma non fece alcuna
obiezione. Ormai era rassegnato a quella condizione e la sua mente vagava verso
altri lidi quando il bastone si fermò di nuovo.
“è la terza volta in dieci giorni che va via prima del solito”
Wilson non avrebbe mai pensato di poter ascoltare una frase del genere, e
infatti si ritrovò spiazzato e senza parole. Ma forse quello era proprio il
momento di tacere, di ascoltare e basta.
Percepiva che per la prima volta l’uomo accanto a sè era vulnerabile, in
difficoltà...aveva perso le redini del gioco che fino ad allora si era divertito
a manovrare a suo piacimento. Quella variabile impazzita aveva fatto saltare la
matematica delle equazioni con cui viveva e conviveva da tanto tempo, troppo...
Arrivarono al Princeton e Wilson si fermò proprio davanti alla moto di House:
lui scese dall’auto e si fermò un attimo per cercare le parole più adatte, ma
Wilson lo bloccò con un sorriso; poi ingranò la marcia e scomparve nella
foschia.
Cameron era davanti allo specchio, e con un movimento delicato della mano diede
l’ultimo tocco a quella ciocca di capelli che le nascondeva maliziosamente lo
sguardo.
Joe passeggiava impaziente davanti al portone e quando questo si aprì vide la
creatura più bella che avesse mai potuto incontrare. Allison quella sera era
davvero splendida: c’era una luce particolare che le sfiorava gli zigomi
rosei...e quel sorriso perfetto...e quegli occhi magnetici...
“sei un sogno”
Lei arrossì, abbassando un pò lo sguardo, ma lui con la mano le sollevò il viso
e le diede un bacio.
“dove mi porti?” disse guardandolo con occhi sognanti
“per una principessa, solo il meglio” disse inchinandosi, e con un gesto della
mano la invitò a salire in auto
“uhm...no, niente macchina...ho voglia di fare due passi”
“come vuoi” rispose, porgendole il braccio.
Camminavano stretti, senza mai perdere l’uno lo sguardo dell’altra e senza mai
smettere di sorridersi.
Non erano arrivati neanche alla fine dell’isolato, quando l’assordante fischio
di una brusca frenata interruppe la loro chiacchierata.
“ehi...ma da dove le prendi certe battute? Sono indeciso tra Titanic e Via col
vento...naaa...tu sei più un tipo da Dawson’s Crick...”
Joe strizzò gli occhi e scosse rapidamente il capo, come se volesse accertarsi
che quella non fosse un’allucinazione e mentre cercava di realizzare cosa stesse
succedendo, Allison con voce sommessa, ma ferma, disse:
“House...sparisci”
“sparire? Ma come...proprio ora che viene la parte più bella? Ho già preso i
pop-corn in formato gigante...e poi non voglio perdermi il lieto fine” disse
sbattendo velocemente le palpebre, mentre assumeva un’espressione da perfetto
idiota.
Lei non aggiunse altro, e strattonandolo per il gomito, invitò Joe a proseguire
la passeggiata.
“ok, allora io vi seguo da qui...sai, ormai il pop-corn è pagato...” e ingranò
la prima, costeggiando lentamente il marciapiedi con la moto.
“Ma chi è questo?!” Joe ebbe finalmente il coraggio di chiedere
“un bambino capriccioso” soggiunse lei gelida
“il tizio dei pop-corn” ribattè House.
Cameron era furiosa, guardava dritto a terra, respirando velocemente: in quel
momento lo stava odiando. Sì, era proprio odio. E rabbia. Era riuscito a
rovinarle quella serata: una serata che sognava da tempo, magari proprio con
lui...E ora era lì, sulla sua moto, a fissarli con quella faccia da scemo che
avrebbe tanto voluto prendere a schiaffi. Sentiva lo sguardo di lui che non la
lasciava, e percepiva anche l’imbarazzo di Joe. Si bloccò all’improvviso.
“ora basta. Joe, ho cambiato idea: prendiamo la macchina”
Joe fece un sospiro profondo, finalmente poteva fuggire da quella tensione che
c’era nell’aria. La guardò per un attimo, aspettando che gli dicesse cosa fare,
e lei non lo deluse:
“vai, ti aspetto qui”.
“cosa hai intenzione di fare?” disse House con un tono ironico che però non
riuscì a nascondere la sua insicurezza.
“non ti riguarda”
“da quando in qua ti piacciono i damerini impomatati?”
“da quando ho capito che non hanno paura di mostrarsi per quello che sono
veramente, che non vivono le emozioni come fossero i pezzi di un puzzle da
mettere insieme, che sono capaci di mettere le persone a cui tengono davanti al
loro stupido orgoglio”
“ehi ehi ehi...siamo in vena di dare lezioni stasera!”
“no. Sono stanca delle lezioni. Delle tue, soprattutto. E poi ormai ho studiato
bene, sono diventata una brava alunna...dice il filosofo Jagger che non sempre
si può avere ciò che si vuole” incalzò guardandolo con occhi pieni di rabbia “ma
qualche volta si può ottenere ciò di cui si ha bisogno”
e si girò senza neanche fare caso a cosa lui stesse dicendo, montando
rapidamente nella macchina che si allontanò in pochi istanti.
“sono le 3:00 di mattina. È tardi. Vai a riposare: è stata una
serata...turbolenta...”
Joe non avrebbe potuto trovare un sorriso migliore per accompagnare quelle
parole. Gliene era grata.
“sei stato splendido. Davvero. Sono mortificata per quell’imprevisto...”
Lui le chiuse le labbra con un dito “ssshhhhh...non pensarci più”.
Lei si avvicinò lentamente e gli sfiorò le labbra con un bacio.
“notte”
“notte”
Quando l’auto si allontanò, Allison fece un lungo sospiro. Mentre cercava le
chiavi nella borsa, immaginava come sarebbe andata a finire se House non si
fosse intromesso. Probabilmente gli avrebbe chiesto di salire per un caffè, e
probabilmente lui avrebbe accettato. Sarebbero rimasti a parlare per un pò sul
divano, ripensando a come si erano conosciuti, e poi... La sua mente era ancora
immersa in questi pensieri quando alzò lo sguardo verso la porta del suo
appartamento e sussultò: c’era un ombra lì accanto.
Per un attimo rimase immobile, terrorizzata, ma poi quell’ombra si mosse,
rivelando uno sguardo che lei conosceva bene.
Si avvicinò alla porta senza dire niente, tenendo sempre lo sguardo basso. Lui
la fissava. Era nervosa e non riusciva ad inserire la chiave nella serratura.
“così la...” stava per fare la solita battuta sciocca, ma si interruppe.
Lei si fermò per un attimo, fece un respiro profondo e impugnò con più forza la
chiave.
Lui le sfiorò la mano, aiutandola ad aprire la porta.
Rimasero così per qualche secondo: lei a testa bassa, con lo sguardo su quella
mano, lui con il volto impietrito ad aspettare che quel maledetto ciuffo di
capelli si spostasse, per poter incrociare gli occhi di lei.
Poi la porta si aprì.
“vieni, ti faccio un caffè” fu l’unica cosa che riuscì a dire.
House fece qualche passo, guardandosi intorno con aria spaesata. Chiuse
delicatamente la porta dietro di sè, e andò a sedersi sul divano.
Allison in pochi minuti si infilò una tuta e si struccò, poi tornò in salotto,
rimise in ordine le riviste che erano sul tavolino e gli allungò il telecomando.
Dopodichè di diresse verso la cucina per preparare il caffè.
House era lì, imbambolato, che la seguiva con lo sguardo dovunque andasse,
sperando di riuscire ad incrociare quegli occhi, ma non ci riuscì: lei
continuava a fare tutto senza mai alzare la testa.
Era una situazione che non aveva previsto. Non credeva che l’avrebbe fatto
entrare. Aveva passato l’intera serata su quel pianerottolo ad immaginare cosa
gli avrebbe detto, in preda all’ira, tutto quello che gli avrebbe rinfacciato a
causa della rabbia, cosa si sarebbero detti prima di troncare definitivamente i
loro rapporti. Perchè, sì, lo sapeva: stavolta l’aveva fatta davvero grossa. E
anche lo spirito da santarellina di Cameron aveva un limite.
“ecco il tuo caffè”
Strizzò gli occhi, per ritornare alla realtà.
Ora era lei a fissarlo. E lui non riuscì a sostenere lo sguardo.
“grazie” rispose con un filo di voce, abbassando la testa. “io...” disse dopo
una breve pausa, “io...”
“tu sei solo un bambino capriccioso” lo interruppe lei “che ora batte i piedi e
strepita perchè qualcuno gli ha tolto l’orsacchiotto di pezza. Eppure, fino a
qualche giorno fa, quell’orsacchiotto era lì, gettato in un angolo...coperto di
polvere...Io sono stanca: stanca di aspettare qualcosa che non accadrà mai,
stanca di vedere che la gente intorno a me riesce ad essere felice, mentre io mi
danno l’anima a cercare di risolvere quel maledetto rompicapo che c’è nella tua
testa, stanca di non poter vivere i miei anni come dovrei...come penso di
meritare. Finalmente ho trovato qualcuno che non ha bisogno di studiarmi prima
di chiedermi di uscire, qualcuno che mi fa sentire apprezzata, qualcuno che mi
da sicurezza, qualcuno che non sta lì a psicanalizzarmi per tutto ciò che dico e
che faccio”.
Non riuscì ad aggiungere altro, perchè le lacrime le avevano riempito gli occhi
e un nodo alla gola le impediva di parlare. Posò con calma la sua tazza sul
tavolo, lo guardò ancora per qualche secondo e poi scivolò verso la sua stanza.
Chiuse la porta dietro di sè, restandovi appoggiata per un istante, si asciugò
le lacrime con la manica della felpa, e si sdraiò sul letto, esausta.
Quando suonò la sveglia, le sembrò di essersi addormentata solo da pochi minuti.
La testa le faceva molto male e si sentiva confusa. La luce che entrava dalle
finestre le dava molto fastidio e, pur con gli occhi socchiusi, si alzò dal
letto alla ricerca di qualcosa che la rimettesse in sesto.
Mentre attraversava il salotto, diretta verso il bagno, la sua attenzione fu
rapita da uno strano oggetto che non riusciva ancora a focalizzare bene. Si
fermò, si stropicciò gli occhi e guardò di nuovo. “che scemo” pensò “come ha
fatto a dimenticare qui il bastone?”. Si passò una mano sul viso, scuotendo il
capo come a dire “solo lui poteva fare una cosa del genere” e, mentre faceva
ciò, si girò verso la cucina, alla ricerca della tazza di caffè che aveva
lasciato sul tavolo qualche ora prima.
“ben svegliata”.
Era seduto sul tavolo: con una mano si massaggiava la gamba dolorante e con
l’altra le stava porgendo la tazza.
Allison era di nuovo senza parole. Tentò di dire qualcosa, ma lui la anticipò
“il tuo divano è scomodissimo”.
Gli strappò la tazza dalle mani e fece il giro del tavolo, per lasciarla cadere,
con altrettanta rabbia, nel lavandino.
“io sono quello che vuoi” disse lui tornando serio “ e sono anche quello di cui
hai bisogno”.
Cameron si era appoggiata con entrambe le braccia a quel mobile, come se non
avesse più neanche la forza di stare in piedi. Gli dava le spalle e aveva la
testa bassa.
“che ci fai ancora qui?” gli chiese con tono arrendevole.
Lo sentì muoversi, scendere dal tavolo. Pensò che finalmente sarebbe andato via
e quella battaglia si sarebbe conclusa.
“sto proteggendo me stesso” le sussurò sul collo scoperto. In un attimo l’aveva
raggiunta ed ora col corpo la sovrastava tutta.
Allison poteva sentire il calore del suo petto sulla sua schiena, e riusciva a
percepire i battiti del suo cuore.
Greg mise le mani accanto alle sue, in modo che anche le braccia potessero
sfiorarsi centimetro per centimetro.
“anche io” rispose lei, e dopo una pausa aggiunse “ho paura”, mentre una lacrima
cadde nella tazza del caffè.
Allora lui si avvicinò ancora di più e le diede un bacio sul collo. Poi le prese
le mani e la strinse a sè in un abbraccio forte e delicato allo stesso tempo.
“anche io ho paura” riuscì appena a sussurare, mentre lei si girò a guardarlo
negli occhi.
E poi fu solo un lungo, lunghissimo bacio.
THE END