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Autore: Nikki Cvetik    19/07/2012    14 recensioni
[FanFiction partecipante al Jisbon Day contest]
Sei semplicemente fregato, quando ti accorgi che l’unica cosa giusta da fare è proprio l’errore più grande che potresti commettere.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: The Masterplan
Autore: Nikki Cvetik
Genere: Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Nope
Note: Nope
Disclaimer:  Mi sarebbe piaciuto che Heller mi cedesse i diritti di The Mentalist come regalo di diploma. Purtroppo ho controllato la cassetta della posta
stamattina e c'era solo il numero di luglio di Vanity Fair. Quindi no, sfortunatamente, The Mentalist non mi appartiene!!

The Masterplan.

 

Part One: Anger.

 

You hid your skeletons when I had shown you mine.
You woke the devil that I thought you’d left behind.
I saw the evidence, the crimson soaking through.
Ten thousand promises, ten thousand ways to lose.
 

Sei semplicemente fregato, quando ti accorgi che l’unica cosa giusta da fare è proprio l’errore più grande che potresti commettere.
 
L’ho dovuto affrontare una piovosa mattina di novembre, quando Van Pelt ha spalancato la porta del mio ufficio. Ha i capelli scompigliati dalla corsa ed il fiatone. Si mette davanti a me, pronunciando le parole che avrebbero cambiato le nostre vite per sempre.
-Sappiamo dov’è.
Nemmeno un secondo dopo, stiamo camminando nel bullpen caricando le nostre pistole. Ci raggiungono Cho e Rigsby e, dietro di loro, Jane. Si muove appena, seguendoci come se fosse spinto dall’inerzia. Ha lo sguardo vuoto che gli ho visto tutte le volte che eravamo sul punto di prendere John. E’ uno strano misto di rassegnazione, di paura che scappi ancora, ma soprattutto di vendetta ed odio profondi, laceranti.
Lo osservo in attesa dell’arrivo dell’ascensore. Sembra che nemmeno abbia voglia di venire con noi, quasi se lo stessimo costringendo. Mi fa una rabbia tremenda, in questi momento. Roba che lo prenderei volentieri a calci nel sedere. Ma non posso dimenticare cosa ci sia dietro a questo atteggiamento. E finisco sempre per voler prendere a calci nel sedere me stessa per aver solo pensato una cosa simile.
Perché finisce sempre così, quando sai che ciò che ti ha tenuto in vita è proprio quello che ti sei impegnato a distruggere. Vinci la battaglia, vinci la guerra, ma in realtà hai perso tutto il resto.
Jane sa che si sta nuovamente buttando nella pazzia. Quando prenderemo John, o anche se in qualche modo riuscisse a ucciderlo prima, mentre noi siamo distratti, Jane perderà la sua ragione di vita. E Dio solo sa cosa sarà in grado di fare, allora.
Entriamo tutti in ascensore e il mio braccio sfiora appena la sua camicia. Alzo gli occhi e prego ogni santo del paradiso che mi mandi un’altra via d’uscita, un’altra opportunità. E, come se qualche potenza divina mi avesse finalmente ascoltato, la risposta si staglia limpida, cristallina nella mia testa.
Resto bloccata nell’ascensore, mentre tutti gli altri saltano fuori. Raggelata dalla mia stessa intuizione, mi accorgo che sarà la fine. Della mia carriera. Del mio rapporto con i miei sottoposti. Del mio rapporto con Jane. Ma è l’unica via d’uscita, l’unico male minore.
Premo nuovamente il pulsante e comincio a correre verso la mia Chevrolet.
 
-Sappiamo che è lì dentro.
Dice Rigsby mentre ci infiliamo i giubbotti antiproiettile.
-I vicini l’hanno visto entrare e hanno chiamato la polizia. Probabilmente per la vittima non c’è più nulla da fare. A ogni modo siamo sicuri che John non sia ancora uscito.
-Avete controllato le uscite?
-Affermativo. John è lì dentro, capo.
Van Pelt sta correndo verso di noi dalla casa, dopo gli ultimi aggiornamenti dalla SWAT.
-Andiamo a prenderlo, allora.
Inserisco il caricatore nella pistola e assumo la posizione d’attacco. Raggomitolata, braccia tese e arma abbassata.
Arrivati all’entrata posteriore, un agente abbassa la maniglia e ci permette di accedere alla cucina. Un forte odore di cannella mi fa pizzicare il naso. Attraversiamo la stanza in blocco, assicurandoci che non ci sia nessuno.
-Libero.
Sussurra uno della SWAT. In maniera calibrata, ci muoviamo fino all’atrio. Le pareti delle scale su di noi sono pitturate di verde chiaro. Si svolgono a spirale lungo la parete nord dell’edificio. Sento attorno a me la mia squadra che cerca di muovere delicatamente i piedi quella benedizione di una moquette. Abbandoniamo la SWAT sulle scale per coprirci le spalle. Ci sparpagliamo sulle pareti del corridoio, Van pelt sulla sinistra insieme a Canovan e Diaz, Rigsby dietro di me seguito da Cho.In sincrono, ci muoviamo verso l’unica stanza in cui riusciamo a registrare dei rumori. La penultima alla nostra destra, la porta bianca socchiusa.
Dal sottile straccio d’interno che riesco a vedere, qualcuno si sta muovendo lentamente, misurando lo spazio con ampie falcate. Mi avvicino di soppiatto e respiro profondamente per calmarmi. Un rito che mi hanno insegnato in Accademia, da compiere prima di ogni incursione. Visualizzo a mente la scena che mi troverò di fronte: il letto sfatto, le lunghe lingue di sangue sulle pareti e sulle lenzuola, il corpo bianco sul letto, John a osservare impassibile. E so anche che non sarà l’unica cosa che troverò.
Con questa convinzione spingo la porta con la canna della pistola, spalancandola verso l’interno. La mia bocca resta semi aperta. Il mio stupore è legato al fatto che abbia sbagliato su un unico particolare: la donna giace spaventata sul letto, imbavagliata e legata mani e piedi alla struttura portante. E’ viva. Non so come ma è viva. Ha le lacrime agli occhi e mugugna pietà. Ma invece di assisterla, mi concentro su tutt’altro.
Sposto lo sguardo alla poltroncina alla mia destra. So già chi troverò. Jane è seduto a gambe accavallate, teso, lo sguardo puntato in un angolo. L’ho visto correre verso l’ala est della struttura appena la squadra è partita. Sapevo che sarebbe entrato anche lui, il bastardo.
E poi c’è John. Calmo, con le mani dietro la schiena che reggono il coltello ricurvo e lucente. È vestito con una lunga tuta nera, il cappuccio calato sul volto. Non l’ho mai visto prima ma so che è lui. E’ una sensazione troppo profonda alla base dello stomaco. Esattamente come se ci fosse un pezzo di puzzle nascosto in me, che finalmente ha trovato il suo compagno.
Provo uno strano sentimento di riverenza nei suoi confronti. Ha ucciso decine di uomini e donne. Eppure mai nessun serial killer è stato furbo quanto lui. Persino adesso, so che non è qui, in piedi, in questa stanza, per un suo errore. Sarebbe potuto fuggire minuti fa. La verità è che lui vuole essere qui. Vuole concludere l’ultimo atto della sua opera.
Tutto questo filo si svolge nella mia mente in pochi millesimi di secondo. Dovrei intimargli di abbassare l’arma. Dovrei intimargli di arrendersi. Dovrei ammanettarlo. Dovrei arrestarlo. Dovrei portarlo fuori e mettere la parola fine a tutta questa storia.
Eppure, proprio perché so che non è così (perché dovrei: sì, dovrei. Ma sarebbe inutile. Perché so che arrestarlo non metterà proprio su un bel niente “la parola fine”) e faccio la cosa più sbagliata che potrei fare.
Alzo la pistola e la punto contro il petto di John e sparo. Senza identificarmi. Sparo. Senza dargli tempo nemmeno di realizzare di essere morto. Sparo. Davanti agli occhi attoniti e dilaniati di Jane. Sparo. Davanti a cinque agenti che sono testimoni di questo che è ormai a tutti gli effetti un omicidio. Sparo.
Finché il corpo John non cade all’indietro sulla donna legata al letto. Alza un urlo ancora più profondo quando vede il sangue del serial killer scorrerle addosso, ancora caldo.
Jane è paralizzato, bocca aperta e il braccio teso, nell’inutile scatto per fermarmi.
Sento gli occhi infuocati degli agenti dietro di me carbonizzarmi la schiena.
 
Senza dire una singola parola, rimetto a posto il carrello della pistola, ancora aperto dopo aver espulso l’ultimo bossolo. Qualcuno forse si starà aspettando che crolli, che rinneghi un’azione così avventata e priva di senso. Dopotutto sono stata io, quella che ha cercato di convincere Jane in tutti modi a lasciar perdere John. Io.
La stessa me che ha appena crivellato di colpi quel corpo senza vita. Non perché rappresentasse un pericolo. Non era disarmato, ma nemmeno stava facendo del male a qualcuno. In questi casi, il protocollo prevede che si immobilizzi il sospettato e lo si porti in centrale per una verifica delle accuse, anche se trovato in flagranza di reato.
Ma oggi io, Teresa Lisbon, Santa Teresa di tutti i mali, ho sparato a un uomo contro le regole che mi hanno insegnato in accademia, ho rinnegato il mio voto di poliziotto, ho contraddetto me stessa, ho deluso i miei agenti, ho perso il mio lavoro, ho perso la fiducia dell’uomo più importante della mia vita. In una parola, ho commesso l’errore più grande che potevo commettere. Ma a mia discolpa posso asserire che avevo i miei buoni motivi.
 
Scruto Jane ancora paralizzato sulla poltrona, offrendogli uno sguardo freddo e semplice. Devo fargli capire che no, non sono pazza; e che sì, sono perfettamente consapevole di tutte le conseguenze di questa azione. Mi volto verso il corridoio senza degnare di uno sguardo i miei sottoposti. Sbatto la pistola in grembo a Rigsby, che non ha mai smesso di puntare gli occhi a quel corpo morto. Gliela lascio e mi avvio lungo il corridoio, sola.
Quando esco dalla porta principale della casa, ho già sbottonato la protezione antiproiettile. La getto al primo addetto che mi trovo davanti. Il prossimo a venirmi incontro è Bertram, braccia aperte e il volto scuro.
-Agente Lisbon, cosa sta succedendo?
-Nessun Agente, Bertram. Do le mie dimissioni con effetto immediato.
Dico come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Faccio scattare il distintivo dal supporto sul mio fianco e lo butto per terra. Sento il metallo produrre un rumore stridente sull’asfalto. Come in quelle scene dei film. Quando un uomo viene accoltellato dal suo migliore amico e, gemendo, gli rivolge un flebile “Perché?”. Ecco, “Perché?” sembra urlare il mio distintivo dal punto dove l’ho abbandonato.
Le urla di Bertram dietro di me, giungono sfocate. Come se fossi dentro una campana di vetro. Non fermano i miei piedi. Apro la mia amata Chevrolet. Accendo il motore e do gas, partendo a razzo da quella casa sulla collina di Malibù. Per una volta supero tutti i limiti di velocità.
Corro verso una spiaggia isolata, il mare verde per la tempesta che si sta abbattendo su tutta la costa. La pioggia scroscia sul parabrezza, ma i tergicristalli rimangono fermi, dimenticati. Parcheggio nella maniera più incivile e comincio a correre verso la spiaggia. Cerco di mantenere l’equilibrio, mentre i miei piedi scivolano sulla passerella di marmo.
Arrivo sulla sabbia, e le suole affondano nel suolo reso duro dall’acqua.
Il suono del mare è imponente e terribile. In controcanto, i tuoni e gli schiaffi dell’acqua sugli scogli. Nella potenza del ruggito di quel mostro agghiacciante, comincio a urlare a pieni polmoni. Sento la salsedine appiccicarsi alle pareti della gola. Urlo come un animale nel pieno dell’agonia, senza parole, senza nulla che possa definirsi umano. Urlo per minuti interi. Il mio sfogo è appena udibile in mezzo a quel franare abissale d’acqua e cielo.
Sento come se tutto di nuovo collassasse sopra di me, alla fine. I miei polmoni, tornati delle dimensioni normali, sembrano bruciarmi come l’inferno dentro la gabbia toracica. Comincio a piangere nella pioggia che mi inzuppa i vestiti. I singhiozzi intrappolati in gola che spingono di venire fuori.
E contro il mare, il cielo, il mondo, gli eventi, il destino, urlo di nuovo come se volessi rivoltare dall’interno i miei stessi polmoni.
 

Part Two: Confession.

 

And you held it all but you were careless to let it fall
You held it all and I was by your side, powerless

 
Non aveva chiuso nemmeno la porta.
Proprio per questo motivo, Jane poté sbatterla con forza contro la parete, entrando come una furia in casa di Lisbon. Stranamente, lei neanche si era mossa dalla sua posizione accovacciata. Se ne stava seduta per terra, la schiena contro l’alzata del divano. Sembrava particolarmente interessata a scrutare qualcosa sul soffitto.
Jane le si avvicinò a grandi passi. Lei, distante, li sentiva rimbombare attraverso il pavimento e il divano. Le vibrazioni le solleticavano il collo appoggiato sui cuscini.
Tutto questo fece ancora di più arrabbiare Jane. Come poteva permettersi di stare così dopo…dopo quello che aveva fatto? Possibile che non gliene importasse niente? Ribolliva fin sopra i capelli. Come se solo la profonda amicizia che provava per lei, per quella donna che l’aveva accoltellato alle spalle in maniera così vile, lo stesse bloccando dal saltarle addosso e farle quanto di più orribile a questo mondo.
-Quindi non hai niente da dire?
-Di certo non a te.
-Ah…
Sentiva la rabbia nei confronti di quel piccolo essere davanti a lui decuplicare, secondo dopo secondo.
-…quindi tu hai sparato a John, hai sparato all’uomo che ha ucciso mia moglie e mia figlia, e credi che la cosa non mi riguardi minimamente?
La donna fece segno di no con la testa, socchiudendo gli occhi.
-Red John…era…mio…
-Nessuno può dire che qualcuno gli appartenga, Jane. Le persone appartengono solo a loro stesse.
-Quindi adesso cominci a fare la psicologa con me?
Disse, facendosi sfuggire dalle labbra una risata nervosa.
-Ti faccio solo sentire come io mi sono sentita per dieci anni a questa parte.
-Oh, be’, pensavo ti facesse piacere che “chiudessi i casi”.
-Certo, soprattutto quando mettevi le nostre vite sul piatto come se fossimo ammassi di carne.
-Sei proprio tu a dire questo, sei proprio tu a parlare di fiducia…Guarda in che situazione siamo! Davvero, Lisbon, mi hai mentito? Mi hai preso in giro per tutto questo tempo? Hai sempre voluto  convincermi a lasciar perdere John e alla fine lo ha fatto fuori senza nemmeno pensarci due volte.
-Giusto, perché tu credi che mettere in mostra le proprie intenzioni le renda giustificabili!
Anche lei aveva cominciato a rispondere alle sue accuse. Sapeva che Jane avrebbe voluto delle spiegazioni, ma non si sarebbe mai aspettata che entrasse in questa maniera in casa sua e cominciasse ad accusarla.
-Io almeno sono stato fedele a quel che ho detto.
-Cosa credi, Jane? Che mi sia piaciuto ciò che ho fatto stamattina?
-Dimmelo tu! L’avrei voluto, ma non sono stato io quello che ha sparato a Red John!
Disse alla fine, mettendosi la mani sui fianchi. I toni si stavano scaldando velocemente, lo sentivano entrambi.
-Cerchi sempre di aggiustare le persone, Lisbon. Quando lo capirai una buona volta che certe cose non possono essere aggiustate? Che ci sono cose che non puoi cambiare!
-Perdonami se non ho mai gradito la prospettiva di vederti con la gola tagliata da John!
Stavolta Lisbon si era alzata. Era a piedi nudi e non arrivava alla sua altezza, ma voleva poterlo almeno guardare negli occhi.
-So badare a me stesso, Lisbon. E anche se fosse andata così, tanto meglio!
-Certo, perché credi che quelli che ti stanno attorno sono lì solo per salvarti il culo. Ma che mi dici dei loro sentimenti? No, lungi da te pensare che qualcuno si sarebbe sentito in colpa a vederti morto.
-Tu e il tuo onnipresente masochismo! Non fai altro che tirarti addosso i problemi degli altri e pretendere che diventino i tuoi. Hai sparato a Red John perché sei stata così egoista da pensare che fosse solo un tuo problema.
Disse, puntandole un dito contro. Le parole stavano venendo fuori come un fiume e nessuno dei due si stava rendendo conto di dove quel discorso li stava portando. Jane diede le spalle a Lisbon, con tutte le intenzioni di oltrepassare la porta e mettere quanti più kilometri possibile tra lui e la sua collega. Era arrivato al tappeto dell’ingresso, quando sentì una mano afferrarlo per la camicia e farlo voltare nuovamente verso l’interno.
-I tuoi problemi sono diventati anche i miei da quando mi hai tirata dentro questa storia! Avevo tutti i diritti di sparare a Red John stamattina!
-Tu ti sei tirata dentro questa storia da sola. Era qualcosa che non ti riguardava e ti sei intromessa. Tu non hai assolutamente alcun diritto, Lisbon! Sarebbe stato molto meglio…
Le urla, in cui le sue parole erano evolute nel giro di pochi secondi, furono bloccate da un singolo singhiozzo soffocato. Solo allora si rese conto che stava stringendo convulsamente il polso destro di Lisbon. Ma ancora più raggelante era il suo sguardo impaurito e attonito, le lacrime che cominciavano a rigarle le guance.
Nella foga l’aveva spinta contro alla parete di fronte. Forse le avesse addirittura fatto sbattere la testa contro il muro. Rilasciò la presa dal suo polso come se bruciasse. Sentì una bolla di vergogna salirgli in gola, alla vista dei segni rossi che le sue dita avevano lasciato sulla pelle candida.
-Lisbon…io…io non…
-Dimmi, Patrick, cosa sarebbe stato meglio?
La vedeva cercare in tutti i modi di frenare le lacrime, strizzando gli occhi. Ma le gocce brillanti le cascavano ugualmente il volto, a fiotti.
-Avanti, finisci la frase…dimmi cosa avresti preferito.
Stavolta si sentiva lui quello messo all’angolo. Solo il suo sguardo pieno di dolore, lo stava facendo indietreggiare verso la porta.
-Te lo dico io, cosa avresti preferito. Avresti preferito non avermi mai conosciuta, vero? Avresti voluto continuare a crogiolarti da solo nella tua pazzia, a cullarti nella follia fino a divenire un mostro, talmente orribile non riconoscerti nemmeno.
Disse con odio, continuando a piangere come una fontana.
-E io sono stata talmente stupida da pensare che nel tuo egoismo volessi salvare almeno te stesso. E’ vero, Jane, io ti ho sempre voluto salvare, ma non per i motivi che tu pensi. Credi che sia davvero così strano, che una persona desideri solamente volerti bene?
Jane era ormai a metà della stanza, immobile, la bocca semiaperta per cercare di controbattere. Non riusciva a mettere una parola davanti all’altra. Lisbon continuò a parlare, dopo aver fatto una piccola pausa per riprendere fiato.
-Vuoi davvero sapere perché ho sparato a John stamattina?
Si era portata una mano sul cuore. Nelle sua mente, Jane riconobbe il messaggio inconscio di quel gesto: il voler assicurare all’interlocutore di parlare in completa onestà.
-Se tu fossi arrivato prima di noi e l’avessi ucciso, saremmo stati costretti ad arrestarti e, con ogni probabilità, saresti stato condannato al carcere a vita, con la consapevolezza di aver perso il tuo scopo nella vita. Se l’avessimo messo con le spalle al muro e fosse accidentalmente morto, tu avresti di nuovo perso il tuo scopo nella vita. Se l’avessimo preso e condannato, ti saresti logorato dentro fino al giorno dell’esecuzione per poi, ancora una volta, perdere il tuo scopo nella vita. Se l’avessimo preso e fosse stato in grado di fuggire o, peggio, fosse stato rilasciato per insufficienza di prove, non solo avresti perso il tuo scopo nella vita, ma avresti dovuto sopportare anche la beffa di non poter fargliela pagare. Non serve un genio come te per capire che, nel novantanove percento delle situazioni, il tuo futuro sarebbe stato un completo inferno.
Disse tutto d’un fiato, quasi senza lasciargli il tempo per comprendere le sue parole.
-Ma se fossi stata io a premere il grilletto, se l’avessi ucciso io…tu saresti stato salvo, non avresti avuto problemi con la legge, non saresti stato vittima di nuove ossessioni. Ti avrei dato anche un nuovo scopo nella vita, Jane. Ecco cosa ho fatto, Jane. Ho sacrificato il mio lavoro e quasi la mia vita perché potessi fare ciò che ti riesce meglio. Odiarmi. Odiarmi con tutto il tuo cuore, almeno come hai fatto per dieci lunghi anni con l’uomo che ti ha strappato via la tua famiglia. Ma, al contrario di lui, tu non sarai mai in grado mai uccidermi. L’unica cosa che potrai fare è andartene via, lontano, lasciare questo posto per sempre.
Le ultime parole erano state pronunciate a labbra serrate. Stava soffrendo in maniera terribile, ma continuava, spingendo Jane fuori dalla sua casa, dalla sua vita un passo dopo l’altro.
-Perciò esci da questa casa, Jane.
-No…non…
-Esci dalla mia vita e non farti rivedere mai più.
Gli ringhiò contro.
-Ti supplico…Fammi…
La porta si richiuse sul suo volto ormai paonazzo. Restò lì, fermo, quasi non riuscisse ad accettare quello che era successo. Dall’interno dell’abitazione si sollevò il suono di un pianto disperato. Solo allora capì che l’ultima luce, nel mare del suo buio, si era spenta per sempre.
 

Part Three: Rain.

 

I watched you fall apart and chased you to the end.
I'm left with emptiness that words cannot defend.
You'll never know what I became because of you.
Ten thousand promises, ten thousand ways to lose.

 
Erano passate quasi quattro settimane dal loro ultimo incontro. Lisbon non si era presa neanche la briga di tornare al CBI per rettificare le sue dimissioni. Non gliene importava nulla. Potevano occuparsene gli altri, per una volta. Aveva distrutto il suo BlackBerry buttandolo nel water e il telefono fisso aveva cominciato ad apparirgli come un’entità diabolica. Non rispondeva più alle chiamate di nessuno da giorni. Poteva anche essere morta per loro. Più che altro si sentiva così, lei, nei confronti della sua squadra.
Morta e sepolta, aveva specificato a mente, nel caso di Jane.
Dopo il terzo giorno di “detenzione”, aveva pensato che avrebbe corso il rischio che qualcuno venisse a trovarla, per sapere se stesse bene. Sarebbero venuti a casa sua e non avrebbe potuto mandarli via. Ed era esattamente quello che non voleva. Lei non voleva essere trovata.
Così, aveva preso la sua borsa da palestra, ci aveva messo dentro qualche paio di jeans, due o tre magliette e il beautycase. Aveva lasciato tutto il resto, senza nemmeno rimettere in ordine la casa dopo quello che era successo tre sere prima. Chiudendo la porta di casa, si era sentita come se avesse chiuso anche con la sua vecchia vita. Aveva buttato le chiavi nell’aiuola ed era salita in macchina, per una volta senza sapere dove andare.Quando, però, il motore aveva preso vita sotto le sue gambe, era arrivata a capire che sarebbe potuta andare ovunque. Ovunque lontano da lì.
 
Così aveva preso l’autostrada, diretta a nord. Si ricordava di quella cittadina sul mare, Eureka, dove tanti anni prima avevano risolto un caso. Le era sembrata perfetta. Amava il mare ed era impossibile che qualcuno la venisse a cercare lì.
Arrivata, si era fermata davanti all’oceano, di un blu-grigio intenso e profondo. Si promise che non tutto era perduto. Avrebbe potuto ricominciare: sapeva di esserne in grado.
Il giorno dopo aveva preso in affitto una piccola villetta da una signora di mezz’età, Miss Halloway. I suoi figli vivevano lì prima di trasferirsi a New York. La casa era rimasta vuota per tanto tempo. Gliel’aveva ceduta a un prezzo ottimo. Dopo qualche lavoretto ai mobili, sembrava quasi come se non fosse mai stata abbandonata. Inoltre, tre giorni a settimana aiutava la signora Halloway al negozio di libri usati.  Si sentiva felice, dopo tanto tempo. Aveva lasciato dietro di sé un gran casino, ma grossomodo pensava che anche lì, a casa, tutto si sarebbe risolto presto. Poteva lasciare la sua squadra senza rimorsi e senza paura di non aver fatto abbastanza. Aveva chiuso i conti con la sua vecchia vita, per sempre.
 
Quella sera, esattamente un mese dopo la sua fuga, Lisbon se ne stava seduta sulla sabbia della spiaggia. Era il tramonto e un freddo vento proveniente dal mare le stava seccando le labbra. Da quando era arrivata ad Eureka, compiva quel rituale ogni sera, ritirandosi a pensare davanti all’oceano. Si stringeva le gambe al petto e poggiava il mento sulle ginocchia, facendosi cullare dal calmo ed eterno ritmo delle onde del mare.
Stava pensando a quella bella stoffa che aveva trovato al negozio all’angolo. Un delicato color panna: sarebbe stato perfetto per farci una tenda in camera da letto. Si alzò da terra dopo essersi pulita la sabbia dai jeans scuri. Cominciò a camminare in direzione della macchina, pensando di barattare un paio d’ore di straordinario al negozio in cambio dell’aiuto della signora Halloway a cucire la tenda. Chiuse la cerniera del giubbotto e mentalmente si domandò dove potesse comprare ago, filo e quant’altro.Ormai era quasi arrivata alla fine del viottolo di pietra.
A pochi metri dal marciapiede, all’improvviso, sentì la nuca pruderle. Quell’agghiacciante sensazione di essere osservata, quella che tante volte l’aveva salvata nella sua vita precedente. A un tratto sentì bloccarsi la bocca dello stomaco. Alzò gli occhi, cercando di capire chi fosse la persona che la stava osservando. Percorse con lo sguardo tutto il belvedere fino alla sua macchina, parcheggiata vicino al negozio della frutta.
Sobbalzò, quasi avesse visto un fantasma. E pensò che fosse proprio questo, un fantasma, la persona che vedeva appoggiata all’abitacolo della sua Chevrolet. Perché altrimenti non avrebbe potuto negare l’ineluttabilità del fatto che Patrick Jane fosse lì, che alla fine l’avesse trovata.
Fece finta di niente. Forse era lì per un altro caso con la sua squadra, forse neanche l’aveva vista. Decise di prendere la strada alla sua destra e tornare a casa a piedi. Con la coda dell’occhio, intanto, controllava il suo ex consulente. Quando lo vide cominciare a camminare verso di lei per seguirla, accelerò di poco il passo. Era sull’altro lato della strada, ma camminava alla sua stessa andatura.
Svoltò di nuovo a destra verso il bar. In quel momento, lo vide attraversare la strada, portandosi a circa cinquanta metri da lei. A che gioco stava giocando? Avrebbe potuto raggiungerla in ogni momento, se avesse voluto.
Pochi metri ormai la dividevano da casa. A quel punto comprese della tattica del mentalista. La stava seguendo fino alla sua tana per metterle le spalle al muro. Una volta arrivata alla villetta non avrebbe avuto vie di fuga. Era caduta nella sua trappola.
Imprecò tra i denti, constatando che si era spinto talmente in basso da usare uno dei suoi trucchetti con lei. Era troppo tardi per pensare a una strategia di fuga. L’avrebbe affrontato, se fosse stato necessario. Almeno avrebbe avuto il fattore campo dalla sua. Mise una mano in tasca per prendere le chiavi di casa.
-Teresa…
Sentì alle sue spalle. Aveva un tono talmente misero, che stentò a credere che quel suono fosse uscito dalle labbra di Patrick Jane. Si fermò un attimo a quella considerazione. Poi prese le chiavi dalla tasca e le inserì nella toppa, con decisione, quasi come se volesse accoltellarla.
In quel momento, una mano le si poggiò titubante su una spalla. Quel singolo tocco fu sufficiente a farla scattare, come se quelle dita la stessero bruciando la pelle. Girò il corpo all’indietro. Ormai aveva capito che l’unico modo per farlo andar via sarebbe stato ferirlo ben peggio di quanto avesse già fatto. Non poteva nascondersi abbastanza bene da non poter essere trovata, lo aveva capito a sue spese. Doveva far sì che lui non volesse mai più trovarla. Aveva fallito la prima volta e non voleva commettere di nuovo lo stesso errore.
-Non. Osare. Toccarmi.
Sibilò viperina. Il suo viso era duro e perentorio, nonostante lo sguardo distrutto del povero mentalista le stesse spezzando il cuore. Doveva tenere tanto a lei per farsi trattare in questa maniera.
-Non andare….di nuovo…non andare via...
Lo sentì sussurrare appena. La voce si era spezzata ben due volte in una sola frase.
-Io non vado da nessuna parte. Tu, piuttosto, adesso alzi i tacchi te ne vai. Prendi la tua macchina e te ne torni a Sacramento. E assicurati di non rimettere piede in questa città per il resto della tua vita. O farò in modo che tu non ne sia più in grado.
L’uomo rimase immobile, con gli occhi bassi sul vialetto. Lisbon finì di girare la chiave nella toppa ed entrò in casa. Dietro di lei, sentì Jane seguirla. Si voltò, premendogli una mano sul petto per spingerlo indietro. La fissava negli occhi, implorante.
-Non mi hai sentito? Ti voglio fuori dalla mia casa. Fuori dalla mia vita. Va’ via e lasciami in pace, Jane.
Come un mese prima, gli sbatté la porta in faccia. Non si girò nemmeno a controllare se l’avesse colpito. Camminò per la stanza a passo veloce. Si tolse la giacca e la borsa. Stava cercando cercando di fare ogni cosa come se quell’infelice avvenimento non fosse mai accaduto.
Aprì la dispensa, optando per cenare con una bella tazza di latte e cereali al cioccolato davanti al suo programma preferito. Prima, però, doveva togliersi di dosso tutta la sabbia. Si diresse in camera e si tolse di dosso pantaloni e camicia. La stanza da bagno la aspettata, invitante. Regolò il getto dell’acqua del doccione della vasca, saggiandola con una mano. Una volta raggiunta la temperatura ideale, ci si mise sotto, facendo scivolare le gocce su tutto il corpo. Pensò che, prima o poi, avrebbe dovuto collaudarla con un bel bagno, visto che l’aveva sempre usata come doccia. Prese uno dei flaconi e cominciò a insaponarsi spalle e gambe, finché non si sentì completamente pulita.
Uscendo dai caldi vapori del bagno, si accorse che stava iniziando a diluviare. Si infilò i pantaloni della tuta, una maglietta rossa e scese in cucina, pregustando i suoi cereali al cioccolato. Scendendo le scale, passò davanti alla finestra del salotto, quella che dava sul portico dell’ingresso. Nel buio della sera, notò una figura tremante seduta sul pianerottolo davanti casa.
Un fulmine illuminò la notte. I bagliori rivelarono una silhouette morbida e sottile, inconfondibile. Jane.  Non si era mosso di un millimetro da dove l’aveva lasciato quasi due ore prima. Era raggomitolato su se stesso in cerca di calore, muovendosi a scatti avanti e indietro per non congelare. Anche da dietro i vetri, Lisbon capì bagnato fradicio e stava inutilmente cercando di trovare conforto sotto il freddo vento di dicembre.
Corse di sopra a riempire di acqua calda la vasca. In quel momento non gli importava niente se avessero litigato, se lui avesse espressamente violato il suo divieto a starle lontano, se si sentisse ancora ferita a morte per quello che era successo un mese prima. Jane rischiava di morire congelato sotto un acquazzone infernale. E la colpa era solo sua.
Trovò dei grossi asciugamani puliti nel mobile del bagno e li mise a scaldare vicino al caminetto. Sarebbero stati pronti a minuti. Corse di nuovo di sopra, cercando di usare al meglio ogni secondo. Nell’armadio della camera degli ospiti, ripescò un vecchio accappatoio nuovo di zecca e lo poggiò sul termosifone del bagno.
Si fermò davanti alla porta d’ingresso, entrambe le mani sul pomello. Per un solo secondo venne attanagliata dal dubbio di cosa stesse facendo. Poi, come a svegliarla, un refolo freddo le sfiorò la mano e, a quel punto, sperò solo di non averlo fatto aspettare troppo.
Aprì la porta dell’ingresso. Il vento freddo la investì. La pioggia cominciò a batterle sul volto come tante piccole lame gelate. Corse verso l’uomo accucciato a pochi passi da lei e gli afferrò le mani. Il contatto lo fece destare, come se avesse dormito fino a quel momento. Lo aiutò ad alzarsi e a raggiungere la porta di casa. L’acqua dei vestiti bagnati le inzuppò i pantaloni e la maglia, ma continuò a sostenerlo fin dentro casa.
Santo cielo, sembrava un pezzo di ghiaccio! Come era riuscito a stare sotto l’acqua per tutto quel tempo?
Lo fece sedere sul divano del salotto e gli mise sulle spalle un asciugamano caldo. Tremava in maniera agghiacciante. Il suo sguardo era fisso sul tappeto, non osava alzare gli occhi verso di lei. Lisbon raccolse i suoi capelli in un altro panno e cominciò a tamponarli. Sentì il cuore contorcersi quando osservò gli osservò volto. Le labbra erano quasi diventate blu per il freddo e la pelle era pallida come la neve. Continuò ad asciugargli i capelli e il volto, cercano di tenerlo il più possibile al caldo.
Con mani sicure, gli tolse la giacca e il panciotto, mettendoli ad asciugare davanti al caminetto acceso. Poi fu la volta di scarpe e calzini, talmente zuppi da lasciare una pozza d’acqua sul pavimento. Asciugò attentamente anche i piedi e li avvolse in un’altra salvietta. In cucina, il bollitore che aveva messo sul fuoco fischiò, segnalandole che al suo interno l’acqua stava bollendo. Preparò una tazza di the nella sua maniera preferita e gliela mise tra le mani.
-Ti ho preparato un bagno, di sopra. C’è un accappatoio sul termosifone del bagno e delle ciabatte. Puoi lasciare i tuoi vestiti sulla sedia della mia camera. Li verrò a prendere quando sarai dentro il bagno. Così domani mattina saranno asciutti. Puoi usare tutto il mio shampoo e il mio bagnoschiuma, se ti va. Non preoccuparti. Odorerai per un po’ di vaniglia e cannella, ma almeno non morirai assiderato.
Gli disse, mentre Jane scolava la sua tazza di the. Gli chiese se ne volesse ancora, ma lui fece segno di no con la testa. Prese il recipiente dalle sue mani ancora gelide e lo mise nel lavello della cucina. Una volta tornata nel salotto, gli tese una mano e lo aiutò ad alzarsi in piedi.
-Grazie.
Lo sentì sussurrare.  Si voltò verso di lui e non poté fare a meno di sorridere davanti a quegli occhi così pieni di gratitudine. A un tratto, era come se quel mese non fosse mai passato.
Gli mostrò il bagno e indicò dove poter trovare sapone e tutto il resto. Jane annuiva ancora stretto nell’asciugamano, ormai grondante d’acqua. Le mani di Lisbon glielo tolsero e, vestito solo della camicia e dei pantaloni, attese che la porta della camera si chiudesse alle spalle della donna.
Lasciò camicia, pantaloni e boxer sulla sedia, esattamente dove la padrona di casa gli aveva detto. Si chiuse in bagno, dove trovò una nebbia calda di acqua e sapone a distendergli i muscoli.
Si immerse tra le bolle, inalando quell’odore unico e irripetibile. Gli era mancato per mesi. Sapeva di vaniglia, caramello e semplicemente di Lisbon. Restò fermo per un po’, semplicemente beandosi di quel caldo paradiso. Poi prese la bottiglietta di shampoo e cominciò ad insaponarsi i capelli. Nel frattempo una nuvola ancora più forte di cannella cominciava a spargersi per il bagno.
 

Part Four: Warmth.
 

Take the time to make some sense of what you want to say
And cast your words away upon the waves.
Sail them home with acquiesce on a ship of hope today.
And as they land upon the shore.
Tell them not to fear no more: say it loud and sing it proud, today...

 
Circa un’ora dopo, Lisbon sentì dei passi muoversi al piano di sopra. Aveva appena finito di lavare i piatti e stava versando i cereali al cioccolato in due grosse ciotole.
Pochi minuti dopo, i passi si mossero nel corridoio. Sentì Jane scendere piano piano gli scalini verso il salotto. Appena lo vide apparire, gli andò vicino. Toccò premurosa la pelle della fronte e delle guance per assicurarsi che stesse al caldo e controllare che non si fosse preso qualche malanno. Con una mano, spostò i ricci biondi e morbidi che gli ricadevano sulla fronte e controllò la temperatura. Le sembrava un po’ troppo alta rispetto al resto del corpo, probabilmente aveva qualche linea di febbre.
Lo condusse al divano e lo fece stendere. Nonostante indossasse lo spesso l’accappatoio, lo coprì con un soffice plaid. Non voleva che quel che sembrava essere un accenno di influenza di aggravasse ancora di più. Sembrava così fragile. Come se, sfiorandolo inavvertitamente, l’avesse potuto rompere in mille pezzi. In quel momento, nella sua mente cominciò a insinuarsi il dubbio. Cosa aveva comportato veramente il suo allontanamento? Cos’era successo mentre lei era via?
Portò la cena sul divano e si sedette ai suoi piedi. Si sfioravano appena con le gambe, ma era un contatto benvenuto da entrambi. Vuotarono le proprie ciotole nel silenzio della casa squassata dai tuoni..
 
Dovevano essere almeno le due di notte e quella che sarebbe stata definita la tempesta più violenta degli ultimi cinquant’anni, riversava con violenza la sua furia sulla cittadina di Eureka. Lisbon si ritrovò a pensare a cosa sarebbe successo se quel mulo di un Patrick Jane avesse passato l’intera notte sul pianerottolo. Il suo comportamento l’aveva toccata nel profondo. Aveva rischiato di finire assiderato solo per poterle stare vicino.
Si alzò per portare via le stoviglie, con tutte le intenzioni di condurre Jane nella camera degli ospiti e dargli la buona notte. Lui le afferrò il polso destro.
Come un flashback, la mente ritornò alla maniera in cui le aveva stretto il polso quattro settimane prima. Aveva sentito il sangue bloccarsi sotto la sua stretta. Le punte delle dita erano divenute bianche.
Ma stavolta la sua presa era leggera, debole e stanca.
-Aspetta.
Lo sentì sussurrare appena. La sua mano la spinse giù. Lisbon posò le tazze sul tavolino da caffè e si sedette al suo fianco.
-Io…volevo chiederti scusa per ciò che è successo a Sacramento. So che il fatto che tu mi abbia accolto in casa tua non significhi che tu mi abbia perdonato…a dir la verità non so nemmeno se tra cent’anni riuscirai a perdonarmi. Ma volevo che tu sapessi che sono rimasto qui, sotto la pioggia, per dirti solo questo. Che sono stato un completo stupido. E che davvero sono dispiaciuto nel profondo per come ti ho trattato.
Aveva parlato ancora una volta con gli occhi bassi. Non aveva smesso di farlo per tutta la serata. Lisbon si sentì in imbarazzo per questo. Jane ne aveva combinate di tutti i colori da quando si conoscevano. Eppure mai l’aveva visto comportarsi in maniera così contrita. Quasi come se avesse paura di lei. Era…innaturale. Ma anche estremamente sincera.
Gli pose tre dita sotto al mento. Voleva guardarlo negli occhi, per una volta. Permise che alzasse lo sguardo alla sua altezza. Le iridi azzurre erano lucide, ma fosche. Cosa non avrebbe dato per baciargli le palpebre e lavare via quel dolore che lei stessa aveva provocato.
Perché era fuggita? si chiese. Ricordava di essersi data mille risposte diverse. Perché voleva ricominciare. Perché aveva paura di Jane. Perché voleva punire Jane. Perché aveva paura di se stessa. Perché ormai non c’era più niente per lei. Né al CBI né altrove.
Mille risposte diverse, mille motivi validi che, però, si stavano scontrando contro la realtà dei fatti.
Era stata felice a Eureka. Eppure non poteva negare di aver sofferto immensamente. Il male l’aveva raggiunta anche a kilometri da casa. Inoltre, si stava rendendo conto di essersi lasciata dietro un grosso vuoto. Aveva accusato Jane di non aver cura dei sentimenti altrui. Ma stavolta era stata lei quella a non importarsene. Se n’era andata senza una spiegazione. Lasciando la sua squadra senza un capo. Jane senza punti di riferimento. Pensando di fare il meglio per chi le stava attorno, aveva finito per ferire tutti.
-Puoi stare tranquillo, Jane, accetto le tue scuse.
E le concesse il primo sorriso della serata. Un momento impossibile da descrivere. Quel sorriso, Jane, la gioia che di nuovo gli riempiva gli occhi, quel calore che sentiva dentro. Lo sentì stringere un po’ più forte il suo polso.
-Anch’io mi sono comportata in maniera un po’ troppo ruvida. In fondo sono stata io quella a premere il grilletto. Ora mi accorgo che, forse, non è stata un’idea così geniale come pensavo all’inizio. Ti ho buttato fuori da casa mia. Me ne sono andata senza neanche darti il tempo di spiegarti. Solo ora mi accorgo che, forse, è stato proprio questo ciò che ci ha spinti fino a questo punto. Se non fosse stato per te, adesso non saremmo qui a parlarne.
-Ah, ma che dici? Ti ho solo cercato lungo tutta la California, per poi essere messo alla porta una seconda volta e rischiare una polmonite fulminante. Che vuoi che sia?
Stavolta Lisbon non riuscì proprio a trattenersi e si concesse una lunga risata liberatoria.
-Mi hai davvero cercata per tutta la California?
-Certo! E ti avrei trovato molto prima se non ti fossi rintanata in questa cittadina sperduta! Ma la vuoi sapere una cosa?
-Cosa?
-Ne è valsa davvero la pena.
Le risate si conclusero, appena Lisbon si accorse che l’atmosfera attorno a sé era cambiata.
-In questo mese ho riflettuto tanto su ciò che è accaduto quella sera. Ero arrabbiato. Molto arrabbiato. Davvero molto arrabbiato, ma…non è solo questo il motivo per cui mi sono comportato così. Solitamente quando mi arrabbio sono estremamente freddo e, ti assicuro, riesco ad avere ragione anche quando sono nel torto marcio. Eppure quella sera mi hai messo con le spalle al muro. Senza offesa: non avrei mai creduto che uno scricciolo come te sarebbe riuscito a mettermi all’angolo. Quindi mi sono chiesto: perché? Perché quella sera è andata così?
La donna lo vide abbassare gli occhi. Sembrava immerso nei ricordi del loro litigio. Forse, sentiva ancora dolore per quel che aveva fatto. Poi ricominciò a parlare, con voce tenue.
-Aveva paura, Lisbon. Così come avevo paura in quella camera, avevo paura anche quella sera. Non contava che il pericolo ormai fosse scampato. Che Red John fosse morto. Avevo una paura terribile dentro quando sono entrato in casa tua e ti ho aggredito. Non lo sapevo in quel momento o mi sarei comportato diversamente. Ma è questa la verità. Ho avuto una paura fottuta, Lisbon. Quando ti ho visto puntare la pistola contro John…avevo paura che non avresti fatto in tempo a premere il grilletto..che i miei mostri avrebbero finito col travolgere anche te.
Una lacrima gli sfuggì. Lisbon alzò le dita per asciugarla. Sentì quasi una scossa sui polpastrelli, toccando la guancia calda di Jane.
-Per questo ero così arrabbiato…e ti ho detto che non avresti mai dovuto prenderti i miei problemi sulle spalle. Mi dicevo: non ce l’ho fatta io, come può affrontarli questa piccolina? Ti guardavo e temevo che avrei dovuto rivivere ciò che è successo alla mia famiglia. Cosa sarebbe successo se avessi dovuto affrontare tutto, un’altra volta? Così, non mi sono nemmeno accorto che ce l’avevi fatta. Che non solo avevi affrontato i miei demoni, ma li avevi anche distrutti. Mi hai liberato, Lisbon, e io ti ho ripagato in questa maniera.
Senza neanche farlo finire di parlare, Lisbon gli si buttò fra le braccia, abbracciandolo forte, posando la testa nell’incavo del suo collo. Sentì le sue braccia cingerle il busto e attirarla ancora di più verso di lui.
-Non dirle nemmeno queste cose, Patrick. È vero, è stato un mese difficile, io ho perso il mio lavoro…
-No, tu non hai perso il tuo lavoro.
-Cosa?!
Urlò, tirandosi di nuovo seduta. Jane era rimasto paralizzato, le braccia ancora aperte a seguire la sua forma.
-Io ho dato le mie dimissioni a Bertram appena ho ucciso Red John!
-No, tu non hai dato le tue dimissioni. Tu hai detto di voler dare le tue dimissioni. E’ una cosa ben diversa. Non è arrivato nessun documento alla scrivania del capo.
-Perché pensavo che l’aveste fatto voi.
-Cosa dici, Lisbon? Credi davvero che la tua squadra abbia così tanta voglia di lasciarti in pace?
-Ma…ma…ho lasciato il lavoro per più di un mese…
-…no, a dir la verità queste sono ferie-premio gentilmente concesse dall’ufficio del senatore. Tutta la squadra le ha avute dopo aver risolto il caso di John…
-…e ho fatto una scenata davanti a Bertram…
-…a causa mia, purtroppo, che ero entrato nella casa senza il tuo permesso. Una persona dice tante cose nella furia del momento…
-…ho ucciso un uomo violando qualsiasi regola del CBI…
-…per quanto ne sa Bertram, tu gli hai sparato perché stava per accoltellare quella ragazza. In fondo, nella stanza c’eravamo solo noi (che avevamo tutti gli interessi a dire che sia andata in questa maniera), la signorina Gross (che è stata ben felice che tu abbia sparato a John) e gli agenti Canovan e Diaz (che se non ricordi male erano amici di Bosco, e sono molto accondiscendenti nel modificare leggermente i loro rapporti a tuo favore)…
-…e ho deluso Rigsby, Cho, Van Pelt e te…
-…Lisbon, tu non hai deluso proprio nessuno. Quello di John è stato un episodio a sé stante. Nessuno si è mai sognato di mettere in dubbio,nemmeno per un secondo, la tua professionalità solo per questo. Quello che è successo a te, è successo a tutti noi almeno una volta. Non c’è davvero nulla di cui incolparti, Lisbon. O, meglio, Agente Lisbon.
La donna si portò le mani alla bocca, incredula. In un solo giorno aveva riavuto indietro la felicità, il suo lavoro, la sua squadra. Sapeva di stare sognando: non era possibile, non dopo tutto quello che aveva dovuto sopportare.
-Io…io non so davvero cosa dire…
-Non dire assolutamente niente, Lisbon. Torna. Torna, ti prego, abbiamo tutti bisogno di te.
-Io…ma certo! Certo che torno! Anche domani…a proposito: quanto tempo ancora siamo in ferie noi della squadra?
-Un mese e mezzo. Quindi…ti restano ancora due settimane per fare ciò che vuoi. E mi fa davvero piacere che tu abbia ricominciato a usare il “Noi della squadra”.
-Non puoi nemmeno immaginare quanto possa essere felice io, di poterlo usare.
Disse, ributtandosi sorridente tra le sue braccia, ancora incredula.
-Davvero, non so come ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me.
-Non fuggire mai più. Ecco cosa puoi fare per ringraziarmi di tutto. Non fuggire mai più. O io non risponderò più delle mie azioni, ti avverto.
-Ti sono mancata davvero così tanto?
-Ecco, diciamo che questa è un’altra di quelle cose che ho capito quella sera.
-Illuminami.
Si tirò indietro con gli occhi ancora lucidi per la gioia, in modo da poter incrociare il suo sguardo.
-Quella sera tu mi hai detto che se John fosse morto, io avrei perso il mio scopo nella vita. In quel momento, credevo che tu avessi ragione. Invece non è così. Il mio scopo nella vita l’ho perso quattro giorni dopo, quando sono entrato in casa tua e ho capito che te n’eri andata via per sempre.
-No..aspetta…cosa stai cercando di dirmi?
-Cosa credi che io stia cercando di dirti? Non era John che mi faceva andare avanti giorno dopo giorno. Quando lui è morto, una parte della mia vita si è conclusa. Ma sapevo di poter ancora andare avanti. Quando te ne sei andata, io…Ti ho mentito quando ti ho detto che non ricordavo cosa ho detto prima di spararti. Me lo ricordo e me lo sono ripetuto ogni santo giorno. Mentre mettevamo insieme i tasselli per incastrare John. Mentre ti stavo cercando per mezza America. Mentre rischiavo di morire di freddo sotto la pioggia. E non ho paura di dirtelo di nuovo, adesso che è tutto finito.
Non si tirò indietro, mentre le sue lunghe dita le circondavano il volto. Perché avrebbe dovuto?
-Io ti amo, Teresa. E ti prego, concedimi di chiamarti con tuo nome perché, Dio, è così bello che mi chiedo perch…
Nemmeno era riuscito a finire la frase, che le labbra di Lisbon si erano avventate sulle sue. Si mise a cavalcioni sopra di lui, non interrompendo mai il contatto delle loro labbra. La sua maglietta fu la prima cosa a volare per terra, seguita dalla cinta di un accappatoio che, al momento, risultava decisamente di troppo.
Con un deciso colpo di reni, lo spinse ad alzarsi seduto. Liberò la parte superiore del suo corpo, lasciandolo a petto nudo. Entrambi crollarono di nuovo allungati, pelle contro pelle, petto contro petto. Jane cercò di fare del suo meglio per non strappare il laccetto che assicurava quei divini pantaloni ai fianchi di Lisbon.
Alla fine, si sollevò dal divano, lasciandosi dietro l’accappatoio e altri due o tre pezzi di biancheria femminile. Lisbon cinse i suoi fianchi per non cadere e lui fece scivolare le mani sotto le sue gambe per poterla portare al piano di sopra. Su per le scale, l’attenzione di Lisbon parve spostarsi all’area di pelle che univa il suo collo alla spalla destra. Sentiva i suoi denti affondare teneramente nella carne, succhiandola dove trovava un punto più morbido.
-Guarda che ho appena rimesso due doghe nuove di zecca al divano. Non c’era rischio che ci ritrovassimo per terra.
-Mi dispiace, ma non volevo arrecare danni a questa tua deliziosa schiena, mia cara Teresa. Penso che un letto comodo sia il posto migliore per coccolarti a dovere.
-Ah, allora non ho alcuna obiezione a riguardo.
Intanto la loro strada li aveva condotti alla camera da letto, la cui porta venne brutalmente chiusa da un calcio del mentalista. Arrivato ai piedi del letto, quasi buttò il suo prezioso carico sul materasso, buttandocisi sopra  a sua volta. Cominciò a torturarla a partire dal collo, seguendo una strada immaginaria che lo stava portando sempre più in basso, sempre più in basso, finchè…
-Oh, santo cielo! Jane, ma quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatto la barba?!?
 

Part Five: Home.

 

And then dance if you want to dance, please brother take a chance.
You know they're gonna go, which way they wanna go.
All we know is that we don't know how it's gonna be.
Please brother let it be.
Life on the other hand won't make us understand : we're all part of the masterplan.
 

Lisbon aprì gli occhi in direzione della finestra della propria camera da letto. Il sole di dicembre stava invadendo la camera e si ritrovò a pensare che, sì, doveva proprio parlare con la signora Halloway per quelle due ore di straordinario.
A un tratto, sentì addosso qualcosa di diverso dal soffice piumone invernale. Qualcosa di altrettanto caldo e morbido le era avvolta attorno. I pensieri della sera -o meglio della notte- precedente le saettarono in mente come un fulmine a ciel sereno. Si trovava nella sua casa di Eureka, la mattina dopo una delle tempeste più terribili degli ultimi anni, allungata sul suo letto e caldamente accoccolata tra le braccia del suo adorato consulente.
Alzò la testa finché non sentì il suo mento sbatterle sulla fronte. Stava dormendo quasi come un bambino, le palpebre rilassate e la bocca leggermente aperta dal suo respiro. Neanche quando l’aveva visto dormire sul divano le era sembrato così calmo come adesso. Con un dito, gli scostò alcuni ricci spettinati dalla fronte, concedendosi di viaggiare, poi, sulla punta delicata del suo naso, la curva di pelle sopra la bocca e infine sulle labbra. Un respiro sfiorò leggermente la pelle  delle sue dita. Quella sensazione così intima e familiare la scaldò nel profondo. Dopo tanto tempo, circondata da quel calore così morbido, sentì finalmente di aver trovato un posto sicuro e confortevole in cui stare.
Strinse le gambe ai fianchi del più rompiscatole rovina-carriere della Californi. Sentiva la sua pelle soffice e calda strusciarle tra le cosce scoperte. Quasi immediatamente avvertì un leggero movimento in basso e la prova tangibile che qualcuno si stava svegliando. Mormorò maliziosa, spingendosi ancora più stretta tra le sue braccia. Quando alzò il volto, incontrò i suoi occhi liquidi, appena risorti dalle braccia di Morfeo.
-Non ne hai già avuto abbastanza stanotte? Col mio duro lavoro, pensavo di averti soddisfatta almeno per l’intera giornata.
Lo sentì mormorare con la voce ancora impastata dal sonno.
-Mh…dovresti essere lusingato che non lo sia.
-Oh, ma lo sono. Soltanto che stamattina credevo di soddisfarti in maniere estremamente più platoniche. Una bella colazione, una passeggiata sulla spiaggia.
-Cercherò di resistere fino a sera, allora.
-Te ne sarei molto grato. Se mi avessi preso ai miei tempi migliori, sarei stato ben felice di passare l’intera giornata a letto insieme a una certa agente di mia conoscenza. Ma anche io comincio ad avere una certa età e non credo che riuscirei nel mio intento.
-Non dire così. Magari hai solo bisogno di un po’ di pratica.
Jane strabuzzò gli occhi e dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere come un pervertito. Lisbon, dal canto suo, si era portata una mano alla bocca.
-Dio mio, l’ho detto sul serio?!
-Teresa Lisbon …perché sto cominciando a pensare che sia tu quella maggiormente interessata ai vantaggi di farmi fare pratica di queste deliziose attività notturne?
Lisbon gli diete una pacca sul petto nudo e si tirò all’orlo del letto, offesa. Afferrò dall’armadio il pantalone del pigiama e se lo mise addosso, seguito a ruota dalla maglia di flanella.
-Non osare…
Sentì grugnire dal letto alle sue spalle. Dovette mordersi le labbra per la vagonata pensieri maliziosi che a un tratto le si erano affollati in testa. Diamine, in un notte quell’uomo aveva letteralmente riportato fuoco nella zona della sua testolina adibita alle fantasie sessuali. Come avrebbero fatto una volta tornati al CBI?
Fece volare via la maglia di flanella, neanche fosse un corsetto di pizzo trasparente e costrinse i pantaloni a scivolarle sulle gambe con una lentezza estenuante. Prima di chiudere la porta del bagno alle sue spalle, notò il suo adorabile compagno di letto soffocare un ruggito disperato nel cuscino.
Dovette quasi reggersi alla maniglia della porta quando scorse la sua immagine riflessa nello specchio. Oltre al disastro dei suoi capelli, alle labbra gonfie e rosse e il ben più che felicemente accetto bruciore nella parte interna delle gambe, si accorse di avere numerose macchie scure su tutto il corpo. Per non parlare dei cerchi vermigli e che le erano apparsi su spalle, collo, fianchi e…oh…
Non che la cosa fosse dolorosa, ma non si sarebbe aspettata di trovarsi in quelle condizioni la notte dopo una sola notte con Jane.
Aprì di scatto la porta alle sue spalle, ancora sotto shock. E, come se lo stesse guardando per la prima volta in quella mattina, dovette constatare di non essere stata lei ad avere la peggio. La schiena di Jane era segnata da lunghe e profonde striature rosse. Idem la pelle sulle scapole e sul fondoschiena, che indubbiamente avevano dovuto sopportare l’apice della sua furia. Inoltre, sulle clavicole ed i pettorali stavano iniziando ad apparire i segni dei suoi denti. Sembrava quasi che qualche sorta di mostro l’avesse divorato. E quel mostro era lei. In che cosa diavolo l’aveva trasformata quel dannato consulente?
-J…Jane…?
Sussurrò, indicando con l’indice la sua schiena. Il mentalista face una faccia sorpresa e voltò la testa oltre le spalle. Con una mano sfiorò una delle escoriazioni, succhiando l’aria tra i denti quando la sentì bruciare.
-Oh…dovevi essere molto felice quando…
-Jane, ti ho graffiato come una bestia. Ti fa male?
Fece scorrere le dita sulla sua pelle, mortificata. Sapeva che doveva far male più di quanto desse a vedere. Due dita la costrinsero ad alzare lo sguardo.
-Hey, non devi mica sentirti in imbarazzo per queste. Eri semplicemente all’apice della tua…gioiosità, è ben più che normale che ci sia stata qualche…vittima.
Jane si spinse più in basso per sfiorare le labbra con le sue. Oh, avrebbe sopportato ben più di qualche graffietto per poter poterla sempre avere così, al sicuro, tra le sue braccia.
-D’accordo, ma la prossima volta avvisami se esagero.
-Cercherò di ricordarmelo.
-Bugiardo.
-No, sto dicendo sul serio. Anche se non posso assicurarti niente. Diciamo che…in momenti simili ho la testa da tutt’altra parte.
-Oh-oh, ma sentilo!
-Non pensare che tu non faccia altrettanto. Considerando i Do di petto che ti ho sentito dare ieri notte, credo proprio che anche tu avessi la testa da tutt’altra parte.
-Lo ammetto. Ma non eri tu quello che doveva occuparsi di certe attività estremamente platoniche come preparare una bella colazione?
-Ti sto viziando troppo.
-Shut up!
Disse, alzandosi dal letto e prendendo la via verso il bagno. Appena Jane sentì l’acqua scorrere in bagno, corse al piano inferiore, prendendo confidenza con padelle e fornelli, oltre che con quel terribile macchinario che era macchina per il caffè.
Lisbon uscì dalla doccia circa un quarto d’ora dopo. A Jane quasi rimase bloccato in gola il pezzo d’uovo che stava assaggiando, alla vista della donna che scendeva le scale. C’erano zone di pelle ancora umide e i capelli erano soffici e volatili per il lavaggio recente. Inoltre il suo profumo era ancora più intenso. Lo si sentiva benissimo anche dalla cucina.
Anche Lisbon dovette trattenersi da fare apprezzamenti sull’uomo che, vestito solo con i pantaloni del pigiama ed i calzini, le stava preparando la colazione. Fingendo una certa nonchalance, si avvicinò alla macchinetta per il caffè e se ne versò una tazza piena.
-Devo fidarmi? Non avrai usato mica il pepe al posto del caffè?
-Non temere. Ho dovuto rileggere tutte le istruzioni sulla scatola. E’ impossibile che io abbia sbagliato.
Lisbon prese un lungo sorso. Appena il liquido le sfiorò la lingua dovette trattenere un conato di vomito. Sputò il caffè nel lavello.
-Jane, ma che…? Non dirmi che hai usato il contenitore blu nella dispensa!
-Sì, ho usato quello. Era zucchero vero?
-No, cretino, quello è il sale.
Jane soffiò per non cedere all’impulso di scoppiare in una risata alquanto compromettente.
-Cos’hai da ridere?
-Dovresti vedere la tua faccia, Lisbon.
Le cedette la propria forchetta, sulla quale aveva infilzato un pezzo d’uovo e della pancetta.
-Rifatti la bocca con questo. Non preoccuparti, le ho già assaggiate e non ho usato lo zucchero.
Lisbon infilò la forchetta in bocca senza pensarci due volte. Tutto per eliminare quel sapore orribile. Stavolta però, fu felicemente sorpresa dal gusto delle uova. Doveva ammetterlo:            quell’uomo era una frana con ogni bevanda che non fosse il suo amato the, ma ci sapeva davvero fare con tutto il resto.
Apparecchiarono la tavola e portarono la colazione sulla tovaglia bianchissima. Passarono la mattinata tra chiacchiere e succo d’arancia, e nemmeno una sola parola venne spesa su lavoro o casi in generale. Chiacchieravano della loro giovinezza, degli anni in cui nessuno dei due era a conoscenza dell’esistenza dell’altro e Jane si stupì a parlare allegramente dei tempi in cui aveva conosciuto Angela e dei modi improbabili che aveva usato per conquistarla. Sentiva ancora un terribile vuoto nel petto, ma i ricordi belli ormai sembravano aver nascosto l’ultima immagine che aveva di sua moglie e di sua figlia.
 

Part Six: After.

 
Say it loud and sing it proud, today...
I'm not saying right is wrong : it's up to us to make.
The best of all the things that come our way.
‘Cause everything that's been has past , the answer's in the looking glass.
There's four and twenty million doors on life's endless corridor.
Say it loud and sing it proud, today...
 

La mia guancia è poggiata al tessuto del sedile e ho stretto le gambe sulla seduta. Fa freddo nonostante l’aria condizionata, ma il calore del mio piumone è piacevole. Fuori piove come una furia e il cielo è appena rischiarato dalla luce chiara della luna.
Da quando abbiamo lasciato Eureka, la mia mano non ha mai lasciato la gamba di Jane. Non c’è nulla di malizioso in questo gesto. Solo la voglia di sentire, anche solo fisicamente, la persona al nostro fianco. Ogni tanto sfioro leggermente le fibre della stoffa liscia, un’azione che prima non mi sarei mai concessa. Non mi sono concessa tante cose, prima. E la fregatura è che ho scoperto quali sono, non posso tornare indietro, non posso rinunciarvi, ora.
Cullata dall’ondeggiare lento dell’abitacolo, mi addormento. Subito sogni sereni mi accolgono e, forse, nel buio della mia auto, verso casa, ho anche sorriso.
Non so quanto tempo dopo, le braccia di Jane mi sollevano e la mia testa viene accolta dalla curva del suo collo. Poso una mano sul suo petto, all’altezza del cuore. Vibra leggero sotto le mie dita e la sua musica mi sembra bellissima. Vorrei dirgli di mettermi giù, di non trattarmi come una bambina, ma in realtà so che non riuscirei a mettere un piede davanti all’altro. Non so come riesce ad aprire la porta di casa mia, ma siamo dentro e l’aria di chiuso e la polvere mi investono. L’interno è un disastro, ma Jane riesce abilmente a camminare tra il disordine che regna sul pavimento.
Sento il materasso sotto di me. Questa notte non sarà come la precedente. Ora abbiamo solo bisogno di sentire che ci siamo l’uno per l’altra. A tutto il resto ci penseremo dopo. Jane si stende al mio fianco, la sua testa sul mio seno destro, in modo che possa abbracciarlo e accarezzargli i capelli. Con un braccio mi stringe la vita e sento che pian piano si rilassa. Con la sua fama, pensavo che nonsarei mai riuscita a vederlo dormire. Invece non è così. E il suo respiro mi accompagna di nuovo verso i sogni leggeri.
 
-Capo, non trovo i moduli per l’arresto di Hummer. Van Pelt mi ha detto che potresti averli presi tu.
-Certo. Dovevo ancora firmarli. Dammi un secondo.
Recupero i moduli per l’arresto dalla montagna di carta sulla mia scrivania. Due firme in croce ed un altro malvivente è stato assicurato alla giustizia. Consegno i moduli a Rigsby, in modo che siano inoltrati, e mi rilasso sulla sedia. La fine di questa lunga giornata campale. Sono le ventidue e quindici e l’unica cosa che desidero è tornare finalmente a casa.
Le penne finiscono tutte al loro posto e appunto la matita per domani mattina. Sto buttando i pezzetti di legno nel cestino, quando un familiare rumore di nocche contro il vetro mi fa alzare la testa. Jane è sulla porta con la mia giacca in mano.
-Abbiamo fatto tardi stasera, uh?
Dice, mentre mi aiuta ad infilare il tessuto nero sulle braccia. Toglie i capelli che sono rimasti tra il maglione e la giacca e rabbrividisco quando ne approfitta per lasciarmi un bacio sulla spalla. Ecco cosa vuol dire avere una storia con Patrick Jane. Può passare una giornata intera senza neanche sfiorarti, ma terminato l’orario di lavoro si trasforma in tutt’altra persona. E trasforma anche me. Da quanto siamo insieme è stato capace di risvegliare, come dice lui, la parte più gioiosa di me.
Le sue braccia mi stringono ancora più stretta a lui. La mia giacca, velocemente come l’ho indossata, finisce sul pavimento insieme alla sua cintura.
-Posso proporre di ordinare qui il cinese stasera?
-Sai quali sono i tempi per le consegne?
Via anche reggiseno e calzini! Ormai è un carosello di vestiti volanti. Non so come, le mie mutande finiscono penzoloni al ventilatore sul soffitto.
-Circa diciotto minuti.
-Mh…allora dovrai fare in fretta.
-Sicuro. Non voglio mica che il ragazzo delle consegne veda cose di te che posso vedere solo io.
-Prepotenete…
Dietro la mia schiena, le liste metalliche delle tende sono costrette a incurvarsi sotto il nostro peso. Spero soltanto che quelli del turno di notte non abbiano voglia di farsi un giretto nel bullpen, o dovranno arrestarci per atti osceni in luogo pubblico. Ma…posso dirvi una cosa? Se davvero succedesse non me ne importerebbe un accidenti.
 
Sei semplicemente fregato, quando ti accorgi che l’unica cosa giusta da fare è proprio l’errore più grande che potresti commettere.
Ma alla fine, quelli che in ultima istanza decidono cosa sia veramente un errore siamo proprio noi. Io sono stata abbastanza coraggiosa da fare ciò che c’era di più sbagliato a questo mondo. E alla fine ho ottenuto la cosa più bella. Tornerei indietro, sparerei ancora, soffrirei di nuovo. Perché saprei di poter ottenere questo singolo momento perfetto. Per sempre.
 

We're all part of the masterplan.
 

The Corner:

Uppalà finalmente si pubblica!! Questa storia è iscritta al contest del Jisbon Day indetto da Aoko e si è classificata al secondo posto. Le canzoni che si trovano agli inizi dei paragrafi sono Powerless dei Linkin Park (e ringrazio mia zia per avermi regalato l'album per il diploma *__*) e The masterplan degli Oasis. Purtroppo ho avuto solo un paio di giorni per scriverla e correggerla. Non ho voluto fare cambiamenti alla versione che ho inviato a Aoko per coerenza al suo giudizio, perciò ci sono ancora gli errori che lei stessa a trovato nel valutarla. Spero che vi piaccia ugualmente :)
Baci
Nikki C.




Al secondo posto:

Nikki - The Masterplan

- Originalità 10/10
- Caratterizzazione pg 10/10
- Lessico 10/10
- Grammatica 9/10
- Apprezzamento personale 5/5

Totale 44

Credo che i numeri parlino da soli, mi limiterò a spiegare perché ho penalizzato di poco la grammatica. Dalla storia emerge una scarsa rilettura. Non vi sono errori significativi, se non lettere mancanti o parole attaccate o ripetute. Non ho voluto penalizzare troppo perché mi hai spiegato che avevi gli esami di maturità (e posso capirti visto che ho aperto il contest proprio in contemporanea e, avendoli fatti anche io quest'anno ne so qualcosa) e, come non ho penalizzato troppo chiunque mi abbia avvisata di eventuali problemi, ho deciso di non penalizzare nemmeno te.

 

  
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