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Autore: past_zonk    23/07/2012    1 recensioni
Aurikku ~
(...) scappò via, sigillò la porta della sua cabina, ed io ero lì con lei, l’orecchio poggiato sulla superficie di metallo, sentivo ogni singulto che non voleva farsi scappare, ogni respiro strozzato sul nascere da un singhiozzo prepotente. Immaginavo le sue sopracciglia imbronciate, la sua bocca leggermente rigonfia e arrossata dal pianto, i suoi occhi verdi e acquosi, come giada liquida, i suoi capelli arruffati disordinatamente, le ciglia nere umide e appiccicate, la sua carnagione arrossata, sfocata, con piccole macchie rosse sulle guance vellutate, e impazzivo, morivo dentro, ogni sospiro di tristezza era un stilettata al mio petto vuoto, ed ogni volta che tirava su col naso, desideravo più d’ogni altra cosa essere lì con lei, e accoglierla al bivio delle mie rudi braccia, e scaldarla e poggiare l’orecchio non su quella fredda, ignobile superficie metallica, ma sul suo morbido, tremante, candido petto, e ascoltare non i suoi singhiozzi disperati, ma il suo speranzoso battito cardiaco.
Genere: Romantico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Auron, Rikku
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'As you were Humbert.'
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Image and video hosting by TinyPicGentaglia! ~♥ Salve! Sono le quattro e dieci del mattino, fuori piove ma fa caldo, quest'estate è bella, io sono stanca ma continuo a scrivere, evidentemente. Beh, eccomi tornata (ancoraaaa? noooo, vai via!) con una one-shot molto, ma mooooolto (o forse poco, nella mia testaccia bacata) OOC. Lo so, che Auron non è così, lo so che sono scema, e tante cose, e so anche che probabilmente questa cagata non riceverà neanche una recensione, quindi pace, mi rassegno a parlare da sola :)
Ecco. Volevo elencare, diciamo, quello che m'ha ispirato a scrivere questa oneshot. Allora, prima di tutto due scrittori importantissimi per me, Vladimir Nabokov (dal quale è tratto il titolo e certe immagini ricorrenti nella fanfic e diciamo in sostanza la figura della ninfetta, della Lolita, che è secondo me perfetta con questo pairing) e Vladimir Majakovskij, con la sua Lettera a Tatiana Yakovleva (semplicemente divina,"ch’io impazzirei col tuo semplice voluttuar di ciglia", cito...i brividi).
Beh, ecco, s'è fatto abbastanza tardi, quindi direi sia ora d'andare a dormire. Vi auguro una buona lettura, e vi prego di lasciarmi qualche recensione anche seppure per delle critiche (che apprezzo sempre e cerco di usare per migliorarmi). Grazie.
eveyzonk.








Manifesto di una ninfetta.
 







Quelle sue ginocchia brune e sbucciate dal continuo caracollare: le sue gambe abbronzate e piene di taglietti qua e là, di scottature e cicatrici.
I suoi vestiti che profumano d’olio di motori e di qualche varietà di fiori che non riesco a distinguere bene. Quando gonfia le guance, irritata, e strizza gli occhi, e i pugni stretti aderiscono ai suoi fianchi e dice di odiarti. Oppure quando saltella qui e là non pensando davvero a dove mette i piedi, e per caso una sua spalla aranciata ti urta, ma non conta, non davvero, perché lei lancia uno scusa veloce e tagliente e continua quella sua corsa con la vita, come se non avesse bisogno di respirare.
Ogni tanto, quando la notte scende meschina sull’accampamento, e lei ha sonno, ma non lo vuole dimostrare, e vuole fare compagnia a chi deve fare la guardia notturna, e allora si stropiccia violentemente gli occhi e nel tentativo di sopprimere qualche sbadiglio fa dei rumori strambi, dei quali naturalmente poi finire col ridere.
La sua risata; quello scroscio cristallino di note dissonanti eppure così armoniose allo stesso tempo. Persino quel suo ridacchiare maniaco, certe volte, mi sembra musicale. E quando ride gli occhi le si restringono ed è come se le spirali delle sue iridi si strizzassero e quei punti verdi divenissero più luminosi che mai. Quando ride si tiene lo stomaco con una mano piccola, oppure – se è seduta – inizia una sorta di stramba danza che la porta a rotolare sulla schiena, con le gambe in aria, proprio come un ragnetto.
Quando dopo una lunga corsa cerca di catturare il fiato, e con le mani si poggia alle ginocchia inlividite e la schiena le si arcua e i capelli sempre leggermente sudati le ricadono sul volto latteo; e allora lei fa dietrofront e raggiunge l’ultimo della fila del gruppo, me, per camminare con la lentezza che non le se addice affianco alla mia figura.
E i miei occhi vagano sulla piccola goccia di sudore che le scende sulla gola umida.
Quando non capisce qualcosa e inclina la testa leggermente di lato, oppure mastica a bocca aperta, o si siede a gambe incrociate nel terriccio per giocare con qualche oggetto che ha rubato dai mostri. Quando s’allontana leggermente dal gruppo per provare qualche cocktail esplosivo dei suoi, e allora io la seguo, chiedendomi se sia pericoloso lasciarla sperimentare così con botte ed esplosioni.
Quando acquista delle armi per modificarle, e passa ore della notte lavorando quasi in trance, sudata e attenta ad ogni singolo movimento della mano, il suo indice leggermente tremolante e gli occhi nel semibuio del falò che osservano il paziente di metallo che giace sul suo grembo lasciato scoperto da un top verde come i suoi occhi.
Quando pensa alla sorte di Yuna e s’intristisce, non volendo, però, che gli altri lo notino, e allora ride un po’ più forte e in maniera forzata, mentre in realtà le gambe le tremano leggermente.
Quando le sere intorno al fuoco abbandona la sua personalità da bambina irrequieta e comincia a farmi delle domande serie, oppure a raccontarmi del suo passato, ché mi vien da chiedermi perché mai si fidi di me in maniera così irresponsabile. Quella sera in cui mi disse d’avere una paura spacciata di morire, di non poter più correre e respirare e di non riuscire ad avere un futuro; ed io non sapevo cosa risponderle. Non sapevo cosa dire, quali parole pronunciare, e non potevo semplicemente stringerla, perché è come se intorno a me ci fosse un filo spinato, perché io sono intoccabile, perché nessuno deve avvicinarsi e affezionarsi e soffrire la mia scomparsa. Non che io creda che lei ne soffrirebbe…Certo, il suo è un cuore così puro che se ne dispiacerebbe molto, proverebbe compassione nei miei confronti, ma non le mancherei, come non mancherei a nessuno. Continuerebbe a vivere la sua vita, come sempre, nella spasmodica ricerca di movimento, di instabilità, come piace a lei.
E i suoi occhi non mi cercano come i miei cercano in ogni momento la sua figura. Non è lei a provare questa paura sordida che s’attanaglia allo stomaco ogni volta che un mostro carica contro di lei. La sua coda dell’occhio non è sempre puntata sulla sua schiena, le scapole sporgenti, la disordinata treccia che le ricade sul collo…
Il modo in cui mi sorride che mi fa sentire a casa, e allo stesso tempo mi irrita oltremodo il potere che esercita sul mio stato d’animo. Mi irrita il sapere di non poterla mai avere, mai stringere tra le braccia, dover sempre accontentarmi di un fruscio sbadato, uno sfiorare maldestro da parte sua, un pugno leggero e giocoso sulla mia spalla, una linguaccia dispettosa.
Quando la sua casa venne attaccata, e, coraggiosa come nessuno, continuava a stringere le labbra per non sentirsi male a causa del forte odore di sangue; sangue di gente che conosceva e amava, il sangue dei suoi fratelli. E ci guidò fra i corridoi della Base, una guardiana coraggiosa, per trovare la sua invocatrice. Ero così fiero di lei. Così fiero…
Solo sull’aeronave si lasciò cadere, scappò via, sigillò la porta della sua cabina, ed io ero lì con lei, l’orecchio poggiato sulla superficie di metallo, sentivo ogni singulto che non voleva farsi scappare, ogni respiro strozzato sul nascere da un singhiozzo prepotente. Immaginavo le sue sopracciglia imbronciate, la sua bocca leggermente rigonfia e arrossata dal pianto, i suoi occhi verdi e acquosi, come giada liquida, i suoi capelli arruffati disordinatamente, le ciglianere umide e appiccicate, la sua carnagione arrossata, sfocata, con piccole macchie rosse sulle guance vellutate, e impazzivo, morivo dentro, ogni sospiro di tristezza era un stilettata al mio petto vuoto, ed ogni volta che tirava su col naso, desideravo più d’ogni altra cosa essere lì con lei, e accoglierla al bivio delle mie rudi braccia, e scaldarla e poggiare l’orecchio non su quella fredda, ignobile superficie metallica, ma sul suo morbido, tremante, candido petto, e ascoltare non i suoi singhiozzi disperati, ma il suo speranzoso battito cardiaco.
Lo immagino: saltellante e allegro, un tonfo, due tonfi, una piccola pausa, poi un altro tonfo e un altro ancora, e poi mille altri tonfi che s’inseguono nel suo petto giovane e scalcitante.
E l’avrei voluta baciare, avrei voluto sapere cosa si prova a sentire sulle mie labbra le sue umide e rosse di fragole, immaginavo ci sarebbe stato un grosso smack, e allora forse avrei addirittura ridacchiato, e non sarei sembrato così solo e senza speranza come in realtà sono. Avrei riso un po’ di lei e delle sue mani impazienti fra i miei capelli, immagino avrebbe percorso la cicatrice sul mio occhio con l’indice tremante, e poi l’avrei baciata ancora, e ancora…(se solo lei lo volesse…me ne infischierei e, immediatamente, sarei ai suoi piedi…ma non potrei rischiare tanto, non potrei farla soffrire; oh, mi contraddico)…
E il mio spirito irrequieto la odia e la ama, odia i suoi polpacci veloci e torniti, quasi scappassero da me, il mio spirito odia la sua gioventù, la sua vita, per il solo motivo che potrebbe perderla da un momento all’altro in questo stupido pellegrinaggio, odia ed ama i suoi intercalari, i suoi giochi di parole, la sua intelligenza vivida, il suo essere così irriverente in una società chiusa e arretrata, il suo senso dell’humour, il modo in cui osserva ciò che le sta intorno e lo immagazzina, la sua irrequieta voglia di imparare, il suo gironzolarmi attorno come una mosca, guardandomi con occhi sgranati e facendomi domande talora banali talora profonde, la paura che ha per i tuoni e i lampi, il modo in cui s’accovaccia fra le ginocchia, e con le braccia magroline s’abbarbica alla mia gamba, tremando come una foglia, non trovando altro che la mia risolutezza. E quanto vorrei non dover essere così severo, duro, antipatico; quanto vorrei averla incontrata in un'altra vita…prima del pellegrinaggio con Braska, prima di morire, prima di diventare un guardiano, prima di tutto…
E ci sarebbe stata solo lei, la costante d’ogni giorno, a irritarmi e a farmi sorridere. E ci sarebbe stato il sole, fuori, non questa sottile pioggerella che s’insinua fra i solchi della mia armatura e pare scavare lenti tragitti nella mia anima, scavando e cercando un qualcosa che non c’è…non sapendo che, ormai, dentro, sono cavo come un tronco morto…


   
 
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