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Autore: SofiaAmundsen    25/07/2012    12 recensioni
«Una mela, Sherlock? Non sono mica il tuo maestro!»
Sherlock abbassó lo sguardo sul frutto rosso e lucido che teneva fra le mani, incliando leggermente la testa, come se guardarlo da un' altra prospettiva lo avesse trasformato in qualcos' altro, e aprì la bocca per dire qualcosa, lasciando il suo bellissimo labbro inferiore sporto, ma non uscì niente.
Avrebbe voluto dirgli si, una mela, John, perchè è questo che siamo noi, due metá di una stessa cosa, le parti complementari di qualcosa che una volta era un' unica entitá e che poi è stato diviso, da un Dio invidioso e superbo, ma ricongiunto, da un destino favorevole e benvevolo.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sherlock stava leggendo seduto sulla sua poltrona, le gambe incrociate in una posa aristocratica, il viso rilassato ma concentrato, gli occhi immobili sulla carta consumata: sarebbe potuto sembrare quasi una statua, immobile, candido e perfetto com' era, se di tanto in tanto non avesse mosso la mano per sfogliare pagina.
Avevano da poco risolto un caso, lui e John, un uomo trovato in un fast food con la faccia macellata a colpi di spatola da cucina, quindi il detective non aveva bisogno di verificare nessun dato nei suoi libri di chimica, stava semplicemente leggendo un dialogo: il Simposio. Gli costava ammetterlo, in quanto molte delle sue teorie svincolavano liberamente dalla logica, ma Platone lo attirava molto, gli piaceva leggere l' armonia con la quale questo tentasse di trovare un senso al mondo, attraverso la propria filosofia, gli piaceva individuare quanti complessi di inferioritá nei confronti del suo maestro rieccheggiassero nei Dialoghi, o se ci fosse più utopia che giustizia nella Repubblica.
Strano a dirsi, per uno che definiva l' amore un pericoloso svantaggio, ma la sua opera preferita era proprio il Simposio: gli sembrava di essere una specie di Dio immune alle malattie degli uomini, che li guardava affannarsi dall' alto della sua freddezza, ridendo ironico di come la mente capace del filosofo avesse ritenuto opportuno convocare metaforicamente l' élite di intellettuali ateniesi per discutere di un tema tanto vacuo quanto inutile.
Era giusto al punto in cui al povero Aristofane era passto l'inopportuno singhiozzo che gli aveva impedito di parlare fin ora, quando la sua attenzione fu catturata dal mito narrato dal commediografo, mito che prima d' ora non l' aveva mai colpito e che in quel momento, invece, gli sembró incredibilmente interessante.


In tempi antichi c'erano tra gli uomini tre generi: quello femminile che aveva origine dalla terra, quello maschile che aveva origine dal sole e quello androgino che aveva origine dalla luna; questi tre erano esseri perfetti, fieri, forti e vigorosi. Ma anche arroganti e vollero tentare la scalata al cielo per combattere gli dei.
Zeus e gli altri dei non sapevano che fare, non potevano uccidere tutti gli uomini e decisero così di dividerli rendendoli così più deboli. Quando gli esseri umani furono tagliati in due ciascuna delle due parti desiderata ricongiungersi all'altra, desiderando solo di formare nuovamente un solo essere.
Ognuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario, per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare. Ed è per questo che siamo sempre alla ricerca continua della nostra metà della mela, non vogliamo essere una mezza anima, ma desideriamo ritornare alla nostra natura originaria.



Sherlock lo rilesse, e poi lo rilesse ancora e si chiese come mai trovasse quella metafora ben articolata così intrigante e stimolante, si chiese perchè se ne sentì fortemente coinvolto. La voce del suo inconscio parló per lui, facendolo voltare silenziosamente alla sua sinistra.
John era sdraiato sul divano, gli occhi chiusi con le ciglia chiare a sfiorare la pelle, le labbra leggermente aperte che lasciavano esalare un respiro più pesante del solito, il telecomando ancora in mano di una tv ancora accesa su un programma che nessuno stava guardando.
Sherlock non potè fare a meno di pensare che c'era qualcosa in quell' uomo che lo affascinava.
Forse, proprio perchè era così diverso da lui.
La pelle di John era olivastra, di quel colore che sembra leggermente abbronzato tutto l' anno, mai scuro, come chi sotto il sole ci lavora ore, mai chiaro, come chi il sole lo vede sempre e solo da una finestra, di quel colore che assume il latte, bianco e neutro, quando il caffè ci si tuffa dentro a renderlo interessante. Il detective abbassó lo sguardo sulla sua mano candida, nivea, diafana: lui era sempre stato solo latte.
Gli occhi del medico erano di un azzurro così tenue da non sembrare neanche tale, quel tipo di azzurro che noti solo la seconda volta che guardi una persona, solo se la guardi negl' occhi, quel tipo di azzurro che poi però ti avvolge come un abbraccio. Era un azzurro familiare, quello dei suoi occhi, lo stesso azzurro che ha il cielo quando torni nella tua cittá dopo tanto tempo, o di quando vai al mare con gli amici la prima volta, l'azzurro del mondo il primo giorno di scuola di tua figlia o del mare nel suo primo disegno, un azzurro che raccontava storie, di guerra, di amore, di sofferenza, di gioia ritrovata, di lacime trattenute per orgoglio, di sorrisi regalati, un azzurro che era un esplosione di sentimenti di un uomo troppo uomo per annunciarli, troppo uomo per non provarli. Sherlock pensò ai suoi, di occhi, azzurri anch' essi, si, ma di un azzurro così intenso da spaventare le persone, di un azzurro che era un' impenetrabile lastra di ghiaccio dietro al quale roteava un universo incoprensibile.
Poi ridipinse con lo sguardo i lineamenti del suo coinquilino addormentato sul divano. Non erano perfetti, avrebbe potuto contare almeno quindici, venti difetti, eppure a lui sembravano straordinari. Erano come una miniera d' oro di informazioni, la mappa di una vita intera, comunicavano così tanti dati da mandare in tilt il cervello del detective; riusciva a leggere nelle minuscole cicatrici dell' acne i disagi adolescenziali, l'insicurezza di quel periodo, i no delle ragazze e dei suoi genitori, i primi baci, le prime sigarette, vedeva la stanchezza di una vita di delusioni, sua sorella, l' esercito, le donne, nelle occhiaie profonde sotto gli occhi che ormai erano un tratto perenne e indelebile del suo viso, ascoltava le rughe sulla fronte e intorno alla bocca, ora poco visibili per la posizione rilassata, raccontargli di quanto avesse sofferto, di tutte quelle volte che avrebbe voluto piangere, disperarsi, urlare, morire, ma che non l' aveva fatto, si era detto io sono un soldato e si era dato un contegno, permettedo al dolore di firmarsi sul suo viso, oltre che nel suo cuore, come se quella fosse stata l'unica possibilità di manifestarsi che aveva, decifrava dalle sue labbra sottili, ora dischiuse e non nella posa arricciata che lo caratterizzava e che Sherlock adorava, tutte le parole che erano passate per quei due nastri esili, ordini freddi e duri, suppliche disperate e umili, confessioni tenere forzate, ti amo sinceri misti a quelli di circostanza, consigli paterni e medici mai ascoltati, e tutte le volte che avevano detto il suo nome, Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock.
Il moro si voltò verso lo specchio appeso sopra il camino: era sospeso troppo alto perchè riuscisse a vedercisi per intero, lo catturava infatti solo dal naso insú, ma tanto gli bastava per cogliere il riflesso dei zigomi spiglosi, della forma degli occhi allungata e felina, delle sopracciglia appenna aggrottate. Ebbe l' impressione che i suoi lineamenti non parlassero affatto.
Guardò ancora una volta John e per un attimo fu tentato di accarezzarlo. Allungò addirittura una mano, finchè questa non si trovó proprio sopra il viso addormentato del medico, ma poi la parte cosciente di se si sveglió: ritirò di scatto la mano, si alzó in piedi con un balzo e altrettanto velocemente afferrò il cappotto, facendoselo scivolare addosso mentre scendeva i diciassette gradini, le dita rapide che giá digitavano su google, l'unico essere onnisciente che conosceva, altro che le tue Idee, caro Platone.





Tic Tac. Tic Tac. Tic Tac.
John continuava a chiedersi perchè quell' orologio da taschino fosse così rumoroso.
Tic Tac. Tic Tac. Tic Tac.
Ed era pure enorme, considerando le dimenzioni del coniglio che lo teneva in mano.
Coniglio?
Tic Tac. Tic Tac. Tic Tac.
Si, un coniglio bianco e...
«Fallo smettere!» gli aveva urlato contro, per la terza volta.
Ma questa volta il coniglio non aveva iniziato ad agitarsi continuando a riperere "è tardi, è tardi!", aveva invece iniziato a dire parole senza senso canticchiando una musica orecchiabile e...familiare.
Eppure, sono sicuro di averla giá sentita questa canzone... pensó John mentre il coniglio si allontanava sempre di più.
«Hei, dove stai andando?» gli urlò dietro, rincorrendolo e ricordandosi perchè non lo aveva ancora mandato al diavolo, lui e il suo orologio: aveva rubato l' archetto di Sherlock e doveva assolutamente farselo ridare!
Corse, corse e corse ancora, per quelli che gli sembrarono chilometri, dietro al coniglio che gli sembrava sempre piú lontano, finchè questo non sparí, inghiottito dal buco nero dal quale proveniva quella musica che si era fatta più forte, insieme agl' alberi, il cielo, la strada, il mondo intero e John.


Il medico si sveglió di soprassalto, con il cuore che batteva e la sensazione di vertigini ancora nello stomaco. Respirò a fondo un paio di volte e si chiese come mai, se quell' assurdo sogno era finito, continuava a sentire quella musichetta allegra. Aprì gli occhi sulla tv accesa: Chatty Man era appena inziato e Alan Carr stava giá accogliendo l' ospite del giorno.
Sorrise, pensando che se quell' uomo -o quanto meno la sua sigla- era riuscito ad entrare nei suoi sogni, proprio come aveva fatto Sherlock da tempo, era davvero evidente che sarebbe diventato pazzo di li a poco se non avesse trovato un hobby diverso dalla tv, sopratutto considerando che nel sogno c'era anche un coniglio bianco. Con un orologio. E l' archetto di Sherlock.
Si posizionò prima seduto e poi si aiutò ad alsarzi spingendo con le mani ed emettendo un piccolo sbuffo assonnato.
Si guardó intorno alla ricerca di Sherlock, non stupendosi neanche più di come fosse il suo primo pensiero al risveglio, e non lo trovó, ne sentì la musica del suo violino. Esaminò le lancette del suo orologio da polso: le sei di pomeriggio -il suo sonnellino pomeidiano era durato più del previsto-, dove poteva essere andato Sherlock con il cielo di Londra che sembrava volesse affogarla per i suoi peccati?
Magari è andato a prendere la cena, pensó il medico, dandosi dello stupido subito dopo per aver immaginato una cosa tanto surreale.
Si stiracchió per bene al centro della sala, allungando le braccia verso l' alto e strizzando forte gli occhi, poi li riaprì e notó che sulla poltrona di Sherlock era appoggiato un libro aperto su una pagina.
Lo prese tra le mani, entrando in contatto con la copertina in pelle e le pagine consumate: sembrava avere diversi anni, forse, ce l'aveva fin dalla scuola; mise un dito in mezzo per tenere il segno e lo chiuse, così da poter leggere il titolo.
Simposio
La scritta corsiva in oro troneggiava sulla superficie scura leggermente crepata, centrale, sotto a quella più piccola e in stampatello dell' autore, Platone.
John si stupì non poco di trovare quel testo tra le letture del suo coinquilino, per quanto ne sapeva Sherlock non conosceva niente di filosofia e neanche gli interessava, non più del sistema solare o delle relazioni sentimentali, e d' istinto riaprì il libro alla pagina che aveva conservato, iniziando a leggere le prime righe.

In tempi antichi c'erano tra gli uomini tre generi: quello femminile che aveva origine dalla terra, quello maschile che aveva origine dal sole e quello androgino che aveva origine dalla luna;

Quelle parole richiamarono qualcosa nella sua mente, qualcosa non abbastanza vicino da essere ricordato con chiarezza, non abbastanza lontano da essere dimenticato nell' oblio, e il medico si chiese come mai quelle poche frasi lette avessero evocato nel suo pensiero l' immagine rossa e tonda di una mela.
Senza accorgersene, si sedette sulla poltrona del detective continuó a leggere quel mito così suggestivo.


Quando ebbe finito chiuse il libro con un piccolo tonfo. Non aveva mai letto tanta veritá in qualcosa di illusorio come una leggenda. Gli sembrava parlasse di lui, Platone, attravero la bocca di Aristofane, di lui e di Sherlock per l' esattezza, e non come coppia, perchè John era convinto della sua eterosessualitá, ma semplicemente come persone, come enti, che un destino curioso e furbo aveva trasportato sul suo soffio fino al 221b di Baker Street, così diversi da essere opposti, così opposti da essere compatibili, due anime che si incastrano nel freddo di Londra, l'universo che fa un puzzle con noi esseri imperfetti. Si chiese come sarebbe stata la sua vita se non avesse incontrato Sherlock, se avesse anche solo scelto una persona più tranquilla con cui divedere le spese dell'affitto, tornato dall' Afghanistan, al posto di un uragano di intelligenza, eccentiricitá, energie, se si fosse semplicemente trovato ad annoiarsi nella sua convalescenza, invece di rischiare la vita dopo averla quasi persa in guerra, invece di sparare a sconosciuti per salvare qualcuno che conosci solo da un giorno, ma che giá ti è entrato dentro, se solo avesse trovato una donna, con un bel sorriso, la dolcezza degl' occhi e la premura di prendersi cura di lui, al posto degl' occhi di ghiaccio e i capelli ricci che giravano per casa in vestaglia senza mai comprare il latte e riempendo il frigo di parti anatomiche.
Sarebbe morto. Questo gli sarebbe successo, ne era convinto. Sarebbe morto, se non fisicamente, spiritualmente, sarebbe sprofondato in un abisso di ricordi dolorosi e disturbi post-traumatici così profondo da non riuscire più a uscirne, da non avere neanche la forza di mettere fine a quel vortice tedioso e quindi lasciandosi morire, come una pianta chiusa in un armadio senza più luce ne acqua. Perchè non lo avrebbe ammesso, il dottore, forse nemmeno se ne rendeva conto, ma Sherlock era stato esattemente quello di cui aveva avuto bisogno, era stato la persona giusta al momento giusto, quella spinta, troppo veloce forse, troppo inaspettata forse, che gli era servita per rialzarsi e ricominciare a vivere, quella scarica di adrenalina di cui aveva avuto bisogno per dimenticare la stampella al ristorante e ricominciare a correre sulle sue gambe nelle strade della vita. A pensarci bene, doveva tanto a quell' eccentrica confusione di ricci scuri, al suo unico amico, all' elegante modo che aveva di metterlo sempre nei guai. Forse, Sherlock gli aveva salvato la vita più del medico che gli aveva estratto la palottola dalla spalla.
E continuava a farlo. Anzi, continuava a dargli una vita, un motivo per cui alsarzi la mattina, qualcosa per cui arrabbiarsi, avere paura, vibrare, un' esistenza piena di tutto, di pericolo a volte, di noia di tanto in tanto, ma costruita di risate, compagnia, avventura, una vita che rideva beffarda di quella che altrimenti sarebbe stata, un medico militare zoppo che arranca per Londra aspettando la morte seduto sulla poltrona di una pensione. Da solo.
E continuava a essere il briciolo di follia che mancava nella sua compostezza di colonnello, Sherlock, continuava ad essere la ventata di aria fresca nei suoi modi un po' stantii da militare, la voce della veritá che sfumava le buone maniere che si portava dietro da sempre, l' unicitá che finalmente ravvivava la sua banalitá.
Forse, Sherlock era la sua metá della mela.



John pensò che visto la conclusione a cui era arrivato, ovvero il fatto che, per quanto gli sembrasse strano, era in debito con Sherlock, quella sera gli avrebbe fatto trovare una cena con i fiocchi, ma mentre cercava qualche ricetta per principianti su internet si rese conto che non aveva la minima idea di cosa gli piacesse mangiare dal momento che, le rare volte che lo faceva, si limitava a ingoiare quello che c' era di commestibile senza esprimere nessun giudizio a riguardo. Solo una volta, mentre erano appostati per seguire un caso a Iver, aveva commentato "non male", gustando degli involtini primavera di un ristorante cinese li vicino.
Così aveva attraversato la cittá per comprare quegli stessi involtini primavera, li aveva tolti dai cartoni e messi su dei veri piatti, coprendoli con dei coperchi perchè non si freddassero, aveva messo a tavola la bottiglia di vino appena comprata e lo aveva aspettato seduto davanti al suo posto vuoto. Per mezz'ora. Poi per un' ora. Dopo ancora per un' ora e mezza. E alla fine aveva mangiato, senza neanche scaldare niente, con tutto che aveva il sapore della delusione, arrivando alla conclusione che era da illusi aspettare Sherlock Holmes, sarebbe potuto tornare in piena notte, o non tornare affatto: lui era l'imprevedibilitá fatta a persona.


Quando giá quasi metá della bottiglia di rosso era scivolata giù per la gola di John, il medico aveva sentito la porta aprirsi e le scale essere salite a grandi passi.
Sherlock era comparso in tutta la sua altezza, i ricci spettinati, il colletto del cappotto scuro alzato, con gli occhi di zaffiri che brillavano nella penombra e un' espressione enigmatica tra le linee del volto.
«Dove sei stato?»
Prima di ciao, glie l' aveva chiesto, e con un tono inquisitorio. Dio, sembrava una moglie gelosa.
«Voglio dire» cercó di riprendersi il dottore «sei tornato tardi, avevo ordinato la cena al cinese» mentì. Per quale motivo, poi? Temeva forse che avrebbe riso di quella cena speciale?
Il detective stette un po' in silenzio, fissando l' altro dritto negl' occhi e il medico desideró alsarzi e andarsene, mandandolo al diavolo, lui, Scottland Yard, la rete di senza tetto e qualsiasi cosa lo avesse trattenuto.
Sherlock stette in silenzio ancora qualche attimo, poi parló, con la voce profonda più bassa del solito, come per sussurrare, come se fosse stato un segreto.
«Ero a comprarti un regalo.»
John rimase come paralizzato a quella risposta, che neanche figurava nella lista di quelle che si sarebbe aspettato. Sherlock...regalo...per lui?


Ed era vero, Sherlock era uscito di casa chiamando un taxi mentre sul motore di ricerca del suo cellulare cercava qualcosa che era decisamente fuori dalla sua area: come dire a una persona che tieni a lei. La maggior parte dei forum e dei siti suggerivano di comprarle un regalo e poi "aprire il proprio cuore".
Sherlock non era esattamente il tipo da fare una cosa del genere, non era neanche sicuro di avercelo, un cuore, quindi doveva puntare tutto sul regalo, ma anche li non era stato facile.
Di sicuro John non se ne sarebbe fatto niente dei fiori, li avrebbe ceduti alla signora Huddson o lasciati seccare in un vaso dimenticato.
Per non parlare dei cioccolatini, che sarebbero serviti solo ad aumentare quel filo di pancetta che aveva messo su.
Non lo aveva neanche mai visto indossare bracciali o collane, ad eccezione della Dog-Tag nei giorni in cui aveva noatalgia dell' esercito e zoppicava di più, quindi anche i gioielli erano da escludere.
Non gli restava che regalargli un maglione, ma il detective non era così egoista da torturare il mondo con un'altra di quelle crezioni inquietanti.
Così aveva camminato per le maggiori vie dello shopping per ore, finchè molti negozi non avevano giá chiuso e quando, con le mani nelle tasche del cappotto e lo sgardo basso, si era quasi rassegnato all' idea dei fiori, l' aveva notato, il regalo perfetto, in una vetrina in cui non avrebbe mai pensato di trovarlo.


John era talmente esterrefatto che non riuscì neanche a dire le solite frasi di circostanza, a snocciolare un "Sherlock, non dovevi" o "grazie, ma io non ti ho preso niente", riuscì solamente a fissare il suo coinquilino con un' espressione ebete e a pregare il suo cuore di rallentare, almeno un po', abbastanza da farlo respirare.
Sherlock, dal canto suo, non sapeva come comportarsi ne cosa aspettarsi, così attese qualche secondo la reazione di John, scrutandolo con i suoi occhi cangianti, poi distolse lo sguardo e infiló la bella mano affusolata nella tasca del cappotto, per prendere il suo regalo.
L' espressione di John fu subito simbolo della sua delusione, quando vide di cosa si trattava, e pensò all' istante che fosse stato tutto un tranello del moro e lui un povero illuso, ma si sforzó comunque di ricorrere all' ironia.
«Una mela, Sherlock? Non sono mica il tuo maestro!»
Sherlock abbassó lo sguardo sul frutto rosso e lucido che teneva fra le mani, incliando leggermente la testa, come se guardarlo da un' altra prospettiva lo avesse trasformato in qualcos' altro, e aprì la bocca per dire qualcosa, lasciando il suo bellissimo labbro inferiore sporto, ma non uscì niente.


Avrebbe voluto dirgli si, una mela, John, perchè è questo che siamo noi, due metá di una stessa cosa, le parti complementari di qualcosa che una volta era un' unica entitá e che poi è stato diviso, da un Dio invidioso e superbo, ma ricongiunto, da un destino favorevole e benvevolo.
Siamo quello che manca l' uno dell' altro, siamo l' elemento che ci serve per essere perfetti, invincibili, insieme, siamo la parte migliore l' uno dell' altro, o quanto meno tu sei la parte migliore di me, perchè riesci sempre a trovare una soluzione ai problemi che sono io a creare, perchè fai sembrare meno orrende le cose terribili che dico, perchè mi salvi sempre da tutto, anche quando un pugno in faccia me lo meriterei, anche quando sono io a voler rischiare, perchè sei paziente, buono, cordiale mentre io sono freddo, insensibile, irrequieto, perchè piaci sempre alle persone, mentre io vengo odiato da tutti, ma sopratutto perchè sei riuscito a capirmi, sei riuscito ad entrarmi dentro, sotto il ghiaccio che mi ricopre, nonostante io non ti abbia mai dato il permesso di farlo. Sono sempre stato un riccio, John, con tante punte che partono dal mio corpo per tenere lontano gli altri e tu, solo tu nel mondo, sei riuscito ad amalgamarti tra queste punte, ad essermi complementare, ad essere l' unico pezzo che si incastrava col mio. E andiamo, John, quante probabilitá c' erano, una su cento milioni di miliardi? Forse anche meno, perchè se una stella si spezza in tutto l' universo ci metterá l' eternitá a trovare l' altra sua metá e forse non ci riuscirá mai, e invece tu mi sei capitato per caso.
Perchè tu sei tutto quello che non ho mai avuto, sei tutto quello che non sono mai stato, sei la parte bianca del mio tao, sei lo yang che non avevo mai cercato, ridendo di chi lo faceva e credendo di poter stare bene essendo solo yin, sei l'unico frammento d' univero che combacia con me.
Si, una mela, John, perchè tu sei l'altra metá della mia mela.


Ma Sherlock non era mai stato bravo a parlare a cuore aperto, non ci aveva neanche mai provato a dirla tutta, e non sarebbe riuscito a pronunciare neanche una parola di quelle che aveva pensato. Così era rimasto ad osservare la reazione di John per qualche secondo, sperando che, non so, capisse da solo, o di avere un'illuminazione sul che cosa fare, interrompendo quel silenzio che cominciava ad essere pesante e quello scambio di sguardi così intenso, gli occhi brillanti di Sherlock che per la prima volta risplendevano di insicurezza in ogni loro sfumatura, quelli chiari di John che avevano una domanda in ogni linea graduata.
Poi, abbandonò le iridi del medico e prese il coltello rimasto inutilizzato sul tovagliolo pulito. Lo posizionò precisamente a metá della mela, appoggiata sul tavolo, cambiandogli posizione un paio di volte come a cercare il punto perfetto, al che spinse con l'altra mano sopra a quella che teneva la lama e spaccó la mela in due metá che ondeggiarono un po' sul legno prima di fermarsi. Le osservó per un attimo, poi tornó agli occhi di John, fissandolo mentre allungava la mano destra per prenderne una metá; John rimase come incantato dal movimento elegante e dal colpo secco con il quale il moro aveva spezzato la mela e dallo sguardo profondo e ammaliante con cui lo stava tenendo calamitato a se, e come in una trance dettata dall'azzurro cristallino dei suoi occhi aveva allungato la mano sinistra verso la metá della mela rimasta, nel secondo stesso in cui l'uomo di latte e occhi scintillanti di fronte a se l'aveva fatto.
Guidati da chissá quale cieco istinto d'amore avevano allungato le mani opposte l'una verso l' altra, con una lentezza epica e disarmante, sollevando le due metá dello stesso frutto ad un altezza non prestabilita ma casualmente medesima, finchè le imperfezioni del taglio di una, la buccia spezzata in un punto, il torso sporgente in un altro, erano andate ad intersecarsi con quelle dell' altra, la gemella che l'aspettava dal momento stesso in cui erano state divise, fondendosi di nuovo nell' unione perfetta che erano, metafore emblematica di due anime che non le avevano guardate mentre si ricongiungevano, di Sherlock e John che erano riusciti solo a continuare a contemplarsi l' un l' altro, il detective con le labbra leggermente aperte, il respiro sospeso nell' aria insieme alle parole non dette, mille nuovi brividi d'emozione che lo attraversavano inesperti e potenti, il dottore con la sorpresa negl' occhi, il cuore che ormai, ribelle e impazzito, sprigionava tutta la sua potenza e sembrava volesse forargli il petto, la mano che teneva la mela leggermente tremante. Ed erano rimasti così, per anni forse, perchè non sarebbe bastata l'eternitá intera per dirsi quanto si amavano, e quanto si odiavano per non esserselo confessato prima, erano rimasti così, finchè Sherlock aveva fatto un minuscolo, impercepibile passo avanti, che non era altro che il suo personale si, puoi alla domanda che aveva letto negl' occhi del medico.
John si avvicinò ancora, finchè non sentì addosso il respiro caldo e appena accelerato dell' altro, e poi ancora fin quando le sue labbra non furono posate, ancora immobili, ancora insicure, su quelle sporte di Sherlock, come una gemma di rosa appena sbocciata, sfiorando quel labbro inferiore così rosso e carnoso, allettante e goloso nella sua posa pretuberante, e accarezzare l'arco di cupido così perfetto da sembrare divino, tondeggiante e disegnato all' apice della bellezza, senza peró ancora baciarlo, esitando ancora un po', assaporando con ogni senso quel momento, così idilliaco, così magico.
Poi le due metá della mela vennero lasciate andare, perchè entrambi volevano le mani libere per scoprire il corpo dell'altro, e rotolarono sul tappeto finchè di nuovo non si trovarono a combaciare l' una con i dettagli dell'altra e tornaro a formare nuovamente un solo essere .
Ma nessuno le notó, perchè le labbra di John avevano finalmente premuto su quelle di Sherlock, dopo l' insopportabile e piacevole attesa di sospiri, e la sua lingua era scivolata silenziosa nella bocca dell' altro, acarezzandone il palato con delicatezza ma desiderio, muovendosi in lui timida ma smaniosa, cercando ancora le sue labbra, assaggiandole, mordendole, assaporandole.
La bocca di John sapeva di vino e di buono, un misto quasi piú potente della droga, pensó Sherlock, mentre incerto aveva iniziato anche lui a muovere la sua lingua con quella del medico, senza sapere davvero come fare, ma guidato dall'istinto di non voler perdere neanche una goccia di quel sapore che non credeva così dolce, di quel gusto gradevole, di quel bacio ameno che forse sapeva semplicemente d' amore.

Si trascinarono a vicenda in camera e fecero l' amore tutta la notte, senza stancarsi mai l'uno dell'altro, per ore indimenticabili durante le quali John ripetè a Sherlock che lo amava innumerevoli volte e Sherlock pensó che lui non aveva idea di che cosa fosse l'amore, ma se quel desiderio di non staccarsi mai più da John che lo stava riempendo era amore, allora ne era innamorato fino alla follia.
Solo quando ormai era quasi mattina e il cielo si accingeva a diventare piú chiaro, dopo aver lasciato al loro desiderio tutto il tempo di splendere piú di ogni altro elemento del firmamento, John sussurò l'ultimo ti amo così flebile che quasi era servito solo a se stesso per ricordarsi che ora poteva dirlo davvero e non solo pensarlo, e poi, poco più ad alta voce:
«Buonanotte, Sherlock. Sogni d'oro»
«Buonanotte, John. Spero di sognare Platone: devo dirgli che aveva ragione.»












Grazie a Claudia che oltre a una beta fantastica é una grande amica.
   
 
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