La città dei
sogni non esiste.
10 aprile 1912, ore 10:30 a.m.
Arrivati a Southampton con il solito ritardo aristocratico (mio padre è fermamente convinto che arrivare in ritardo il giorno della partenza sia di buon auspicio per l’economia della famiglia), tutto ciò che riesco a sentire è il caos più totale. Scendo dall’auto e mi sistemo i vestiti che indosso. Mia madre, prontamente, si fionda sul colletto della camicia di qualche millimetro fuori posto.
«Mamma, mamma! Ti prego! Lasciami respirare, non siamo ancora saliti a bordo, nessuno riconoscerà i cugini di Re Giorgio in mezzo a tutta questa gente.»
Senza nemmeno accorgersene, mia mamma, nella sua mente, sta chiedendosi perché i suoi ovuli avevano scelto me come unico vincitore del premio chiamato “nascita”.
«Eric, ti ricordo, come ben sai, che dobbiamo essere degni della grandezza di questo evento, e non lascerò che tu e i tuoi sciatti modi mandino all’aria la nostra figura.» Ribatte, come se un colletto messo male fosse segno di disgrazia. «Siamo qui anche per cercarti moglie, non devi essere fuori posto neanche di un centimetro.»
«Ti ho ripetuto mille volte che non incominciano ad interessarmi le donne solo se mi sposo con una di loro.» I miei occhi, in preda all’ira, vagano per la piazza in cerca di qualche vista rilassante.. ed eccola là. «C’è Rose DeWitt Bukater, se permetti vorrei andarla a salutare. Ci vediamo in cabina.» Tolgo le mani di mia madre dal mio collo e mi immergo nella folla, sgomitando qua e là per raggiungere la famiglia della mia carissima amica.