Disclaimer: i
personaggi appartengono a Fujimaki Tadatoshi.
La demenza senile è la mia (L)
Note utili: essendo una specie what if…? (salvo che il sensei ci delizi con una cosa del genere anche nel manga e,
per carità, ben venga) non ha riferimenti al manga. Presenza di un linguaggio
colorito (e come poteva non essere, con Kagami e Aomine di mezzo, dico io?) ;D
Credo sia intuitivo, ma lo segnalo per sicurezza: sono quattro pov alternati, uno per personaggio ad ogni scena.
Note random: alla
fine è uscita totalmente diversa da come l’avevo pensata, ma ormai non mi
stupisco nemmeno più *non sa se ridere o piangere* Ho anche avuto la tentazione di cancellare
completamente la parte di Aomine, ma tanto quell’uomo mi fa penare sempre,
perciò ho abbandonato la cosa a se stessa (?!).
Dedica: Oneshot
per il compleanno di OhBirds. La dedica per intero magari
te la farò altrove (forse), ma tanto per ribadire che ti auguro un buon
compleanno e che questa pazzia è per te <3
Parola sua che ne aveva
viste tante, nella sua vita – già solo avere a che fare con la Generazione dei
Miracoli ti forniva un bagaglio di esperienze che la gente normale si sognava –
al punto che niente avrebbe potuto più stupirlo.
Dopotutto come avrebbe potuto, dopo aver incontrato gente che pensava di poter
essere sconfitta solo dal proprio riflesso allo specchio, o che giocava al tiro
al bersaglio con le forbici, o che aveva donato l'anima al diavolo per salvarsi
dal dentista – non puoi mangiare solo dolci e non averli cariati! – o che, ancora, era alla stregua di un cazzo
di copia-ninja dei videogame, per non parlare dei feticisti degli oroscopi?
Dopo essere stato cresciuto da una specie di serial killer-baci-maniaca
compulsiva?
Non poteva.
Eppure, nonostante traumi che gli avrebbero fatto guadagnare il pass per una casa
di cura psichiatrica se non fosse stato – in fondo in fondo – un po' tocco anche
lui, non se ne capacitava.
Cos'era, stava sul cazzo al karma?
Perché la prospettiva di una convivenza con Aomine Daiki e Kise Ryouta, intesi
come coppia amorosa, era più di quanto il suo animo potesse sopportare.
Meglio la pipì di numero 2 sulla gamba, cristo santo!
Tre giorni.
Erano passati tre maledetti, fottutissimi giorni e già quella scena minacciava
di diventare un’inquietante, triste routine.
Già il fatto stesso che tu, sana matricola universitaria, decidessi di andare a
vivere con il tuo compagno – fidanzato,
Taiga, non è una parola difficile, sai? – rappresentava un passo importante,
considerata la giovane età e che sei un pezzo di ragazzo di centonovanta
centimetri tutti gay. O almeno, gay abbastanza da considerare una relazione con
il tuo ragazzo qualcosa che nessun paio di tett—seni potrebbe farti rimpiangere,
non importa la misura.
A queste difficoltà dovevano aggiungersi un’altra coppia con cui convivere e un
cane.
Un cane.
Bestiola che, tutto sommato, era da considerare il problema minore; il che, se
usciva dalla bocca di Kagami Taiga, era tutto dire.
Lui amava cucinare e, modestia a parte, gli riusciva piuttosto bene. Era, per
lui, un hobby rilassante e un piacere, dunque non considerava particolarmente
fastidioso preparare la colazione per sé e per Kuroko. Tutt’altra questione era
ritrovarsi a cucinare per quattro, nemmeno avessero avuto – lui e Tetsuya – due
figli.
Due figli molto scemi.
«Kurokocchi—!» ed eccola, la voce lamentosa del primo idiota, infantile dei
suoi indesiderati coinquilini: Kise Ryouta, nel pieno della sua vitalità
mattutina che – se vivevi nel trauma da risveglio – ti faceva venire voglia di
annegarlo nel tuo water.
Che poi, bisognava essere sinceri: se avesse ignorato la sua fissa con quegli
stupidi nomignoli, i suoi momenti (piuttosto frequenti) di ritorno all’infanzia
perduta – roba da far impallidire Peter Pan –, il suo apparentemente
inguaribile entusiasmo che no, non volevi sopportare quando avevi delle sane
palle girate… ecco, a parte questo, non era malaccio.
Forse.
Rispetto all’altro, almeno.
«Kurokocchi, non riesco a svegliare Aominecchi, dammi una mano.» si lamentò
Kise, pimpante e in piedi da quasi un’ora ormai, ossia da poco meno rispetto
allo stesso Kagami. Questi sbuffò seccato, rischiando di mandare in malora il
pesce grigliato che stava preparando. Altra cosa che avrebbe gradito sapere era
perché, a diciannove anni o quanti erano, quello lì avesse più difficoltà a
svegliarsi di un bambino di sei.
Kuroko, che in quel momento stava tirando fuori dal frigo il latte per Nigou,
rimase con la mano ferma a mezz’aria nel vedere il biondo apparire sulla soglia
della cucina; richiuse il frigorifero – il che decretò la brusca e delusa interruzione
dello scodinzolare del cucciolo – intenzionato a muoversi verso la stanza dei
due.
La prima volta che questa scena si era verificata, ossia la prima mattina in
cui si erano svegliati nella nuova casa, era stato lecito domandarsi perché
Kuroko assecondasse così facilmente Kise.
Poi, Kagami aveva avuto la sventurata occasione di vedere Aomine Daiki in fase
di risveglio, e aveva messo in chiaro che lui poteva pure fare la colazione per
un esercito, ma non avrebbe mai più avuto a che fare con quello lì di mattina –
e possibilmente per il resto della giornata, ma convivendo era difficile.
Convivendo. Se ci pensava gli
venivano i brividi.
Kuroko stava per varcare la soglia della cucina, diretto al salvataggio di un
inizio mattinata decente, quando un: «…Buongiorno
Aomine-kun.» fece intuire a Kagami che, forse, quella mattina sarebbe stata
diversa.
«…mnfghf.»
O forse no.
«Aomine-kun, sei pesante.» commentò piatto Kuroko e, voltandosi, Kagami notò
che Aomine sembrava essere appena svenuto su Tetsuya. Taiga incurvò le labbra
in sogghigno di quelli che ti facevano capire quanto l’istinto omicida potesse
concentrarsi in una sola espressione.
«Scollaglielo di dosso.» intimò a Kise.
«Taiga-kun.» lo chiamò Kuroko, come a dire che non ce n’era bisogno.
«Ohi, Aominecchi.» lo chiamò Kise, fiutando qualcosa – se aveva capito un po’
l’atteggiamento di Kagami nei confronti di Kuroko, era meglio prendere il moro
di peso piuttosto che aspettare che riprendesse coscienza.
Il bell’addormentato, ancora praticamente svenuto su Tetsuya, si degnò appena
di alzare lo sguardo sul biondo, con l’espressione di uno appena uscito
dall’oltretomba. Kise abbozzò un sorriso, ma non sembrava granché convinto di
ciò che faceva; Kuroko invece pareva più che altro speranzoso di togliersi – letteralmente
– un peso dalle spalle.
«…Ohi, Ryouta.» bofonchiò Daiki in un accenno di
linguaggio umano, sebbene fosse ancora arrochita dal sonno. Si spostò, almeno
in parte, smettendo di pesare totalmente su Kuroko e circondando con
familiarità le spalle del biondo con un braccio, in un gesto complice.
Non fu chiaro quale collegamento ci fosse, nella testa di Aomine, fra il
mollare Kuroko e il baciare il biondo, se fosse un rito mattutino di cui erano
all’oscuro o semplicemente fosse ancora troppo rincoglionito per fare qualcosa
che avesse un senso; l’unica cosa evidente fu che non ragionava con la testa,
la mattina, ma con qualcosa più in basso
che era, sicuramente, fin troppo sveglio
e che Kagami ne aveva piene le pall—le scatole.
«Andate a tubare lontano dalla mia cucina e non
di mattina, conigli!» sbraitò – e
quando parlava di conigli, non si riferiva certamente alla codardia, ma a ben
altre rinomate caratteristiche riproduttive.
«Ma Taiga-kun, i conigli non tubano.»
«Non stavi dando da mangiare a quello lì, tu?!» sbottò, non avendo nessuna
intenzione di ascoltare l’esatta spiegazione dei versi degli animali.
L’aveva detto lui: mai più Aomine
Daiki di prima mattina.
A sconvolgere quella convivenza a dir poco grottesca, però, non c’era solo il
coma mattutino – versione porno – di Aomine. Purtroppo, avrebbe aggiunto
qualcuno.
Non era altrettanto frequente, dal momento che quello di Daiki era un problema
per così dire “giornaliero”: certo, avrebbero potuto trovare un rimedio, ma
come saggiamente persone più assennate di loro avevano fatto notare, trovare un
rimedio avrebbe significato cercare la causa. Individuarla, implicava indagare
su cosa potesse renderlo così assonnato, e fare quest’ultima cosa avrebbe
potuto portare ad una sola possibile conseguenza: scoprire cosa faceva Aomine
fino a tardi.
Le possibilità che erano venute in mente per prime erano state due: nel momento
in cui, poi, si erano resi conto – lui e Kagami – che con ogni probabilità
entrambe implicavano un certo grado di intimità e momenti o atteggiamenti in
cui decisamente non volevano cogliere in flagrante l’altro, si era cautamente
scelto di lasciarlo al suo destino.
Kise-kun avrebbe risolto in qualche modo, aveva
assicurato – un modo cortese e pacato di lavarsene le mani: qualcuno doveva pur
essere sacrificato per il bene superiore della collettività.
Quando questo pensiero era stato formulato, tuttavia, Kuroko non aveva mai
preso in considerazione l’eventualità di avere a sua volta la propria “gatta da
pelare”; anche se la sua non era un gatto, in effetti, ma un cane.
«TETSUYA.» sentì sbraitare dal soggiorno e qualcosa gli disse che l’aver
scampato il coma mattutino di Aomine, quella mattina, avrebbero dovuto metterlo
in allarme riguardo il pomeriggio; si era stupidamente rilassato abbassando la
guardia, un errore imperdonabile.
Si mosse, spostandosi dalla cucina dov’era e raggiungendo l’altro in salotto,
dove lo trovò vicino alla finestra: questa dava su un piccolo balcone, non così
ampio da poterli ospitare per guardare il panorama, ma abbastanza perché ci
potessero appendere il bucato. Kagami tuttavia non era preso da un momento da
Cenerentola o affini, ma aveva un’espressione a dir poco irritata, le
mastodontiche scarpe da basket ai suoi piedi buttate a terra alla meno peggio.
Poco distante da lui, stava Nigou.
«Cosa succede?» chiese pacato, senza la minima preoccupazione che la faccia
scazzata di Kagami avrebbe forse dovuto smuovere almeno vagamente; il più
grande lo fissò, indicando le scarpe: «Il. Tuo. Cane.» sillabò, marcando la
parola “tuo” in maniera piuttosto palese.
Kuroko a quel punto spostò lo sguardo dal compagno alla bestiola che, poco
distante appunto, sembrava tutta presa a sonnecchiare: «E tu non fingere di
dormire!» sbottò l’altro, quasi a seguire lo sguardo di Tetsuya – umano – e
rimarcare il tentativo del cane di fare il finto tonto. Kuroko non volle fargli
notare, in quel momento, quanto poco sensato fosse o potesse apparire il
rimproverare un cane perché fingeva di dormire.
Non che dubitasse della grande intelligenza di Nigou, ma insomma…
«Ohi, cazzo ti urli?» si affacciò Aomine dalla sua stanza, e Kuroko capì – data
l’assenza di Kise in casa, in quel momento – che uno dei pochi modi di salvare
il resto della sua tranquilla giornata era far sì che Kagami continuasse ad
accapigliarsi solo con il cane, e non anche con Aomine stesso.
«Tornatene a farti se—»
«Taiga-kun.» lo richiamò Kuroko per iniziare a salvare il salvabile: «Cos’è
successo?» ripeté cambiando di poco la domanda di prima. Tanto parve bastare a
ripristinare l’attenzione dell’altro su di sé: «Il tuo cane.» ripeté «L’avevo
detto, io» calcò il pronome «che era
una pessima idea tenersi un cane dentro casa. E infatti!» decretò, indicando le
scarpe.
Per un attimo, Tetsuya temette che Nigou avesse avuto la pessima idea di
mordicchiarle e ridurle in uno stato pietoso; tuttavia, ad un’occhiata più
attenta, notò che sembravano in perfetto stato. Confuso, adocchiò il cane,
tornando poi per l’ennesima volta sul padrone delle calzature in questione: «Le
ha morse?» domandò comunque per precauzione.
Fu Aomine, tuttavia, a dargli un’idea più chiara quando – avvicinatosi – fece
una faccia schifata portando la mano a sventolarsi davanti al naso: «Che puzza!»
sbottò, e Kuroko avrebbe voluto dire che così la situazione non sarebbe migliorata… ma non fece in tempo. Quell’esclamazione sembrò
dare a Kagami nuova energia per partire con un’invettiva, anche se diversa da
quella che – compreso ormai il problema – aveva immaginato.
«Guarda che le tue non profumano di muschio, bastardo.» sbottò prendendola sul
personale.
«Ma non puzzano di formaggio andato a male, coglione!» si sentì in dovere di
ribattere Aomine – sia mai che uno dei due capisse che l’altro provocava, e che
non avrebbe ottenuto nulla di diverso da altre provocazioni, rispondendo.
Kuroko sospirò.
Diede una veloce occhiata a Nigou, che apparentemente sonnecchiava ancora o
fingeva di farlo, piegandosi quindi sulle ginocchia per poter analizzare le
scarpe di Kagami; non gli ci volle un’inspirata a pieni polmoni per avvertire
qualcosa che con un normale puzzo di piedi non aveva nulla a che fare, a
dispetto delle parole di Aomine.
Proprio mentre arrivava alle sue orecchie uno scambio ai limiti dell’assurdo – «Pensa
a lavarti i piedi, Bakagami,
che qua dentro non ci vivi da solo!» a cui rispose un «Non serve che me lo
ricordi, Ahomine,
maledico Buddha agli orari dei pasti per averti tra le palle!» – Kuroko capì
che c’era bisogno di prendere in mano la situazione. Se si fosse trattato di
fare l’uomo del caso, come in una rissa o in cose prettamente più fisiche e
fuori dalla sua “influenza”, sicuramente avrebbe lasciato fare ad uno dei due o
li avrebbe lasciati scannare approfittandone per far fare a Nigou una
passeggiata. Tuttavia, se si parlava di prendere le redini in momenti come
quelli e provare a ragionare in maniera più articolata di due bambini di cinque
anni, Kuroko sapeva di non poter contare su nessun altro in quella casa.
«Taiga-kun, non è carino.» tentò, ricevendo in risposta uno schioccare della
lingua – un fare stizzito che in Kagami era meccanico – accompagnato da un: «Se
avessi voluto essere carino non gli avrei dato del bastardo. E comunque pensa
al tuo cane che mi piscia sulle
scarpe!» sbottò, dando finalmente sfogo senza remore al motivo di tutta quella
confusione.
Kuroko sospirò piano, scuotendo appena la testa, gesto che parve attirare
l’attenzione di Kagami e per riflesso – data la mancanza di un compagno di
litigio giornaliero – di Aomine.
Taiga osservò l’altro avvicinarsi a Nigou, chinarsi appena e facendogli qualche
carezza sulla testa facendo sì che il cucciolo aprisse gli occhi posandoli sul
padroncino, scodinzolando.
«Nigou» lo chiamò con tono affranto – per gli standard di Kuroko, ma quando voleva che sembrasse tale ci riusciva
perfettamente, e Kagami ne sapeva qualcosa – osservandolo: «non fare pipì sulle
scarpe di Taiga-kun. Poi si arrabbia con me, vedi?» se ne uscì, come se ormai
in quella casa fosse considerato assolutamente normale non tanto parlare con il
cane o aspettarsi una risposta, quanto prendere la bestiola come unico
meritevole confidente delle proprie problematiche.
Kagami sussultò appena, mentre il familiare senso di colpa lo attanagliava: era
stato troppo brusco senza accorgersene?
Ma il cane, la pipì, le scarpe…!
«…Ohi. Mica te la sarai presa?» domandò incerto, il
tono burbero, lo sguardo su Kuroko che – interiormente – cantava vittoria con
discrezione.
«Vabbé ma allora sei deficiente!» sbottò Aomine, che
a quanto pareva era immune allo sguardo da cucciolo bastonato (in combo) di
Tetsuya e Nigou.
E mentre Kagami tornava a sbraitare contro Daiki, Tetsuya sospirò, tornando a
rivolgersi al cane: «Facciamo una passeggiata, Nigou, ti va?» propose,
alzandosi per recuperare il guinzaglio.
Aveva tentato e fallito, e non c’era altro che potesse fare lì, a parte salvare
la bestiola e tornare per raccogliere i cocci: sperava solo che, nel lancio di
stoviglie, risparmiassero la sua tazza del caffelatte.
Ci era particolarmente affezionato.
Nonostante loro quattro, fino al momento di quella casuale e rocambolesca
convivenza forzata avessero avuto esperienze e ritmi di vita molto diversi, una
cosa era sempre stata uguale per tutti, essendo coetanei e quindi studenti: il
sabato.
Il sabato era una giornata sacra, che ognuno impiegava come preferiva e con le
attività che gli erano più congeniali: certo, probabilmente tutti erano stati
abituati agli allenamenti in solitario la mattina, ma ad eccezione di quelli,
sicuramente avevano passato giornate diverse. Ti figuravi tanto un Kagami a
sbafarsi panini di fast food tanto quanto immaginavi
con facilità un Kise occupato con il suo lavoro di modello.
Kagami non aveva certo smaniato all’idea di essere, dei quattro, quello
considerato un po’ la donna di casa, ma era pur vero che essendo l’unico ad
aver già vissuto da solo per qualche tempo, era quello meno letale nelle
faccende domestiche più delicate – quali il bucato e preparare il cibo, salvo
che volessero morire tutti avvelenati o andare in giro con pantaloni bucati dal
ferro da stiro.
Alla fine, perciò, nel dividersi i compiti avevano deciso di comune accordo che
le stanze erano di competenza dei rispettivi occupanti, che le sale in comune
sarebbero state divise tra Kise e Aomine, mentre Kuroko si sarebbe occupato del
cane oltre che di dare una mano qua e là; Kagami, appunto, avrebbe provveduto
al cibo e ai panni.
Taiga era un uomo di parola, ma nessuno gli aveva detto che occuparsi di quelle
due mansioni avrebbe comportato un’angoscia del genere nel mezzo del sabato
mattina, quando lui voleva dormire, o avere del fottuto tempo intimo con il suo
ragazzo o almeno non dover correre dietro
ai suoi coinquilini.
«Kagamicchi—» arrivò il richiamo lamentoso di Kise,
ma stavolta non era per la disperazione di dover svegliare il compare (peraltro
miracolosamente in piedi a sua volta), la cui espressione trasudava la stessa
cordialità che avrebbe potuto avere un orso bruno appena sedutosi su un
porcospino.
No, stavolta il problema era qualcosa con cui Kagami sperava di non dover mai
avere a che fare.
«Non le trovo, da nessuna parte, e sei l’unico che si occupa del bucato!»
insistette per quella che doveva essere la decima volta – ma i nervi di Taiga
avevano smesso di contare dopo la terza.
Il suo fragile equilibrio mentale, infine, cedette.
«Sono le tue cazzo di mutande, Kise, perché dovrei sapere io dove le hai messe?!» sbraitò; domanda
sensata, una volta tanto.
Ma, naturalmente, non bastava così poco a far desistere il biondo, né a
convincerlo della sensatezza di quell’osservazione: «Perché sei tu che lavi la
roba!» rimbeccò come se fosse una cosa così scontata da non meritare nemmeno di
essere spiegata. Kagami inspirò, cercando di calmarsi e resistere alla
tentazione di lanciargli qualcosa, la prima che gli fosse capitata sotto mano e
che nello specifico era la brocca dell’acqua.
«Ma guarda in mezzo alle altre mutande!»
«Ci ho già guardato.» calcò, come a
dire che si sentiva offeso per il solo fatto che lo ritenesse così scemo da non
averci già pensato da solo: «E mettine un altro paio!» obiettò.
«Ohi.» lo richiamò Aomine che sembrava quello più seccato di tutte «Odio dirlo
ma Bakagami ha ragione. Cazzo ti cambia che mutande
indossi?» sbottò con la solita delicatezza, quel tatto che avrebbe commosso i
cuori più puri – sempre che per disperazione i loro padroni non si suicidassero
prima.
«Aominecchi.» lo richiamò Ryouta, spostando lo sguardo su di lui con cipiglio
severo: da quando erano una coppia (Kagami ancora aveva i brividi a pensarci,
non ce la poteva fare, non importava quante volte Kuroko gli raccontasse che
Kise era il fanboy
numero uno di Aomine dalle medie, gli provocava la pelle d’oca comunque),
raramente sentiva il biondo chiamare a quel modo l’altro. Più precisamente,
quando persino per il suo carattere incline a non offendersi l’altro esagerava
in qualche modo, facendolo irritare o esasperandolo, come le mattine in cui non
si svegliava nemmeno a pagarlo.
«Ti ricordo che è anche colpa tua!» fece presente.
Kise si pentì di quelle parole nello stesso momento in cui le pronunciò:
sebbene fosse abbastanza certo che Kuroko non avrebbe inteso nulla di male
dalle sue parole, e che Kagamicchi forse non ci
avrebbe pensato per scelta, seppe
nell’immediato che non sarebbe stato risparmiato da Aomine.
Il sorrisetto infame che gli incurvò le labbra glielo confermò: «Non ti
lamentavi, ieri.» insinuò, con quell’espressione – Ryouta si era detto che
doveva essere un talento innato, perché non si spiegava altrimenti – che
riusciva a suggerirti che sì, stava insinuando di proposito e sì, aveva tutte
le intenzioni di farsi sentire e ancora sì, l’intento finale era sputtanarti
più possibile.
Per il proprio divertimento personale, naturalmente.
E non che il biondo non vi fosse abituato – non potevi essere il compagno di
Aomine Daiki e non scendere a patti con quel suo modo di fare, perché
altrimenti non duravi granché – ma ci ricascava tutte le volte nello stesso
modo.
Ritrovandosi puntualmente ad essere zittito da quelle stesse insinuazioni, o
(peggio) ad avere reazioni che stuzzicavano ancora di più l’infamia dell’altro,
per non parlare della sua spiccata fantasia in certi contesti. Ogni tanto aveva
persino il dubbio che, tra le altre cose, facesse quelle battute per le
reazioni di Kagami: persino il biondo aveva qualche difficoltà a capire come
fosse possibile stare con un uomo, e avere certe reazioni a sentir parlare di
una relazione tra uomini.
«Aominecchi!» rimbrottò, cercando di
stroncarlo sul nascere, mentre Kagami già sembrava aver colto qualcosa a
giudicare dall’espressione che si avvicinava pericolosamente ad un “no, non di
nuovo”.
«Intendevo quando ho dovuto mettere a posto la tua roba e hai fatto un casino
di tutto quello che c’era sul letto!» chiarì, anche se sembrava più uno
specificare rivolto a Kagami che non al diretto interessato che, naturalmente,
era intenzionato a fare orecchie da mercante come sempre.
«Ah.» disse con espressione annoiata e Kise ne rimase perplesso: Aomine che
finalmente capiva che doveva dare tregua a Kagamicchi
se non voleva farsi dare una padellata in testa? Era stato mosso a pietà? O
magari – sarebbe stata la cosa migliore, davvero – ormai anche le reazioni dell’altro
lo annoiavano?
Certo, avrebbe preferito che fosse tediato anche delle sue – di Kise stesso –
per assicurarsi di poter parlare liberamente senza dover prima vagliare quanti
doppi sensi la mente malata della sua dolce
metà avrebbe potuto scorgervi, ma non si poteva avere tutto dalla vita.
«Pensavo ti riferissi a quando io ho lanciato altrove le tue mutande.»
continuò, facendo aggrottare le sopracciglia a Kise…
che poi comprese.
Troppo tardi.
Aomine incurvò le labbra in un sorrisetto che dire divertito e provocatorio
avrebbe distorto la realtà, e di molto: «Ma mi erano d’impiccio.» insinuò in
maniera a dir poco palese e maliziosa.
Mentre Kagami imprecava in modi che nessuno avrebbe avuto il coraggio di
ripetere anche solo per raccontare di quel tragico sabato mattina, Kise Ryouta
capiva che le opzioni appetibili erano molte – buttarsi dalla finestra,
soffocarsi con il cuscino o tentare di affogarsi nel box doccia (giusto perché
nel water ci avrebbe affogato Aomine) – ma nonostante tutto magari avrebbe
cercato le sue benedette mutande, e poi le avrebbe usate per strangolare Daiki.
Così, giusto perché oltre al danno ci fosse anche la beffa.
Ammetteva con se stesso che, effettivamente, forse a volte – ma solo ogni tanto,
eh – esagerava, e poteva effettivamente
risultare pesante.
Però quella vendetta era una carognata, e Bakagami l’avrebbe
pagata con gli interessi; e, per inciso, doveva già ringraziare i suoi antenati
che la punizione non fosse fargli fare il passivo. Giusto perché non era
incline al tradimento – sebbene la scusa ufficiale fosse che non aveva voglia
di sentire Kise lagnarsi per il torto subito. E, insomma, non è che se lo immaginava
molto Kagami passivo, e se ci provava finiva a spararsi nella testa un Tetsu sadico e no
grazie, ok?!
«Che palle.» sbottò, grattandosi la testa con aria scazzata e spostando lo
sguardo dal foglietto che teneva in una mano a ciò che lo circondava. Effettuò
questo vai e vieni un paio di volte: porri.
Che cazzo ci doveva cucinare quell’imbecille con i porri?!
E perché lui a fare la spesa, maledizione?!
«Tch.» sbottò seccato, imboccando un corridoio a caso e cercando altro prima di
andare ad angosciarsi l’esistenza al reparto delle verdure o quello che era.
Aveva accettato giusto perché quei due (Bakagami e Tetsu) erano fuori per quello che era chiaramente un
appuntamento e che il primo aveva liquidato con un invito poco cortese a farsi
i fatti suoi, mentre Kise era ad una stupida sessione di foto da modello.
Anche se, in effetti, fare la spesa insieme
al biondo sarebbe stato anche peggio: quasi se lo immaginava, a tirargli la
manica quando vedeva qualcosa che lo interess—
Un momento. Qualcosa gli stava davvero
tirando la manica; abbassò lo sguardo, ritrovandosi a fissare un moccioso
sconosciuto attaccato a lui per motivi ignoti. Alzò un sopracciglio, senza
naturalmente degnarsi di fare un’espressione meno inquietante – o meglio, era
il solito scazzo insito nella sua persona, ma questo un bambino di sì e no
sette anni non era in grado di distinguerlo.
«…Ohi.» gli si rivolse «Staccati un po’.» disse, il
tono piatto e annoiato, guardandosi svogliatamente intorno alla ricerca di un
genitore che venisse a reclamare il pargolo. Pessima mossa: per tutta risposta
quello incurvò le labbra all’ingiù, esibendosi in un broncio che preannunciava
pianto, il quale non tardò ad arrivare.
«Merda.» sbottò a denti stretti, piegandosi sulle ginocchia in un tentativo di
rimediare alla situazione: ci mancava solo che qualcuno lo prendesse per uno
che maltrattava un ragazzino, per completare quel pomeriggio!
«Ohi» richiamò nuovamente l’attenzione del piccoletto «niente pianti.» e un
giorno qualcuno si sarebbe preso la briga di spiegargli che un cane e un
bambino erano due cose diverse, così come lo erano ordinare al primo di non
fare pipì sui mobili e al secondo di smettere di piangere.
«Tua madre?» aggiunse, nel tentativo di impegnarlo in qualche modo così che
almeno smettesse di disperarsi come se non ci fosse un domani.
La cosa sembrò aiutare un poco, o almeno distogliere l’attenzione del ragazzino
dalla sacra arte del far saltare i nervi agli adulti piangendo e strepitando;
Aomine lo vide tirare su con il naso – con un certo sollievo, in effetti,
perché era Kise quello bravo con i bambini, o Tetsu
al massimo, di certo non lui comunque – e indicare verso la fine del corridoio
in cui erano.
Che la madre se lo fosse perso per strada?
«Oniichan(1)» si sentì chiamare e alzò lo
sguardo al cielo per tenersi per sé la prima parola (poco signorile) che gli
era balenata in testa «mi scappa pipì.» se ne uscì candidamente il piccoletto.
Ci mancava.
«…Fermo. Niente pipì nei supermercati.» chiarì
immediatamente, una nota incrinata nella voce: Aomine Daiki non andava nel
panico con nulla, ma un moccioso che se la fa addosso avrebbe minato alle
sicurezze di chiunque.
«Oh cielo, mi scusi!» sentì esclamare, facendo rientrare nel suo campo visivo
una donna e – parola sua – non era mai stato così felice di vederne una. Lei
recuperò in un attimo il piccolo, che aveva già chiarito la sua identità ad
Aomine rivolgendole l’appellativo di “kaachan”, scusandosi
più volte per il disturbo di suo figlio e altre parti che Daiki sentì solo
parzialmente, troppo sollevato all’idea di aver rimediato al dramma pipì senza
doversi effettivamente nemmeno impegnare per salvare la situazione.
Fu ben contento di concedere al moccioso un cenno in risposta al suo agitare la
manina verso di lui – con la differenza che il cenno di Aomine era più un “a
mai più rivederci”, ma dettagli – quando lo vide allontanarsi con la madre.
Di nuovo nel pieno della tranquillità, tornò a fare mente locale su cosa stesse
pensando di fare prima della brusca interruzione; riprese a muoversi
pigramente, il cesto con le cose già prese in una mano e il foglietto nell’altra.
Trovare le poche altre cose che mancavano dalla lista fu relativamente semplice
e veloce, con sua somma soddisfazione, visto che – cosa che avrebbe ricordato a
Bakagami una volta a casa – non era una cazzo di casalinga, lui.
Già quando sua madre lo mandava a fare commissioni gli giravano discretamente
ad elica, farlo pure ora che si era liberato della costrizione della vecchia –
da qui una discreta intuizione del suo amore filiale – non rientrava nei suoi
piani. Specie perché, normalmente, non se ne occupava lui, da accordi sulla
divisione dei lavori in casa.
Si mosse, infine, verso il reparto dei benedetti porri: mai errore fu più
grave.
Aveva recuperato quegli affari, dirigendosi a pesarli per potersene finalmente
andare in fila, quando una mano gli si posò sul braccio: «Giovanotto?» si sentì
chiamare da una voce estranea per la seconda volta nell’arco di dieci minuti.
Si voltò, inquadrando stavolta la figura di una signora a cui, in tutta
franchezza, non dava meno di ottant’anni.
Inarcò un sopracciglio con fare interrogativo, e quella parve prenderlo per un “sì,
mi dica”: «Saprebbe per caso leggermi questa etichetta?» disse porgendogli un
barattolo di quelli che sembravano sottaceti «Sa, alla mia età non si vede più
come una volta…» aggiunse con tono divertito. Aomine,
chiedendosi se quella non fosse una giornata storta, prese il barattolo e lo
occhieggiò; per essere piccole, le scritte lo erano eccome.
«…Che le serve sapere?» domandò.
«Sa dirmi la data di scadenza?» chiese, al che Aomine la individuò senza troppa
difficoltà, riportandogliela a voce; lei annuì, e lui stava per ridarle il barattolo,
quando quella aggiunse un: «Posso approfittare della sua gentilezza per
chiederle un altro favore, giovanotto?»
Aomine avrebbe dovuto capire, o almeno ricordare, fare tesoro delle esperienze:
invece non lo fece.
Esitò.
E quel tentennare fu la sua rovina.
«Mi aiuterebbe a portare la spesa alla cassa?» domandò la vecchietta,
porgendogli il cestello che aveva portato fino a quel momento con entrambe le
mani. Aomine era stronzo, ma non era una carogna. Senza contare che non voleva
sapere che sarebbe successo se avesse rifiutato in pubblico di aiutare un’anziana.
Il problema non fu portarle la spesa.
Fu quella specie di controindicazione che avevano tutte le persone anziane, e
che poteva essere un tratto carino se eri una ragazza o se eri anche un
maschio, ma con un po’ più di entusiasmo durante la spesa, cosa di cui Aomine
non era affatto provvisto in quel momento.
«E quindi sa» riprese
mentre – finalmente – stava per
arrivare il loro turno: «mio nipote più o meno ha la sua età. E suo figlio» e
Aomine si chiese quanti diamine di anni gli desse, se si parlava di padri di famiglia «è una vera peste. Ho
detto a mio marito di accompagnarmi, ma con la vecchiaia si è fatto cattivo.
Voi uomini diventate così, non c’è molto da fare.» spiegò dall’alto della sua
esperienza.
Aomine era estremamente combattuto: avrebbe voluto dire alla signora che era un
diamine di adolescente, che figli non ne avrebbe avuti, che francamente non
credeva proprio che “l’altra metà della sua anima” – bleah – si sarebbe lamentata del suo incattivirsi visto che era un uomo e che ci era abituato dalla
tenera età delle scuole medie e che non gliene fregava minimamente della dote di
una ragazza per bene, visto che tanto si sbatteva un ragazzo, cristo santo.
Però il pensiero che alla nonnetta venisse un infarto lo aveva fatto desistere:
ci mancava di doverla avere sulla coscienza, veramente.
«Lei ha già trovato una brava ragazza?» chiese la signora mentre la persona
davanti a loro, ringraziando chiunque di dovere, pagava.
Aomine incurvò le labbra in un sorriso enigmatico: la signora voleva la storia
carina e tutta da romanzo rosa? Va bene. Tutto,
purché se la togliesse dall’anima, lei e quella stramaledetta spesa!
«Come no.» fece «Ci conosciamo dalle scuole medie, era mia fan perché – sa –
gioco a basket. Ora viviamo con altri amici,
una coppia, stiamo provando a convivere. Non è lei che si occupa della cucina o
del bucato, fa poche volte la spesa perché fa un lavoro impegnato, si lamenta
che non la tratto con gentilezza ma tanto so che le sta bene così.»
«Ragazzo mio, è terribile! Un uomo che, così giovane, fa la spesa al posto
della fidanzata merita di meglio. Non ci sono più le giovani donne bene educate
di una volta!» diede sfogo all’invettiva.
«Eh, già.» dissimulò.
Se non altro immaginarsi Kise mogliettina era stato abbastanza divertente da
ingannare gli ultimi, tedianti istanti prima che la cassiera prendesse la spesa
della signora, lasciandolo libero.
Poté quindi pagare – dopo che la vecchietta se ne fu andata per la sua strada senza
chiedergli altri favori, per fortuna – e recuperare la sua spesa per andarsene
finalmente a casa, uscendo dal supermercato… che
delle figure fin troppo famigliari gli balzarono all’occhio non appena fu
fuori.
Kagami era poggiato ad un palo della luce e sembrava persino incapace di
respirare mentre rideva; Kuroko, al suo fianco, cercava di non ridere ma –
persino per la sua mono espressività – era chiaro che si trattava di una vera e
propria impresa.
Poco distante, Kise cercava di dissimulare senza successo.
«…Eravate qui. Fuor—no. Eravate dentro tutto il tempo.» si
corresse sibilando e guardandoli male.
Il biondo tentò invano: «No, Daiki, noi—Povero
Daichan, maltrattato da una ragazza che non lo
merita.» se ne uscì alla fine, senza potersi trattenere, evidentemente
soddisfatto (come gli altri due) della sua vendetta appena consumatasi.
Era talmente preso da quella che non si era minimamente offeso per essere stato
spacciato da mogliettina, praticamente.
«…Questa è un’idea tua, Bakagami.»
sbottò «Sai dove te lo metto, il porro?!»
sbraitò, facendo per lanciare verso il diretto interessato l’intero sacchetto
della spesa.
«Aomine-kun, le persone ci guardano.» cercò di recuperare la situazione Kuroko,
ma questa volta capiva lui per primo che non era davvero possibile.
«Tu.» si voltò fissando Kise in
tralice «A casa me la paghi. Con gli
interessi.» sibilò, l’espressione poco rassicurante.
«La piantate di ridere, cerebrolesi?!» sbottò di nuovo all’indirizzo di tutti e
tre.
E se Aomine Daiki ti dava del cerebroleso, dovevi preoccuparti…
appena smettevi di morire contro un palo ridendo alle sue spalle, magari.
1. Oniichan: in Giappone non è raro che i bambini si rivolgano così ai ragazzi
più grandi, anche sconosciuti.