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Autore: Shichan    29/07/2012    11 recensioni
Poi, Kagami aveva avuto la sventurata occasione di vedere Aomine Daiki in fase di risveglio, e aveva messo in chiaro che lui poteva pure fare la colazione per un esercito, ma non avrebbe mai più avuto a che fare con quello lì di mattina – e possibilmente per il resto della giornata, ma convivendo era difficile.
Convivendo. Se ci pensava gli venivano i brividi.
[KagaKuro e AoKise][linguaggio colorito]
Genere: Comico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Disclaimer: i personaggi appartengono a Fujimaki Tadatoshi.
La demenza senile è la mia (L)
Note utili: essendo una specie what if…? (salvo che il sensei ci delizi con una cosa del genere anche nel manga e, per carità, ben venga) non ha riferimenti al manga. Presenza di un linguaggio colorito (e come poteva non essere, con Kagami e Aomine di mezzo, dico io?) ;D
Credo sia intuitivo, ma lo segnalo per sicurezza: sono quattro pov alternati, uno per personaggio ad ogni scena.
Note random: alla fine è uscita totalmente diversa da come l’avevo pensata, ma ormai non mi stupisco nemmeno più *non sa se ridere o piangere* Ho anche avuto la tentazione di cancellare completamente la parte di Aomine, ma tanto quell’uomo mi fa penare sempre, perciò ho abbandonato la cosa a se stessa (?!).
Dedica: Oneshot per il compleanno di OhBirds. La dedica per intero magari te la farò altrove (forse), ma tanto per ribadire che ti auguro un buon compleanno e che questa pazzia è per te <3

 

 

Parola sua che ne aveva viste tante, nella sua vita – già solo avere a che fare con la Generazione dei Miracoli ti forniva un bagaglio di esperienze che la gente normale si sognava – al punto che niente avrebbe potuto più stupirlo.
Dopotutto come avrebbe potuto, dopo aver incontrato gente che pensava di poter essere sconfitta solo dal proprio riflesso allo specchio, o che giocava al tiro al bersaglio con le forbici, o che aveva donato l'anima al diavolo per salvarsi dal dentista – non puoi mangiare solo dolci e non averli cariati! – o che, ancora, era alla stregua di un cazzo di copia-ninja dei videogame, per non parlare dei feticisti degli oroscopi? Dopo essere stato cresciuto da una specie di serial killer-baci-maniaca compulsiva?
Non poteva.
Eppure, nonostante traumi che gli avrebbero fatto guadagnare il pass per una casa di cura psichiatrica se non fosse stato – in fondo in fondo – un po' tocco anche lui, non se ne capacitava.
Cos'era, stava sul cazzo al karma?
Perché la prospettiva di una convivenza con Aomine Daiki e Kise Ryouta, intesi come coppia amorosa, era più di quanto il suo animo potesse sopportare.
Meglio la pipì di numero 2 sulla gamba, cristo santo!


Tre giorni.
Erano passati tre maledetti, fottutissimi giorni e già quella scena minacciava di diventare un’inquietante, triste routine.
Già il fatto stesso che tu, sana matricola universitaria, decidessi di andare a vivere con il tuo compagno – fidanzato, Taiga, non è una parola difficile, sai? – rappresentava un passo importante, considerata la giovane età e che sei un pezzo di ragazzo di centonovanta centimetri tutti gay. O almeno, gay abbastanza da considerare una relazione con il tuo ragazzo qualcosa che nessun paio di tett—seni potrebbe farti rimpiangere, non importa la misura.
A queste difficoltà dovevano aggiungersi un’altra coppia con cui convivere e un cane.
Un cane.
Bestiola che, tutto sommato, era da considerare il problema minore; il che, se usciva dalla bocca di Kagami Taiga, era tutto dire.
Lui amava cucinare e, modestia a parte, gli riusciva piuttosto bene. Era, per lui, un hobby rilassante e un piacere, dunque non considerava particolarmente fastidioso preparare la colazione per sé e per Kuroko. Tutt’altra questione era ritrovarsi a cucinare per quattro, nemmeno avessero avuto – lui e Tetsuya – due figli.
Due figli molto scemi.
«Kurokocchi—!» ed eccola, la voce lamentosa del primo idiota, infantile dei suoi indesiderati coinquilini: Kise Ryouta, nel pieno della sua vitalità mattutina che – se vivevi nel trauma da risveglio – ti faceva venire voglia di annegarlo nel tuo water.
Che poi, bisognava essere sinceri: se avesse ignorato la sua fissa con quegli stupidi nomignoli, i suoi momenti (piuttosto frequenti) di ritorno all’infanzia perduta – roba da far impallidire Peter Pan –, il suo apparentemente inguaribile entusiasmo che no, non volevi sopportare quando avevi delle sane palle girate… ecco, a parte questo, non era malaccio. Forse.
Rispetto all’altro, almeno.
«Kurokocchi, non riesco a svegliare Aominecchi, dammi una mano.» si lamentò Kise, pimpante e in piedi da quasi un’ora ormai, ossia da poco meno rispetto allo stesso Kagami. Questi sbuffò seccato, rischiando di mandare in malora il pesce grigliato che stava preparando. Altra cosa che avrebbe gradito sapere era perché, a diciannove anni o quanti erano, quello lì avesse più difficoltà a svegliarsi di un bambino di sei.
Kuroko, che in quel momento stava tirando fuori dal frigo il latte per Nigou, rimase con la mano ferma a mezz’aria nel vedere il biondo apparire sulla soglia della cucina; richiuse il frigorifero – il che decretò la brusca e delusa interruzione dello scodinzolare del cucciolo – intenzionato a muoversi verso la stanza dei due.
La prima volta che questa scena si era verificata, ossia la prima mattina in cui si erano svegliati nella nuova casa, era stato lecito domandarsi perché Kuroko assecondasse così facilmente Kise.
Poi, Kagami aveva avuto la sventurata occasione di vedere Aomine Daiki in fase di risveglio, e aveva messo in chiaro che lui poteva pure fare la colazione per un esercito, ma non avrebbe mai più avuto a che fare con quello lì di mattina – e possibilmente per il resto della giornata, ma convivendo era difficile.
Convivendo. Se ci pensava gli venivano i brividi.
Kuroko stava per varcare la soglia della cucina, diretto al salvataggio di un inizio mattinata decente, quando un: «…Buongiorno Aomine-kun.» fece intuire a Kagami che, forse, quella mattina sarebbe stata diversa.
«…mnfghf
O forse no.
«Aomine-kun, sei pesante.» commentò piatto Kuroko e, voltandosi, Kagami notò che Aomine sembrava essere appena svenuto su Tetsuya. Taiga incurvò le labbra in sogghigno di quelli che ti facevano capire quanto l’istinto omicida potesse concentrarsi in una sola espressione.
«Scollaglielo di dosso.» intimò a Kise.
«Taiga-kun.» lo chiamò Kuroko, come a dire che non ce n’era bisogno.
«Ohi, Aominecchi.» lo chiamò Kise, fiutando qualcosa – se aveva capito un po’ l’atteggiamento di Kagami nei confronti di Kuroko, era meglio prendere il moro di peso piuttosto che aspettare che riprendesse coscienza.
Il bell’addormentato, ancora praticamente svenuto su Tetsuya, si degnò appena di alzare lo sguardo sul biondo, con l’espressione di uno appena uscito dall’oltretomba. Kise abbozzò un sorriso, ma non sembrava granché convinto di ciò che faceva; Kuroko invece pareva più che altro speranzoso di togliersi – letteralmente – un peso dalle spalle.
«…Ohi, Ryouta.» bofonchiò Daiki in un accenno di linguaggio umano, sebbene fosse ancora arrochita dal sonno. Si spostò, almeno in parte, smettendo di pesare totalmente su Kuroko e circondando con familiarità le spalle del biondo con un braccio, in un gesto complice.
Non fu chiaro quale collegamento ci fosse, nella testa di Aomine, fra il mollare Kuroko e il baciare il biondo, se fosse un rito mattutino di cui erano all’oscuro o semplicemente fosse ancora troppo rincoglionito per fare qualcosa che avesse un senso; l’unica cosa evidente fu che non ragionava con la testa, la mattina, ma con qualcosa più in basso che era, sicuramente, fin troppo sveglio e che Kagami ne aveva piene le pall—le scatole.
«Andate a tubare lontano dalla mia cucina e non di mattina, conigli!» sbraitò – e quando parlava di conigli, non si riferiva certamente alla codardia, ma a ben altre rinomate caratteristiche riproduttive.
«Ma Taiga-kun, i conigli non tubano.»
«Non stavi dando da mangiare a quello lì, tu?!» sbottò, non avendo nessuna intenzione di ascoltare l’esatta spiegazione dei versi degli animali.
L’aveva detto lui: mai più Aomine Daiki di prima mattina.


A sconvolgere quella convivenza a dir poco grottesca, però, non c’era solo il coma mattutino – versione porno – di Aomine. Purtroppo, avrebbe aggiunto qualcuno.
Non era altrettanto frequente, dal momento che quello di Daiki era un problema per così dire “giornaliero”: certo, avrebbero potuto trovare un rimedio, ma come saggiamente persone più assennate di loro avevano fatto notare, trovare un rimedio avrebbe significato cercare la causa. Individuarla, implicava indagare su cosa potesse renderlo così assonnato, e fare quest’ultima cosa avrebbe potuto portare ad una sola possibile conseguenza: scoprire cosa faceva Aomine fino a tardi.
Le possibilità che erano venute in mente per prime erano state due: nel momento in cui, poi, si erano resi conto – lui e Kagami – che con ogni probabilità entrambe implicavano un certo grado di intimità e momenti o atteggiamenti in cui decisamente non volevano cogliere in flagrante l’altro, si era cautamente scelto di lasciarlo al suo destino.
Kise-kun avrebbe risolto in qualche modo, aveva assicurato – un modo cortese e pacato di lavarsene le mani: qualcuno doveva pur essere sacrificato per il bene superiore della collettività.
Quando questo pensiero era stato formulato, tuttavia, Kuroko non aveva mai preso in considerazione l’eventualità di avere a sua volta la propria “gatta da pelare”; anche se la sua non era un gatto, in effetti, ma un cane.
«TETSUYA.» sentì sbraitare dal soggiorno e qualcosa gli disse che l’aver scampato il coma mattutino di Aomine, quella mattina, avrebbero dovuto metterlo in allarme riguardo il pomeriggio; si era stupidamente rilassato abbassando la guardia, un errore imperdonabile.
Si mosse, spostandosi dalla cucina dov’era e raggiungendo l’altro in salotto, dove lo trovò vicino alla finestra: questa dava su un piccolo balcone, non così ampio da poterli ospitare per guardare il panorama, ma abbastanza perché ci potessero appendere il bucato. Kagami tuttavia non era preso da un momento da Cenerentola o affini, ma aveva un’espressione a dir poco irritata, le mastodontiche scarpe da basket ai suoi piedi buttate a terra alla meno peggio. Poco distante da lui, stava Nigou.
«Cosa succede?» chiese pacato, senza la minima preoccupazione che la faccia scazzata di Kagami avrebbe forse dovuto smuovere almeno vagamente; il più grande lo fissò, indicando le scarpe: «Il. Tuo. Cane.» sillabò, marcando la parola “tuo” in maniera piuttosto palese.
Kuroko a quel punto spostò lo sguardo dal compagno alla bestiola che, poco distante appunto, sembrava tutta presa a sonnecchiare: «E tu non fingere di dormire!» sbottò l’altro, quasi a seguire lo sguardo di Tetsuya – umano – e rimarcare il tentativo del cane di fare il finto tonto. Kuroko non volle fargli notare, in quel momento, quanto poco sensato fosse o potesse apparire il rimproverare un cane perché fingeva di dormire.
Non che dubitasse della grande intelligenza di Nigou, ma insomma…
«Ohi, cazzo ti urli?» si affacciò Aomine dalla sua stanza, e Kuroko capì – data l’assenza di Kise in casa, in quel momento – che uno dei pochi modi di salvare il resto della sua tranquilla giornata era far sì che Kagami continuasse ad accapigliarsi solo con il cane, e non anche con Aomine stesso.
«Tornatene a farti se—»
«Taiga-kun.» lo richiamò Kuroko per iniziare a salvare il salvabile: «Cos’è successo?» ripeté cambiando di poco la domanda di prima. Tanto parve bastare a ripristinare l’attenzione dell’altro su di sé: «Il tuo cane.» ripeté «L’avevo detto, io» calcò il pronome «che era una pessima idea tenersi un cane dentro casa. E infatti!» decretò, indicando le scarpe.
Per un attimo, Tetsuya temette che Nigou avesse avuto la pessima idea di mordicchiarle e ridurle in uno stato pietoso; tuttavia, ad un’occhiata più attenta, notò che sembravano in perfetto stato. Confuso, adocchiò il cane, tornando poi per l’ennesima volta sul padrone delle calzature in questione: «Le ha morse?» domandò comunque per precauzione.
Fu Aomine, tuttavia, a dargli un’idea più chiara quando – avvicinatosi – fece una faccia schifata portando la mano a sventolarsi davanti al naso: «Che puzza!» sbottò, e Kuroko avrebbe voluto dire che così la situazione non sarebbe migliorata… ma non fece in tempo. Quell’esclamazione sembrò dare a Kagami nuova energia per partire con un’invettiva, anche se diversa da quella che – compreso ormai il problema – aveva immaginato.
«Guarda che le tue non profumano di muschio, bastardo.» sbottò prendendola sul personale.
«Ma non puzzano di formaggio andato a male, coglione!» si sentì in dovere di ribattere Aomine – sia mai che uno dei due capisse che l’altro provocava, e che non avrebbe ottenuto nulla di diverso da altre provocazioni, rispondendo. Kuroko sospirò.
Diede una veloce occhiata a Nigou, che apparentemente sonnecchiava ancora o fingeva di farlo, piegandosi quindi sulle ginocchia per poter analizzare le scarpe di Kagami; non gli ci volle un’inspirata a pieni polmoni per avvertire qualcosa che con un normale puzzo di piedi non aveva nulla a che fare, a dispetto delle parole di Aomine.
Proprio mentre arrivava alle sue orecchie uno scambio ai limiti dell’assurdo – «Pensa a lavarti i piedi, Bakagami, che qua dentro non ci vivi da solo!» a cui rispose un «Non serve che me lo ricordi, Ahomine, maledico Buddha agli orari dei pasti per averti tra le palle!» – Kuroko capì che c’era bisogno di prendere in mano la situazione. Se si fosse trattato di fare l’uomo del caso, come in una rissa o in cose prettamente più fisiche e fuori dalla sua “influenza”, sicuramente avrebbe lasciato fare ad uno dei due o li avrebbe lasciati scannare approfittandone per far fare a Nigou una passeggiata. Tuttavia, se si parlava di prendere le redini in momenti come quelli e provare a ragionare in maniera più articolata di due bambini di cinque anni, Kuroko sapeva di non poter contare su nessun altro in quella casa.
«Taiga-kun, non è carino.» tentò, ricevendo in risposta uno schioccare della lingua – un fare stizzito che in Kagami era meccanico – accompagnato da un: «Se avessi voluto essere carino non gli avrei dato del bastardo. E comunque pensa al tuo cane che mi piscia sulle scarpe!» sbottò, dando finalmente sfogo senza remore al motivo di tutta quella confusione.
Kuroko sospirò piano, scuotendo appena la testa, gesto che parve attirare l’attenzione di Kagami e per riflesso – data la mancanza di un compagno di litigio giornaliero – di Aomine.
Taiga osservò l’altro avvicinarsi a Nigou, chinarsi appena e facendogli qualche carezza sulla testa facendo sì che il cucciolo aprisse gli occhi posandoli sul padroncino, scodinzolando.
«Nigou» lo chiamò con tono affranto – per gli standard di Kuroko, ma quando voleva che sembrasse tale ci riusciva perfettamente, e Kagami ne sapeva qualcosa – osservandolo: «non fare pipì sulle scarpe di Taiga-kun. Poi si arrabbia con me, vedi?» se ne uscì, come se ormai in quella casa fosse considerato assolutamente normale non tanto parlare con il cane o aspettarsi una risposta, quanto prendere la bestiola come unico meritevole confidente delle proprie problematiche.
Kagami sussultò appena, mentre il familiare senso di colpa lo attanagliava: era stato troppo brusco senza accorgersene?
Ma il cane, la pipì, le scarpe…!
«…Ohi. Mica te la sarai presa?» domandò incerto, il tono burbero, lo sguardo su Kuroko che – interiormente – cantava vittoria con discrezione.
«Vabbé ma allora sei deficiente!» sbottò Aomine, che a quanto pareva era immune allo sguardo da cucciolo bastonato (in combo) di Tetsuya e Nigou.
E mentre Kagami tornava a sbraitare contro Daiki, Tetsuya sospirò, tornando a rivolgersi al cane: «Facciamo una passeggiata, Nigou, ti va?» propose, alzandosi per recuperare il guinzaglio.
Aveva tentato e fallito, e non c’era altro che potesse fare lì, a parte salvare la bestiola e tornare per raccogliere i cocci: sperava solo che, nel lancio di stoviglie, risparmiassero la sua tazza del caffelatte.
Ci era particolarmente affezionato.


Nonostante loro quattro, fino al momento di quella casuale e rocambolesca convivenza forzata avessero avuto esperienze e ritmi di vita molto diversi, una cosa era sempre stata uguale per tutti, essendo coetanei e quindi studenti: il sabato.
Il sabato era una giornata sacra, che ognuno impiegava come preferiva e con le attività che gli erano più congeniali: certo, probabilmente tutti erano stati abituati agli allenamenti in solitario la mattina, ma ad eccezione di quelli, sicuramente avevano passato giornate diverse. Ti figuravi tanto un Kagami a sbafarsi panini di fast food tanto quanto immaginavi con facilità un Kise occupato con il suo lavoro di modello.
Kagami non aveva certo smaniato all’idea di essere, dei quattro, quello considerato un po’ la donna di casa, ma era pur vero che essendo l’unico ad aver già vissuto da solo per qualche tempo, era quello meno letale nelle faccende domestiche più delicate – quali il bucato e preparare il cibo, salvo che volessero morire tutti avvelenati o andare in giro con pantaloni bucati dal ferro da stiro.
Alla fine, perciò, nel dividersi i compiti avevano deciso di comune accordo che le stanze erano di competenza dei rispettivi occupanti, che le sale in comune sarebbero state divise tra Kise e Aomine, mentre Kuroko si sarebbe occupato del cane oltre che di dare una mano qua e là; Kagami, appunto, avrebbe provveduto al cibo e ai panni.
Taiga era un uomo di parola, ma nessuno gli aveva detto che occuparsi di quelle due mansioni avrebbe comportato un’angoscia del genere nel mezzo del sabato mattina, quando lui voleva dormire, o avere del fottuto tempo intimo con il suo ragazzo o almeno non dover correre dietro ai suoi coinquilini.
«Kagamicchi—» arrivò il richiamo lamentoso di Kise, ma stavolta non era per la disperazione di dover svegliare il compare (peraltro miracolosamente in piedi a sua volta), la cui espressione trasudava la stessa cordialità che avrebbe potuto avere un orso bruno appena sedutosi su un porcospino.
No, stavolta il problema era qualcosa con cui Kagami sperava di non dover mai avere a che fare.
«Non le trovo, da nessuna parte, e sei l’unico che si occupa del bucato!» insistette per quella che doveva essere la decima volta – ma i nervi di Taiga avevano smesso di contare dopo la terza.
Il suo fragile equilibrio mentale, infine, cedette.
«Sono le tue cazzo di mutande, Kise, perché dovrei sapere io dove le hai messe?!» sbraitò; domanda sensata, una volta tanto.
Ma, naturalmente, non bastava così poco a far desistere il biondo, né a convincerlo della sensatezza di quell’osservazione: «Perché sei tu che lavi la roba!» rimbeccò come se fosse una cosa così scontata da non meritare nemmeno di essere spiegata. Kagami inspirò, cercando di calmarsi e resistere alla tentazione di lanciargli qualcosa, la prima che gli fosse capitata sotto mano e che nello specifico era la brocca dell’acqua.
«Ma guarda in mezzo alle altre mutande!»
«Ci ho già guardato.» calcò, come a dire che si sentiva offeso per il solo fatto che lo ritenesse così scemo da non averci già pensato da solo: «E mettine un altro paio!» obiettò.
«Ohi.» lo richiamò Aomine che sembrava quello più seccato di tutte «Odio dirlo ma Bakagami ha ragione. Cazzo ti cambia che mutande indossi?» sbottò con la solita delicatezza, quel tatto che avrebbe commosso i cuori più puri – sempre che per disperazione i loro padroni non si suicidassero prima.
«Aominecchi.» lo richiamò Ryouta, spostando lo sguardo su di lui con cipiglio severo: da quando erano una coppia (Kagami ancora aveva i brividi a pensarci, non ce la poteva fare, non importava quante volte Kuroko gli raccontasse che Kise era il fanboy numero uno di Aomine dalle medie, gli provocava la pelle d’oca comunque), raramente sentiva il biondo chiamare a quel modo l’altro. Più precisamente, quando persino per il suo carattere incline a non offendersi l’altro esagerava in qualche modo, facendolo irritare o esasperandolo, come le mattine in cui non si svegliava nemmeno a pagarlo.
«Ti ricordo che è anche colpa tua!» fece presente.
Kise si pentì di quelle parole nello stesso momento in cui le pronunciò: sebbene fosse abbastanza certo che Kuroko non avrebbe inteso nulla di male dalle sue parole, e che Kagamicchi forse non ci avrebbe pensato per scelta, seppe nell’immediato che non sarebbe stato risparmiato da Aomine.
Il sorrisetto infame che gli incurvò le labbra glielo confermò: «Non ti lamentavi, ieri.» insinuò, con quell’espressione – Ryouta si era detto che doveva essere un talento innato, perché non si spiegava altrimenti – che riusciva a suggerirti che sì, stava insinuando di proposito e sì, aveva tutte le intenzioni di farsi sentire e ancora sì, l’intento finale era sputtanarti più possibile.
Per il proprio divertimento personale, naturalmente.
E non che il biondo non vi fosse abituato – non potevi essere il compagno di Aomine Daiki e non scendere a patti con quel suo modo di fare, perché altrimenti non duravi granché – ma ci ricascava tutte le volte nello stesso modo.
Ritrovandosi puntualmente ad essere zittito da quelle stesse insinuazioni, o (peggio) ad avere reazioni che stuzzicavano ancora di più l’infamia dell’altro, per non parlare della sua spiccata fantasia in certi contesti. Ogni tanto aveva persino il dubbio che, tra le altre cose, facesse quelle battute per le reazioni di Kagami: persino il biondo aveva qualche difficoltà a capire come fosse possibile stare con un uomo, e avere certe reazioni a sentir parlare di una relazione tra uomini.
«Aominecchi!» rimbrottò, cercando di stroncarlo sul nascere, mentre Kagami già sembrava aver colto qualcosa a giudicare dall’espressione che si avvicinava pericolosamente ad un “no, non di nuovo”.
«Intendevo quando ho dovuto mettere a posto la tua roba e hai fatto un casino di tutto quello che c’era sul letto!» chiarì, anche se sembrava più uno specificare rivolto a Kagami che non al diretto interessato che, naturalmente, era intenzionato a fare orecchie da mercante come sempre.
«Ah.» disse con espressione annoiata e Kise ne rimase perplesso: Aomine che finalmente capiva che doveva dare tregua a Kagamicchi se non voleva farsi dare una padellata in testa? Era stato mosso a pietà? O magari – sarebbe stata la cosa migliore, davvero – ormai anche le reazioni dell’altro lo annoiavano?
Certo, avrebbe preferito che fosse tediato anche delle sue – di Kise stesso – per assicurarsi di poter parlare liberamente senza dover prima vagliare quanti doppi sensi la mente malata della sua dolce metà avrebbe potuto scorgervi, ma non si poteva avere tutto dalla vita.
«Pensavo ti riferissi a quando io ho lanciato altrove le tue mutande.» continuò, facendo aggrottare le sopracciglia a Kise… che poi comprese.
Troppo tardi.
Aomine incurvò le labbra in un sorrisetto che dire divertito e provocatorio avrebbe distorto la realtà, e di molto: «Ma mi erano d’impiccio.» insinuò in maniera a dir poco palese e maliziosa.
Mentre Kagami imprecava in modi che nessuno avrebbe avuto il coraggio di ripetere anche solo per raccontare di quel tragico sabato mattina, Kise Ryouta capiva che le opzioni appetibili erano molte – buttarsi dalla finestra, soffocarsi con il cuscino o tentare di affogarsi nel box doccia (giusto perché nel water ci avrebbe affogato Aomine) – ma nonostante tutto magari avrebbe cercato le sue benedette mutande, e poi le avrebbe usate per strangolare Daiki.
Così, giusto perché oltre al danno ci fosse anche la beffa.


Ammetteva con se stesso che, effettivamente, forse a volte – ma solo ogni tanto, eh – esagerava, e poteva effettivamente risultare pesante.
Però quella vendetta era una carognata, e Bakagami l’avrebbe pagata con gli interessi; e, per inciso, doveva già ringraziare i suoi antenati che la punizione non fosse fargli fare il passivo. Giusto perché non era incline al tradimento – sebbene la scusa ufficiale fosse che non aveva voglia di sentire Kise lagnarsi per il torto subito. E, insomma, non è che se lo immaginava molto Kagami passivo, e se ci provava finiva a spararsi nella testa un Tetsu sadico e no grazie, ok?!
«Che palle.» sbottò, grattandosi la testa con aria scazzata e spostando lo sguardo dal foglietto che teneva in una mano a ciò che lo circondava. Effettuò questo vai e vieni un paio di volte: porri. Che cazzo ci doveva cucinare quell’imbecille con i porri?!
E perché lui a fare la spesa, maledizione?!
«Tch.» sbottò seccato, imboccando un corridoio a caso e cercando altro prima di andare ad angosciarsi l’esistenza al reparto delle verdure o quello che era. Aveva accettato giusto perché quei due (Bakagami e Tetsu) erano fuori per quello che era chiaramente un appuntamento e che il primo aveva liquidato con un invito poco cortese a farsi i fatti suoi, mentre Kise era ad una stupida sessione di foto da modello.
Anche se, in effetti, fare la spesa insieme al biondo sarebbe stato anche peggio: quasi se lo immaginava, a tirargli la manica quando vedeva qualcosa che lo interess—
Un momento. Qualcosa gli stava davvero tirando la manica; abbassò lo sguardo, ritrovandosi a fissare un moccioso sconosciuto attaccato a lui per motivi ignoti. Alzò un sopracciglio, senza naturalmente degnarsi di fare un’espressione meno inquietante – o meglio, era il solito scazzo insito nella sua persona, ma questo un bambino di sì e no sette anni non era in grado di distinguerlo.
«…Ohi.» gli si rivolse «Staccati un po’.» disse, il tono piatto e annoiato, guardandosi svogliatamente intorno alla ricerca di un genitore che venisse a reclamare il pargolo. Pessima mossa: per tutta risposta quello incurvò le labbra all’ingiù, esibendosi in un broncio che preannunciava pianto, il quale non tardò ad arrivare.
«Merda.» sbottò a denti stretti, piegandosi sulle ginocchia in un tentativo di rimediare alla situazione: ci mancava solo che qualcuno lo prendesse per uno che maltrattava un ragazzino, per completare quel pomeriggio!
«Ohi» richiamò nuovamente l’attenzione del piccoletto «niente pianti.» e un giorno qualcuno si sarebbe preso la briga di spiegargli che un cane e un bambino erano due cose diverse, così come lo erano ordinare al primo di non fare pipì sui mobili e al secondo di smettere di piangere.
«Tua madre?» aggiunse, nel tentativo di impegnarlo in qualche modo così che almeno smettesse di disperarsi come se non ci fosse un domani.
La cosa sembrò aiutare un poco, o almeno distogliere l’attenzione del ragazzino dalla sacra arte del far saltare i nervi agli adulti piangendo e strepitando; Aomine lo vide tirare su con il naso – con un certo sollievo, in effetti, perché era Kise quello bravo con i bambini, o Tetsu al massimo, di certo non lui comunque – e indicare verso la fine del corridoio in cui erano.
Che la madre se lo fosse perso per strada?
«Oniichan(1)» si sentì chiamare e alzò lo sguardo al cielo per tenersi per sé la prima parola (poco signorile) che gli era balenata in testa «mi scappa pipì.» se ne uscì candidamente il piccoletto.
Ci mancava.
«…Fermo. Niente pipì nei supermercati.» chiarì immediatamente, una nota incrinata nella voce: Aomine Daiki non andava nel panico con nulla, ma un moccioso che se la fa addosso avrebbe minato alle sicurezze di chiunque.
«Oh cielo, mi scusi!» sentì esclamare, facendo rientrare nel suo campo visivo una donna e – parola sua – non era mai stato così felice di vederne una. Lei recuperò in un attimo il piccolo, che aveva già chiarito la sua identità ad Aomine rivolgendole l’appellativo di “kaachan”, scusandosi più volte per il disturbo di suo figlio e altre parti che Daiki sentì solo parzialmente, troppo sollevato all’idea di aver rimediato al dramma pipì senza doversi effettivamente nemmeno impegnare per salvare la situazione.
Fu ben contento di concedere al moccioso un cenno in risposta al suo agitare la manina verso di lui – con la differenza che il cenno di Aomine era più un “a mai più rivederci”, ma dettagli – quando lo vide allontanarsi con la madre.
Di nuovo nel pieno della tranquillità, tornò a fare mente locale su cosa stesse pensando di fare prima della brusca interruzione; riprese a muoversi pigramente, il cesto con le cose già prese in una mano e il foglietto nell’altra. Trovare le poche altre cose che mancavano dalla lista fu relativamente semplice e veloce, con sua somma soddisfazione, visto che – cosa che avrebbe ricordato a Bakagami una volta a casa – non era una cazzo di casalinga, lui.
Già quando sua madre lo mandava a fare commissioni gli giravano discretamente ad elica, farlo pure ora che si era liberato della costrizione della vecchia – da qui una discreta intuizione del suo amore filiale – non rientrava nei suoi piani. Specie perché, normalmente, non se ne occupava lui, da accordi sulla divisione dei lavori in casa.
Si mosse, infine, verso il reparto dei benedetti porri: mai errore fu più grave.
Aveva recuperato quegli affari, dirigendosi a pesarli per potersene finalmente andare in fila, quando una mano gli si posò sul braccio: «Giovanotto?» si sentì chiamare da una voce estranea per la seconda volta nell’arco di dieci minuti. Si voltò, inquadrando stavolta la figura di una signora a cui, in tutta franchezza, non dava meno di ottant’anni.
Inarcò un sopracciglio con fare interrogativo, e quella parve prenderlo per un “sì, mi dica”: «Saprebbe per caso leggermi questa etichetta?» disse porgendogli un barattolo di quelli che sembravano sottaceti «Sa, alla mia età non si vede più come una volta…» aggiunse con tono divertito. Aomine, chiedendosi se quella non fosse una giornata storta, prese il barattolo e lo occhieggiò; per essere piccole, le scritte lo erano eccome.
«…Che le serve sapere?» domandò.
«Sa dirmi la data di scadenza?» chiese, al che Aomine la individuò senza troppa difficoltà, riportandogliela a voce; lei annuì, e lui stava per ridarle il barattolo, quando quella aggiunse un: «Posso approfittare della sua gentilezza per chiederle un altro favore, giovanotto?»
Aomine avrebbe dovuto capire, o almeno ricordare, fare tesoro delle esperienze: invece non lo fece.
Esitò.
E quel tentennare fu la sua rovina.
«Mi aiuterebbe a portare la spesa alla cassa?» domandò la vecchietta, porgendogli il cestello che aveva portato fino a quel momento con entrambe le mani. Aomine era stronzo, ma non era una carogna. Senza contare che non voleva sapere che sarebbe successo se avesse rifiutato in pubblico di aiutare un’anziana.
Il problema non fu portarle la spesa.
Fu quella specie di controindicazione che avevano tutte le persone anziane, e che poteva essere un tratto carino se eri una ragazza o se eri anche un maschio, ma con un po’ più di entusiasmo durante la spesa, cosa di cui Aomine non era affatto provvisto in quel momento.

«E quindi sa» riprese mentre – finalmente – stava per arrivare il loro turno: «mio nipote più o meno ha la sua età. E suo figlio» e Aomine si chiese quanti diamine di anni gli desse, se si parlava di padri di famiglia «è una vera peste. Ho detto a mio marito di accompagnarmi, ma con la vecchiaia si è fatto cattivo. Voi uomini diventate così, non c’è molto da fare.» spiegò dall’alto della sua esperienza.
Aomine era estremamente combattuto: avrebbe voluto dire alla signora che era un diamine di adolescente, che figli non ne avrebbe avuti, che francamente non credeva proprio che “l’altra metà della sua anima” – bleah – si sarebbe lamentata del suo incattivirsi visto che era un uomo e che ci era abituato dalla tenera età delle scuole medie e che non gliene fregava minimamente della dote di una ragazza per bene, visto che tanto si sbatteva un ragazzo, cristo santo.
Però il pensiero che alla nonnetta venisse un infarto lo aveva fatto desistere: ci mancava di doverla avere sulla coscienza, veramente.
«Lei ha già trovato una brava ragazza?» chiese la signora mentre la persona davanti a loro, ringraziando chiunque di dovere, pagava.
Aomine incurvò le labbra in un sorriso enigmatico: la signora voleva la storia carina e tutta da romanzo rosa? Va bene. Tutto, purché se la togliesse dall’anima, lei e quella stramaledetta spesa!
«Come no.» fece «Ci conosciamo dalle scuole medie, era mia fan perché – sa – gioco a basket. Ora viviamo con altri amici, una coppia, stiamo provando a convivere. Non è lei che si occupa della cucina o del bucato, fa poche volte la spesa perché fa un lavoro impegnato, si lamenta che non la tratto con gentilezza ma tanto so che le sta bene così.»
«Ragazzo mio, è terribile! Un uomo che, così giovane, fa la spesa al posto della fidanzata merita di meglio. Non ci sono più le giovani donne bene educate di una volta!» diede sfogo all’invettiva.
«Eh, già.» dissimulò.
Se non altro immaginarsi Kise mogliettina era stato abbastanza divertente da ingannare gli ultimi, tedianti istanti prima che la cassiera prendesse la spesa della signora, lasciandolo libero.
Poté quindi pagare – dopo che la vecchietta se ne fu andata per la sua strada senza chiedergli altri favori, per fortuna – e recuperare la sua spesa per andarsene finalmente a casa, uscendo dal supermercato… che delle figure fin troppo famigliari gli balzarono all’occhio non appena fu fuori.
Kagami era poggiato ad un palo della luce e sembrava persino incapace di respirare mentre rideva; Kuroko, al suo fianco, cercava di non ridere ma – persino per la sua mono espressività – era chiaro che si trattava di una vera e propria impresa.
Poco distante, Kise cercava di dissimulare senza successo.
«…Eravate qui. Fuor—no. Eravate dentro tutto il tempo.» si corresse sibilando e guardandoli male.
Il biondo tentò invano: «No, Daiki, noi—Povero Daichan, maltrattato da una ragazza che non lo merita.» se ne uscì alla fine, senza potersi trattenere, evidentemente soddisfatto (come gli altri due) della sua vendetta appena consumatasi.
Era talmente preso da quella che non si era minimamente offeso per essere stato spacciato da mogliettina, praticamente.
«…Questa è un’idea tua, Bakagami.» sbottò «Sai dove te lo metto, il porro?!» sbraitò, facendo per lanciare verso il diretto interessato l’intero sacchetto della spesa.
«Aomine-kun, le persone ci guardano.» cercò di recuperare la situazione Kuroko, ma questa volta capiva lui per primo che non era davvero possibile.
«Tu.» si voltò fissando Kise in tralice «A casa me la paghi. Con gli interessi.» sibilò, l’espressione poco rassicurante.
«La piantate di ridere, cerebrolesi?!» sbottò di nuovo all’indirizzo di tutti e tre.
E se Aomine Daiki ti dava del cerebroleso, dovevi preoccuparti… appena smettevi di morire contro un palo ridendo alle sue spalle, magari.

 

 

 

 

1. Oniichan: in Giappone non è raro che i bambini si rivolgano così ai ragazzi più grandi, anche sconosciuti.

   
 
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