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Autore: Glory Of Selene    02/08/2012    2 recensioni
"Gli occhi dell’anziana donna erano annebbiati da uno spesso muro di lacrime, eppure lei continuava ostinatamente ad osservare il dipinto davanti a sé, che presto cominciò a perdere tutte le sue forme e i suoi minuziosi dettagli: divenne una sola, unica macchia di colore, a volte rosso sangue, a volte arancio, a volte giallo intenso o, ancora, di tutte le sfumature possibili di verde.
Un fragile sorriso le si delineò in volto; e ancora piangeva.
Aveva molto amato quei colori, una volta.
"
.§.Questa storia partecipa al contest "Destini: Storia di un Grande Amore".§.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una goccia.
Si affacciò timidamente al mondo, si osservò intorno, e si decise poi a cominciare la propria discesa.
Fu delicata, ad accarezzarle la guancia.
Fu dolce, a cadere lieve ed infrangersi sul bianco pavimento di marmo del museo.
Tutto fu molto veloce a cominciare, ma non era una di quelle velocità fulminee che arrivano inaspettate e lasciano dietro di sé una scia di paralisi e sgomento. Era una di quelle velocità che sono silenziose e impercettibili a compiere le cose, lasciando poi all’uomo l’unico compito di osservare il risultato e meravigliarsi.
Ed era esattamente così che si sentiva la donna in quel momento; non sapeva quando il pianto l’avesse colta, né perché, proprio in quel momento, fosse riuscita a trovare il coraggio di lasciarsi andare come mai aveva fatto in tutta la propria vita. Sapeva solo che erano lacrime quelle che le solcavano copiose le guance ormai secche e rugose, che erano singhiozzi quelli che le scuotevano violentemente il fragile corpo sottile, e che quella che dapprima si era presentata come una disperazione profonda e senza uscita si era invece trasformata in un senso di serenità e benessere.
Gli occhi dell’anziana donna erano annebbiati da uno spesso muro di lacrime, eppure lei continuava ostinatamente ad osservare il dipinto davanti a sé, che presto cominciò a perdere tutte le sue forme e i suoi minuziosi dettagli: divenne una sola, unica macchia di colore, a volte rosso sangue, a volte arancio, a volte giallo intenso o, ancora, di tutte le sfumature possibili di verde.
Un fragile sorriso le si delineò in volto; e ancora piangeva.
Aveva molto amato quei colori, una volta.

Settembre, 1942. Parigi…


...o meglio, le campagne intorno.
In quella stagione dell’anno, tra le ridenti colline francesi, il paesaggio era splendido.
L’estate era appena finita e le grandi piogge erano già arrivate a purificare l’aria e ad addolcire il clima torrido della stagione più calda e soleggiata dell’anno.
Agli occhi della bambina che stava camminando risoluta lungo la stretta strada di campagna, tutto era una continua scoperta: il ruscello che le scorreva limpido a fianco, il colore intenso degli steli d’erba, lo sconcertante azzurro del cielo, sul quale ondeggiavano placide le forme candide di alcuni sbuffi di nuvola.
Lei aveva i lunghi capelli raccolti in due trecce, rosse più del fuoco, un colore di cui tutti sempre si erano meravigliati, appena appena disturbato da qualche striatura dorata dovuta ai raggi del sole estivo. L’estate, però, non aveva potuto fare nulla per la sua carnagione, sempre straordinariamente pallida; l’unico effetto che aveva avuto era stato quello di riempire il viso tondo della bimba di lentiggini color nocciola.
Il suo sguardo, verde come solo l’acqua del mare sapeva essere, era fissato all’orizzonte, dove maestoso sorgeva il suo obbiettivo: un bosco – uno dei pochi rimasti, a dire il vero –, un’enorme e magnifica distesa di alberi dalle chiome imporporate d’autunno. Non c’era mai stata prima di allora – in effetti, la nonna le aveva proibito d’inoltrarcisi –, ma quel giorno non avrebbe sentito ragioni, ci sarebbe andata.
Quella massa di fogliame aveva sempre esercitato su di lei un fascino difficile da trascurare; forse perché, come lei, era rossa.
Tutti l’avevano sempre presa in giro, a scuola, per colpa del suo colore dei capelli. Non era dolce come le bambine castane, o angelica come quelle bionde. Era rossa, e questo chissà perché non andava bene ai suoi coetanei, sempre così scioccamente attaccati alle apparenze.
Per questo era decisa ad andare dagli alberi arancioni, e stare un po’ con loro. Li considerava compagni di sventura.
Non ci mise molto a giungere al limitare della foresta, dove la strada che aveva percorso si restringeva e diventava solo un sottile sentiero di terra battuta che s’inoltrava nel sottobosco.
La bambina represse un brivido. Gli alberi non erano come se li era immaginati dalla finestra di casa sua: erano cento volte più alti, e più incombenti. Sembravano quasi cattivi, da come con le loro fronde gettavano ombra sui cespugli e creavano nicchie oscure dove avrebbe potuto nascondersi qualsiasi mostro.
La nonna gliel’aveva detto: c’erano uomini cattivi in città – per questo, due anni prima, la madre l’aveva caricata su un treno e l’aveva fatta stare da lei, in campagna –, e a volte gli uomini cattivi pattugliavano i boschi e rapivano le bambine sperdute, come lei.
La piccola prese un profondo respiro, scoccò un’occhiata di sfida alle fronde attorno a sé e cominciò ad addentrarsi nella foresta, più determinata che mai.
Non aveva paura di quelle persone: aveva già fatto a botte, a scuola, con molti dei suoi compagni maschi, e li aveva battuti sempre. Era forte, e più veloce di chiunque altro; non avrebbe permesso a nessuno di impedirle di esplorare il bosco, quel pomeriggio.
I suoi passi si fecero sempre più sicuri man mano che proseguiva. Non c’era più spazio per la paura, nella sua testa, solo per uno stupore che le stava lentamente invadendo il petto. Osservava i colori delle foglie, così straordinariamente belli, e provava un’emozione alla quale non riusciva a dare un nome. Era stupendo il modo in cui i raggi del sole tingevano d’oro quello che era già la sua quintessenza, e allora lei capì che si era sbagliata, quei rami non oscuravano il sole, ma lo esaltavano invece.
Era così presa dalle sue scoperte che non si accorse della grossa buca che si apriva davanti a lei, sulla strada, e vi cadde in pieno con un urlo acuto.
Ecco, alla fine era successo. I mostri l’avevano catturata… ne sentiva i passi. Erano passi pesanti, scomposti e rumorosi; venivano a prenderla, e l’idea la terrorizzò. Che cosa le avrebbero fatto? L’avrebbero mangiata? Beh, presto l’avrebbe scoperto.
Cercò di mostrarsi spavalda, di frenare i battiti improvvisamente rumorosissimi del suo cuore impazzito, e quando una testa fece capolino dall’apertura sopra di lei la accolse con uno sguardo truce e perfettamente sicuro di sé.
«Ah-ha! Sapevo che avrei preso qualcosa, prima o poi.» esclamò tutto eccitato il bambino che la osservava dall’alto in basso.
L’espressione di lei si fece dapprima sollevata, poi stupita, poi seccata.
«Scemo! Pensavo fossero i mostri.»
L’altro sollevò il mento con aria saccente.
«I mostri non fanno trappole, io li ho visti. Sono troppo stupidi.»
Lei spalancò gli occhi, dimenticandosi all’istante di trovarsi sul fondo di una buca profonda.
«Tu hai visto i mostri?»
Il bambino annuì, evidentemente orgoglioso di sé stesso.
«Sissignora. Li ho combattuti, anche.»
«Credevo che solo i papà potessero combattere i mostri.»
Lui la osservò perplesso.
«I papà combattono gli uomini malvagi. Io combatto i mostri.»
La piccola scosse la testa.
«Gli uomini cattivi e i mostri sono la stessa cosa.»
La risposta che ricevette fu una risata di scherno, il che la infastidì non poco.
«Certo che non sai proprio niente, tu! Vieni fuori, che adesso ti insegno io quello che devi sapere.»
Lei osservò la mano tesa con una certa diffidenza, ma la sua esitazione non durò più di qualche attimo prima di afferrare il braccio che il bimbo le porgeva e venire issata fuori dalla sua trappola.
Una volta libera, poté finalmente guardarlo bene, e rimase stupita dal suo aspetto.
Era un bambino piccolo – era più basso di lei –, i suoi capelli dello stesso colore delle nocciole erano ondulati e lunghi fino alle spalle, gli occhi castani e profondi. Era particolare, non era come gli altri, ma lei non si sentì di definirlo brutto.
Dopotutto, nemmeno lei era come tutti gli altri.
«Wow!» esclamò lui.
«Che c’è?»
«I tuoi capelli! Non li avevo mai visti.»
Lei si rabbuiò. Sì, tutti dicevano così, all’inizio.
Attese pazientemente che iniziasse a deriderla, ma invano, perché lui continuava ad osservarla pensoso, quasi ammirato. Non sembrava ostile.
«Sei una fata?»
Lei spalancò gli occhi.
«Fata?»
«No, no, non sei una fata. Sei caduta nella mia trappola: le fate non cadono nelle trappole. Però assomigli ad una fata.»
Le parole di quel bambino erano diverse da quelle di chiunque avesse mai sentito parlare; erano strane, ma anche quella volta decise che non erano pericolose. Erano belle, la facevano sognare.
Spesso aveva creduto all’esistenza delle fate, ma non era riuscita a confessarlo mai a nessuno, sapeva che cosa avrebbero detto i suoi coetanei.
Lui, invece, era così spontaneo… sembrava quasi che fosse vero, quello che raccontava.
«Come ti chiami?» si decise a chiedere, alla fine.
«Etienne. Cavalier Etienne!» rispose lui, con un gran sorriso, brandendole sotto il naso una spada di legno più grande di lui. «E tu?»
«Désirée.»
«Ti va di venire con me? Oggi vado a trovare le sirene del fiume e poi continuo con la costruzione della mia fortezza negli alberi.»
Un largo sorriso si delineò sul viso di Désirée.
«Sì! A patto che sia io il capo.» rispose lei.
Etienne trotterellò per qualche metro lungo la strada, allegro.
«Tu? Mh… tu sei un cavaliere?»
«No.» rispose lei. «Ma sono una fata.»
«Ma è impossibile, te l’ho detto! E poi, le fate hanno le ali.»
«Allora sono la figlia di una fata.»
Lui si fermò, sfregandosi il mento con aria pensierosa. Non aveva mai sentito che le fate avessero dei figli, ma l’amica appena trovata era troppo graziosa perché fosse una semplice umana. Annuì.
«D’accordo.»
«E la fata era bellissima.»
«D’accordo.»
«E io sono il capo.»
«Vedremo.»
«Vedremo?»
Lui fece spallucce.
«E’ quello che mi dice la mamma quando non vuole che faccio qualcosa.»
Procedettero in silenzio per qualche minuto, poi lei si azzardò a parlare.
«Come sono fatti i mostri?»
«Sono grossi, pelosi e invisibili.»
«Ma se sono invisibili come fai a combatterli?»
«Io posso vederli. Per questo sono il capo.»
«E perché io non posso?»
«Non lo so. Però credo che dopo un po’ riuscirai anche tu.»
«E allora sarò il capo?»
«Vedremo.»

Maggio, 1955. Parigi.

Una giovane donna.
Era una giovane donna quella che le ricambiava lo sguardo, nel riflesso dell’alto specchio a parete della sua stanza.
Désirée sospirò, sistemandosi l’acconciatura dei capelli con occhio critico. Si erano scuriti, con il passare del tempo, non erano più rosso fuoco come le sue trecce di bambina, avevano preso una peccaminosa sfumatura color sangue, languida e sensuale. Certo, quello non era l’unico cambiamento che il tempo aveva operato su di lei: le lentiggini erano scomparse, lasciando dietro di sé una carnagione d’avorio – troppo bella per essere definita “pallida” –, le guance paffute si erano modellate e il viso si era affinato fino a diventare quello di una donna adulta, le rotondità della bambina avevano lasciato il posto alle sinuose forme femminili che racchiudevano una vita sottile e un ventre piatto. Non si poteva dire che non fosse soddisfatta del proprio aspetto, ma a volte avrebbe desiderato tornare bambina, tra i boschi della propria infanzia, in mezzo ai giochi di Etienne che avevano sempre avuto il potere di farle dimenticare l’orrore della guerra che aveva lasciato in città.
Non l’aveva più rivisto.
Un giorno, la guerra era finita, suo padre era tornato a casa dall’esercito ed erano venuti entrambi i suoi genitori a prenderla. Lei era stata felicissima. Tornare alla sua vita, nella sua casa, insieme ai genitori – finalmente la luce triste negli occhi di sua madre era stata cancellata –, tempo prima non avrebbe desiderato altro.
Ma poi, la città cominciò a starle stretta. Lei guardava fuori dalla finestra, in autunno, osservava le foglie cambiare colore e pensava a quel bimbo così fantasioso.
Etienne.
Non era più ritornata al bosco delle fate.
La porta della sua stanza si aprì improvvisamente, e il volto raggiante di una donna ormai segnato dalle prime rughe fece capolino dall’esterno.
«Oh mio dio, tesoro, sei bellissima!» esclamò la madre, non appena la vide con addosso l’abito che si erano scelte per l’occasione.
Désirée sorrise, recludendo la malinconia in un angolo remoto del proprio sguardo verde acqua, e si esibì in una piroetta.
Sì, il vestito era davvero splendido: il corpetto dalle spalline sottili le fasciava il busto evidenziandole il seno e la linea piatta del ventre sotto di esso; la gonna si apriva in uno sbuffo di dolci pieghe che terminavano appena sopra le ginocchia; il bordo, poi, era ornato dal pizzo della sottoveste che spuntava da sotto, bianca e delicata. Il colore era verde, un verde scuro e intenso, puntellato di candidi pois.
«Dai, vieni di sotto. Gli ospiti stanno aspettando solo te e, fidati, rimarranno a bocca aperta.»
La ragazza le rivolse un ultimo sorriso, mentre la guardava girarsi e scendere le scale che l’avrebbero portate al salone.
Il salone. Gremito di gente.
Désirée rabbrividì piano, e il suo sorriso si spense lentamente. Odiava tutti quegli eventi mondani che alla madre piacevano tanto. Prese un respiro profondo, si stampò in volto un’espressione di circostanza e cominciò anche lei a scendere la scalinata, un lento passo dopo l’altro.
La serata fu lenta a passare, e noiosa esattamente come se l’era immaginata. Non riusciva a decidere che cosa l’irritasse di più: se la superficialità delle continue chiacchiere degli invitati, o se la loro prevedibilità; se le palesi avances di un damerino petulante di cui si era già scordata il nome, o se il suo impeccabile completo tirato a lucido; se l’ipocrisia dei complimenti che le venivano rivolti da Miss Isabelle, o se l’invidia celata in essi. Alla fine, fu costretta ad una ritirata strategica verso il lungo terrazzo che – per fortuna – costeggiava invitante il lato sinistro della stanza.
Il vento notturno le diede un piacevole benvenuto, fresco e frizzante, che le fece sorgere il primo sorriso sincero della giornata. Mosse qualche passo lento verso la nera inferriata di ferro battuto, alla quale si appoggiò per poi alzare il volto verso il cielo notturno e osservare la luna, piena e argentea, circondata da miriadi di stelle. Una volta, Etienne le aveva raccontato una storia in cui il sole e la luna si erano innamorati.
Ovviamente, il loro era un amore impossibile, separati per sempre dalle leggi della natura. Eppure, un giorno, avvenne che lei sfidò quelle leggi, corse da lui, gli donò sé stessa e tutta la propria devozione, e lui in cambio le diede la sua meravigliosa corona splendente. Il mondo intero si oscurò, mentre loro brillavano; e nel buio della volta celeste, per la prima volta, apparirono le stelle.
Désirée sospirò, guardando la bella protagonista di quella storia affiancata dalle sue figlie. Le era sempre piaciuto quel racconto, una volta aveva persino deciso che il suo più grande sogno sarebbe stato quello di assistere di persona ad un’eclissi. Eppure, lei sapeva molto bene di non potersi abbandonare alle fantasie, che la vita andava vissuta nel reale, e che i sognatori come lei avevano poca strada davanti a sé se non si fossero decisi a riportarsi con i piedi per terra.
Si costrinse a distogliere lo sguardo dal cielo sopra di sé, per concentrarsi sul paesaggio della città che ora le si presentava davanti in tutta la sua rassicurante familiarità. Le luci gialle e soffuse dei lampioni, le vie popolate solamente da qualche gatto randagio in cerca di prede, la figura della Tour Eiffel che si stagliava all’orizzonte… la giovane donna amava tutto questo, almeno quanto amava le storie surreali che aveva ascoltato avidamente da bambina. Sapeva che c’era di più – in città, nella sua vita, in quel momento – di una stupida festa data dalla coppia di genitori più frivola della città.
All’improvviso, le venne una folgorazione. Sotto di lei si snodava una precaria scaletta di ferro arrugginito, sicuramente costruita come via di fuga per le emergenze. Sul suo volto candido si impresse un sorriso furbo.
In effetti, la sua era una vera e propria emergenza, e quella che stava cercando era esattamente una via di fuga.
Scoccò un’occhiata furtiva alla vetrata alle sue spalle, poi si voltò e non si guardò più indietro, sollevò il vestito con una mano e cominciò a scendere la scaletta con un piacevole brivido di adrenalina che le scuoteva piano la spina dorsale.
Il buio nelle strade accolse i suoi passi lenti ed eccitati come se li conoscesse da sempre, e l’abbracciò come se fossero vecchi amici. La giovane donna sorrideva, sentiva l’emozione gonfiargli il petto, leggera eppure straordinariamente forte, e sperò solo di riuscire a contenerla e non scoppiare – magari in un urlo, o in una lunga risata. Non riusciva a darle un nome: forse eccitazione, forse felicità, forse soddisfazione, forse sollievo. Sapeva solo che, in quel momento, un'unica parola regnava sovrana sul caos di pensieri concitati che si stavano aggirando frenetici nella sua testa. Libertà.
In realtà, non aveva un piano preciso; non era una fuga programmata, la sua. Il suo fine non era incontrare di nascosto un amore proibito, o poter svolgere attività sconvenienti con il favore delle tenebre. Non aveva alcuna intenzione di cadere nelle braccia dei peccati più disparati, quella notte, né di compiere atti criminosi.
Tutto ciò che desiderava era la solitudine, e il brivido della scoperta del volto oscuro della frizzante Parigi.
Avrebbe dovuto camminare molto per portarsi verso il centro della città, fino a quelle vie che non dormivano mai, e che mai avrebbero dormito, ma non le importava, ne sarebbe valsa la pena.
E intanto, sorrideva. Quanto tempo era passato dalla sua ultima avventura, compiuta alle spalle dei propri familiari per puro divertimento?
Troppo, decisamente troppo.
All’ennesima via deserta dove i suoi passi riecheggiavano sinistramente, rimbalzando sulle pareti spoglie e buie delle case, però, cominciò a sentire l’ansia strisciare verso di lei, avviluppando e stringendo tra i suoi tentacoli ogni cosa che si trovasse sul suo cammino.
La consapevolezza di essere una donna, sola, di notte, con addosso un abito decisamente costoso e cucito apposta per strappare esclamazioni di sorpresa la colpì come una folgorazione, e la sua sicurezza si incrinò.
Stava prendendo seriamente in considerazione l’idea di tornare indietro, quando un cigolio la bloccò sul posto, paralizzata dalla paura.
Si diede della stupida, probabilmente era un rumore nato dalla sua sciocca autosuggestione – un cigolio non aveva ragione di esistere, lì, a quell’ora –, ma in cuor suo sapeva che nessun pensiero razionale sarebbe bastato a vincere il terrore che la incatenava al terreno e le stringeva convulsamente lo stomaco come in una morsa.
Perché il cigolio si stava facendo più vicino. Ora lo sentiva chiaramente, non poteva più essere frutto di un’allucinazione, e sentiva anche gli sbuffi dell’uomo che lo accompagnava.
Si chiese che cosa potesse provocare un suono tanto spaventoso, ma non osò rispondersi; poté solo rimanere lì e sperare di venire nascosta dal buio della notte oppure, alla peggio, che l’adrenalina risvegliasse le sue gambe improvvisamente di pietra e la inducesse a correre come mai aveva fatto nella vita.
D’improvviso, proprio quando quel rumore terrificante avrebbe dovuto raggiungerla e ghermirla, venne rimpiazzato da un grido soffocato e da un assordante rumore di ferraglia che sbatteva a terra.
Qualunque cosa fosse, si era fermato; la cosa più sensata da fare per lei in quel momento sarebbe stato approfittarne e darsela a gambe. Era un’idea estremamente allettante, però c’era qualcosa che, in quel momento, l’attraeva di più. Contro ogni logica, la curiosità ebbe il sopravvento sulla paura, e lei finalmente si voltò per osservare la cosa che l’aveva tanto terrorizzata.
Inizialmente non capì subito cosa fosse. Sembrava una massa informe di fili, pezzi meccanici e ruote.
Sì, c’erano delle ruote, erano due, larghe e sottili e formate da una fitta intelaiatura di ferro: una era premuta contro il terreno, l’altra tendeva verso il cielo e girava a vuoto molto velocemente.
«Ecco, ecco, io lo sapevo, lo sapevo che sarebbe successo un’altra volta. Accidenti a me, accidentaccio, giuro che domani vado a comprarmi una bella macchina – con quattro ruote, quattro! –, a costo di vendere la casa e doverci dormire dentro.»
La bicicletta capovolta tremò, sotto la spinta dell’uomo che aveva sepolto, ma non si spostò di un millimetro e lo sconosciuto si lasciò andare ad uno sbuffo d’impazienza.
«Ah, eccoci, perfetto. Passerò la mia vita qui dentro.»
Désirée si avvicinò immediatamente, era chiaro che aveva bisogno d’aiuto, e i suoi brontolii erano troppo buffi perché lei potesse sospettare che appartenessero a un folle criminale.
«Posso aiutarla?»
Per un istante, lo strano ammasso di braccia, gambe e ferraglia si bloccò.
«No, no, no, non si preoccupi mademoiselle, è solo un piccolo intoppo e non c’è bisogno che lei si scomodi, davvero.»
Lei gli lanciò un’occhiata scettica, ma non poté rimanere seria a lungo davanti ai suoi goffi tentativi di vincere l’incontro di lotta libera che aveva ingaggiato contro la povera bicicletta, e mascherò la sua risata dietro il palmo della mano. Stava per offrirgli di nuovo il proprio aiuto, quando con uno scatto l’uomo riuscì a liberarsi spingendola lontano.
Lui balzò a sedere e indicò il mezzo con aria di sfida. «Alla fine ti ho vinto, dannato mostro di ferro!»
Désirée rise.
Infine, l’uomo si alzò in piedi, spolverandosi i pantaloni blu e la giacca dello stesso colore.
Lei restò a guardarlo, incuriosita. Era alto, ampiamente più alto di lei, ma questo non lo rendeva sgraziato o allampanato, anzi, era perfettamente proporzionato, nonostante non fosse certo un fascio di muscoli.
Raccolse un cappello malconcio da terra e se lo calcò in testa, sopra un’acconciatura di capelli scuri sorprendentemente corta e tirata, e poté guardarla per la prima volta.
Non appena Désirée incrociò i suoi occhi, rimase senza parole. Non aveva mai visto uno sguardo così intenso, così profondo, e ne rimase incantata.
«…Wow.» sussurrò lui, stregato almeno quanto lei.
Rimasero in silenzio per qualche istante, ad osservarsi; lui era l’uomo più affascinante che lei avesse mai visto,  e lei era la donna più bella che lui avesse mai incontrato.
«La ringrazio per l’aiuto, mademoiselle.»
Per un attimo lei si chiese se fosse sarcasmo, ma non trovò traccia d’ironia negli occhi neri del suo interlocutore.
«Non ho fatto nulla, io.»
Sul volto di lui apparve un lieve sorriso.
«Mi ha sostenuto nella lotta contro l’infernale mezzo a due ruote.»
Allora anche lei sorrise, e abbassò gli occhi.
Il sorriso di lui si allargò, e si permise di staccare gli occhi da lei solo per quei pochi minuti che gli bastarono per ricomporre la bicicletta e rimetterla in piedi.
«Se non sono troppo indiscreto,» esordì poi, mentre trafficava con il manubrio, piegato in una posizione decisamente strana «come mai una donna come lei si trova, di notte, in strade come queste?»
La giovane donna si morse un labbro e guardò altrove.
Ecco, perfetto, aveva fatto la figura della poco di buono. D’altra parte, che cos’altro mai avrebbe potuto pensare di lei, nel vederla vagare per le vie da sola?
«Avevo bisogno d’aria fresca» rispose, tentando di discolparsi.
L’occhiata che lui le rivolse fu severa, ma anche straordinariamente dolce.
«Questo non è un bel posto né un bel momento per andare a passeggio, Goccia d’Autunno.»
Il nomignolo con cui l’aveva apostrofata fu come una doccia fredda, per lei: una piacevole scarica di brividi.
«Come mi ha chiamato?»
Lui si picchiò la fronte con la mano, scuotendo la testa.
«Oh, mi scusi, mi scusi davvero. A volte non riesco a mettere a freno la lingua, è stato sconveniente. Mi perdoni, spero di non averla offesa.»
Lei gli si avvicinò. L’interesse ardeva indomabile nel fondo dei suoi occhi verde acqua.
«No, nessuna offesa, davvero. Ma, quel nome… Goccia d’Autunno. Che cosa significa?»
Lui si rinchiuse in un silenzio pensoso, prima di rispondere. Evidentemente era indeciso se raccontare o meno i fatti propri ad un’estranea.
Poi, però – dopo aver appoggiato la bicicletta al muro con una certa goffaggine –, le si avvicinò con un sorriso enigmatico e una fiamma d’ispirazione che gli bruciava negli occhi. Ora che poteva osservarli bene, Désirée capì che non erano del banale marrone che si era aspettata: possedevano una caldissima sfumatura color cioccolato, screziata qua e là da miriadi di pagliuzze verde scuro.
«È per via dei suoi capelli, mademoiselle. Secondo la leggenda, la dea dell’autunno versò una sola lacrima. Nessuno sa che cosa la indusse a piangere, a compiere un gesto che tanto si allontanava dal suo carattere forte, ma proprio per la sua rarità – o forse si dovrebbe dire unicità –, quella goccia divenne la cosa più bella che mai fosse esistita in natura. Liquida e perfettamente tonda, conteneva in sé tutti i colori dell’autunno e tutte le sue emozioni più profonde; ma il colore dominante era sempre lo stesso, il rosso.
A volte era rosso fuoco, a volte si screziava d’arancio, altre diventava così scuro da indurre occhi poco attenti a pensare che si trattasse di nero.»
Le sorrise dolcemente, prima di continuare il proprio racconto.
«La lacrima, com’è ovvio, cadde. Volò leggera verso il suolo, ed era curioso, come una cosa così bella fosse destinata a morire tanto in fretta.
Ci fu chi pensò che, unendosi con la terra, avrebbe dato origine ad un fiore, il più bello, il re dei fiori. Alcuni si convinsero che non si sarebbe mai rotta e che avrebbe continuato a vagare per il mondo per l’eternità; altri, per contro, credettero che sarebbe semplicemente svanita. Dopotutto, la bellezza è effimera. Eppure, nessuno sarebbe mai riuscito ad indovinare quello che sarebbe successo dopo.
Arrivò un uomo; un semplice mortale, un essere inferiore che poteva contare quanto uno spillo nell’immensità dell’universo. Aveva visto la goccia, in cielo, cadere, e se n’era innamorato. Corse disperato fino al luogo in cui avrebbe terminato la sua caduta, tentò inutilmente di salvarla: s’infranse, sul palmo delle sue mani.
L’uomo non voleva darsi per vinto: la desiderava, e la sua scomparsa lo stava a poco a poco uccidendo di dolore. Decise, così, di pregare. Pregò con tutto sé stesso, non sapeva esattamente chi o cosa stesse pregando, ma continuò a farlo, continuò a gridare ed implorare di essere sentito, perché qualcuno esaudisse il suo desiderio, perché qualcuno la facesse ritornare.
E infatti, la dea dell’autunno fu mossa a pietà, lusingata dal fatto che qualcuno potesse amare così tanto qualcosa da lei generato, e compì un incantesimo. Creò una donna, un essere umano, in grado di rendere felice quell’uomo, le donò tutta la bellezza della sua lacrima perduta, e il suo colore dei capelli fu per sempre il più bello, il più dolce e il più passionale. Il rosso.»
Era pronto a concludere, soddisfatto delle proprie doti di narratore.
«E così, da quel momento, nasce una bambina per ogni generazione, una bambina con i capelli rossi, pronta a ricevere l’eredità della bellezza e dell’amore della Goccia d’Autunno.»
Désirée era rimasta senza parole.
Era una storia stupenda, era… la più bella che avesse mai sentito. Sì, c’era solo una persona al mondo capace di inventare di punto in bianco storie del genere.
Si accorse di essere scoppiata a piangere, commossa, solo quando sentì il sapore salato della prima lacrima in bocca, ma non ci badò.
Gli saltò al collo, invece, lo abbracciò stretto, piangendo, felice.
«Etienne!»
Il cappello gli saltò via, tanto era stato forte l’impeto della ragazza, e allora lei notò i suoi capelli.
Non erano straordinariamente corti, come la penombra le aveva fatto credere, erano solo tirati in una coda; dietro di lui si aprivano infatti tutti suoi meravigliosi boccoli, non castani come le avevano suggerito gli occhi al buio, ma biondo scuro – com’erano sempre stati –, di quel color caffelatte così adorabile.
Non se li era tagliati, e anche questo ebbe il potere di commuoverla: ricordava la scenata che gli aveva fatto, quando lui le aveva confidato i propri dubbi riguardo al proprio taglio. Adorava la loro lunghezza. E lui l’aveva ricordato.
Quando anche Etienne realizzò, scoppiò a ridere, mentre lei piangeva.
La prese per la vita, la sollevò e le fece fare una piroetta, e dopo che l’ebbe posata a terra rideva ancora.
«Fatina!» esclamò. Non riusciva a smettere di sorridere.
A quel punto, rise anche lei.
Si abbracciarono un’altra volta, stretti, si staccarono solamente per guardarsi negli occhi e riconoscersi un’altra volta.
Poi, pian piano, i sorrisi scomparvero.
Si guardavano negli occhi, erano vicinissimi, più vicini di quanto non fossero mai stati, potevano sentire i respiri l’uno dell’altra. E allora capirono che, sebbene non fosse cambiato niente, erano loro ad essere diversi. I loro abbracci non erano più quelli di due bambini.
Se ne accorse lui, il suo corpo reagiva alla straordinaria bellezza della sua vecchia amica, si ritrovò a desiderarla, e ad essere spaventato da questo desiderio.
Se ne accorse lei, il cuore che le batteva all’impazzata in petto, un calore che le pervadeva il corpo mentre lui la stringeva tra le sue braccia, si accorse di essere irrimediabilmente attratta da lui e dal suo fascino, e di essere spaventata da quell’attrazione.
Così, lui la lasciò andare, ed entrambi si allontanarono, imbarazzati. Le guance di lei erano avvampate, e lui prese a torturarsi le mani. Eppure, non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso.
«Sei cambiata tanto, Des.»
«Tu invece sei sempre uguale, Cavaliere.»
Lui rise, di nuovo.
«Già, come vedi il mio cavallo mi ha appena disarcionato.» rispose, indicando la bici.
«Un vero smacco, per un aitante paladino dei deboli.» lo prese in giro lei.
«E per un ragazzo di campagna, soprattutto.» aggiunse l’altro.
«Giusto.» annuì lei sorridendo mentre il suo sguardo vagava a terra. «Come mai a Parigi? I boschi campagnoli ti stavano stretti?»
Lui sospirò, e un velo di malinconia gli oscurò lo sguardo.
«Al contrario, li rimpiango invece. Ma, sai com’è, dicono che devi andare nelle grandi città se vuoi cercare la fortuna.»
Lei annuì.
«Capisco. E l’hai trovata?»
La risposta che ricevette fu una breve risata amara.
«Non direi, sono ancora un poeta incompreso e squattrinato.»
«Sei un poeta?» chiese. Chissà perché la notizia la sconcertava tanto. Lui era nato per inventare storie, lei lo sapeva bene.
«Beh, se così si può definire un povero disgraziato che scrive senza che nessuno abbia intenzione di pubblicargli niente. Credo di star infangando il nome di tutta la letteratura.»
La sua autocommiserazione la fece andare su tutte le furie, come diavolo si permetteva? Lo fulminò con lo sguardo.
«Non dire idiozie. Se non riesci tu, a scrivere, chi mai potrebbe riuscirci?! È il tuo talento! Non osare mai più metterlo in dubbio! Anzi, datti una mossa a fatti valere con tutti quegli stupidi editori, altrimenti ti verrò a cercare.»
Senza che se ne accorgesse, aveva alzato la voce.
«Hai sempre il tuo bel caratterino, vedo»
Lei gli scoccò uno sguardo truce, e allora il sarcasmo sul volto di Etienne scomparve, rimpiazzato da dolcezza e gratitudine.
«Grazie, Des.»
Anche l’espressione di lei si addolcì. Non poteva permettergli di buttare via la sua incredibile predisposizione per le parole, sarebbe stato il delitto peggiore mai compiuto.
«Ehi, vuoi che ti accompagni a casa? È tardi, non dovresti andartene in giro da sola. È pericoloso.»
La sua proposta la strappò dai suoi pensieri, e le fece talmente piacere che gli rispose con un largo sorriso, raggiante.
Fu così che fata, destriero e cavaliere tornarono a camminare fianco a fianco, come sempre avevano fatto.

La sua fuga non venne scoperta, quella sera.
Etienne l’aveva accompagnata fin sotto il balcone di camera sua, ed era stato facile arrampicarsi sulla scaletta antincendio che scendeva in strada e rientrare senza essere vista.
Il salone era stato riempito di gente a tal modo che solo pochissimi si erano accorti della sua assenza; era stata brava a liquidare qualsiasi domanda, dopotutto le stanze in casa sua non mancavano e lei le conosceva tutte abbastanza da costruirsi un alibi difficilmente contestabile.
Dopo la serata passata a chiacchierare con Etienne, le ultime ore della festa le sembrarono ancora più squallide di prima. Le sue conversazioni erano banali e meccaniche – si adattavano perfettamente a quelle di tutti gli altri invitati –, i suoi pensieri erano solo al giovane affascinante poeta che era diventato il suo migliore amico d’infanzia.
In cuor suo, sperava con tutta sé stessa di poterlo rivedere un’altra volta.

«Signorina Désirée, è arrivata una lettera per lei.»
La ragazza levò gli occhi dalle parole del libro che stava leggendo, rannicchiata sul divano del salotto, per mettere a fuoco la figura slanciata di Jean, il loro maggiordomo. Le porgeva una busta candida con un’espressione professionale stampata in viso, e Désirée sentì il cuore balzarle in petto.
Chi mai avrebbe potuto essere così teatrale da inviare una lettera, piuttosto che fare una semplice telefonata?
Si affrettò a prenderla in mano, tentando però allo stesso tempo di mascherare l’impazienza, prima di congedare Jean con una parola di ringraziamento quasi sussurrata.
Rigirò la busta tra le dita. Recava scritto l’indirizzo di casa sua in una grafia sottile e composta, ma non c’era traccia di mittente. Decise di non indugiare oltre e la strappò, per tirarne fuori il foglio di carta leggera sul quale era scritto un breve messaggio.

Cara Goccia d’Autunno,
sarai felice di sapere che ho venduto il mio destriero. Ahimè, ho capito di essere totalmente negato per l’“equitazione”, e che quel mezzo infernale mi sarebbe stato di gran lunga più utile in questo modo che come mezzo di trasporto. D’ora in poi mi sposterò a piedi: un po’ di moto è esattamente quello che mi ci vuole per combattere il mostro della vita sedentaria, il quale purtroppo mi ha già recato troppi danni in quanto starei cercando spacciarmi per un intellettuale.
A proposito di spostamenti, domenica pomeriggio, verso le due, mi troverò a Bois de Vincennes. C’è stata un’infestazione di folletti, e sono richieste le mie grandi capacità di paladino.
Mi piacerebbe davvero tanto se tu mi raggiungessi: forse, tra un combattimento e l’altro, potremmo farci una passeggiata in santa pace ed evadere dalla noiosissima vita quotidiana.
Ovviamente, se non potrai io capirò benissimo. Non so nemmeno quando ti arriverà la mia lettera; sono solo molto impaziente di rivederti.

Etienne

P.S. A dire la verità, i folletti non sono un gran pericolo da affrontare, sono solo molto permalosi e adorano gli scherzi. Non ti avrei mai esposta ad un rischio troppo grande. In compenso, però, Bois de Vincennes è meraviglioso in questo periodo dell’anno, quasi quanto lo è in autunno.


Désirée rise tra sé, rileggendola una seconda volta. Lui era assolutamente unico; e poi, la prospettiva di Bois de Vincennes infestato dai folletti le piacque molto.
Chiuse il libro immediatamente, senza alcuna esitazione, si alzò dal divano e corse di sopra, in camera sua. Per fortuna era già vestita; doveva solo prendere la borsa, poi avrebbe potuto uscire subito. L’incontro era per quel pomeriggio, e fu felice che la lettera le fosse arrivata in tempo.
Non ci mise molto a raggiungere il parco; il suo verde la colpì, in tutta la sua magnificenza, vasto, magico.
Etienne l’attendeva davanti ai cancelli dell’entrata principale, e quando la vide le regalò un largo sorriso.
«Sapevo che saresti venuta.»
Lei gli scoccò un’occhiata scherzosa.
«Beh, non potevo lasciarti solo in balia di tutti quei folletti.»
Lui si passò una mano tra capelli, vagamente imbarazzato. Quel giorno li portava sciolti sulle spalle, e lei li trovò stupendi.
«Eh, a proposito, scusa per le sciocchezze che ti ho scritto nella lettera. Ho avuto tempo di pentirmene solo dopo averla inviata.»
Désirée finse un’espressione estremamente delusa.
«Ma come, niente combattimenti, oggi?» si guardò in giro con aria pensosa. «Cosa possiamo fare, allora?»
Etienne rise, e le porse il braccio.
«Vedrai che qualcosa riusciremo a trovarla.»
Entrarono nel parco così, a braccetto, si lasciarono avvolgere dalla bellezza dei suoi alberi sgargianti mentre parlavano del più e del meno, dell’infanzia, delle loro vite attuali, del loro futuro.
Entrambi finsero di essere tornati bambini, di trovarsi nel bosco della loro campagna. Ma nessuno ebbe il coraggio di rivelare all’altro una cosa così sciocca.
«Sai? I tuoi capelli sono bellissimi.» gli disse lei dopo un po’, giocherellando con un suo boccolo. Si erano seduti su una graziosa panchinetta di ferro scuro, spuntava solitaria in mezzo ai cespugli verdi del grande parco, e lei se ne era subito innamorata.
Quella frase ebbe il potere di stupirlo.
«Vorresti confrontarli con i tuoi, Goccia d’Autunno? Non credo che mi converrebbe.»
Lei sorrise, mentre lui allungava una mano per spostarle una delle sue ciocche rosso sangue dal volto.
«Lo capisco molto bene, l’uomo della mia leggenda.» mormorò poi lui, osservandole con affetto i capelli.
Chissà perché, un grande calore le si propagò nel petto nel sentire le sue parole.
«Ricordi la storia del sole e della luna?» gli chiese lei, piano.
Lui sorrise.
«Certo.»
Lei si accomodò contro di lui, e fu un gesto naturale quello di posare la testa sulla sua spalla. Sembrava modellata apposta per accoglierla.
«Riesci ad immaginare un amore talmente forte da sfidare le leggi della natura?»
Passò qualche attimo prima che Etienne rispondesse. Quando alzò lo sguardo su di lui, capì che la stava osservando.
«Comincio a farlo.»
Désirée avrebbe dovuto rifiutare le sue parole, e il suo sguardo, da cui trapelava troppo affetto.
Avrebbe dovuto rifiutare il suo tocco – erano carezze, le sue? –, avrebbe dovuto rifiutare il suo viso così vicino al proprio.
Ma, ancora una volta, decise di non fare quello che avrebbe dovuto.
Perché lo voleva, con tutta sé stessa; forse l’aveva capito dal primo momento in cui l’aveva rivisto, pochi giorni prima.
Fu talmente spontaneo, ciò che venne dopo. Una cosa così semplice, così profondamente giusta.
Di nuovo lui la stringeva a sé, ma non c’erano limiti alla loro felicità questa volta. Lei sentiva la morbidezza delle sue labbra, sentiva i suoi capelli tra le dita, sentiva le sue braccia avvolte attorno a lei e il suo petto ampio ad accoglierla.
Ognuno sentiva il respiro e il frenetico battito del cuore dell’altro; e avrebbero desiderato che quel preciso istante, in cui si sentivano così vicini dal fondersi finalmente in una sola cosa, durasse per tutta l’eternità.
Allora Désirée capì che cosa aveva provato, la luna, durante la sua prima eclissi.

Settembre, 1955. Parigi, Louvre.

Désirée era senza parole.
Continuò ad osservare il quadro, a lungo, senza riuscire a riprendersi dalla meraviglia.
Era tutto ritratto perfettamente, sin nei minimi dettagli: la linea degli alberi, gli intrichi dei rami, le fronde e i loro colori stupendi. Le pennellate erano decise, colme di colore, avevano un corpo che usciva dalla tela e si protendeva verso chiunque venisse ad ammirarne la bellezza.
Era colore, soltanto colore; Désirée stentava a credere che ci fosse stato un disegno, sotto quel capolavoro. Perché quel bosco era così, non era nulla di pianificato, era emozione allo stato puro. Era emozione che bruciava nel rosso e nel giallo delle sue foglie.
«E’ bellissimo, vero?» sussurrò Etienne, seduto accanto a lei, come lei a contemplare l’assoluta perfezione del dipinto. E pensare che era uno dei meno costosi del museo; un affronto, per come la pensava lui. «Questo quadro è anche tuo.»
La ragazza gli lanciò un’occhiata stupita.
«Mio?»
Etienne sorrise della sua tenera incredulità e le sfiorò le labbra con il pollice, prima di rispondere.
«Il pittore che lo ha dipinto lo fece perché ispirato da una mia composizione, “Goccia d’Autunno”. Lui è stato uno dei pochi – pochissimi – a leggere ciò che scrivevo.» tornò ad osservare il dipinto, sempre con quel suo sorriso affettuoso in volto. «Naturalmente, sai a chi ho pensato, mentre componevo quella poesia.»
A Désirée si strinse il cuore. Lo amava; anche troppo di quanto fosse consentito ad un uomo.
«Etienne.»
Lui si voltò a guardarla. Vedeva il terrore, nei suoi splendidi occhi verdi. Si sentì terribilmente in colpa, perché sapeva di esserne la causa.
Sospirò. Forse non doveva partire.
«Dovrei restare a Parigi.» mormorò infatti, dando voce ai propri pensieri.
Malgrado la paura continuasse ad attanagliarla, Désirée scosse la testa con convinzione.
«No. Tu hai talento, le tue poesie sono le più belle che abbia mai letto, tu sei nato per questo. Ed è terribile che il mondo ancora non conosca la tua bravura.» sentì le dita di lui sfiorarle dolcemente una guancia, e allora la voce le morì in gola. «Solo che l’America è lontana.»
«Ma non è senza linee telefoniche.»
Capì che stava tentando di fare ironia, e allora si costrinse a sorridere. Ma entrambi sapevano benissimo quanto fosse falso il suo sorriso.
«Stai attento.» fu tutto ciò che riuscì ad aggiungere.
«Non vado in guerra, Des.» le rispose, con dolcezza.
«Certo che no!» esclamò lei. Sapeva di non avere la forza della madre, non sarebbe riuscita a sopportare l’idea che l’uomo che amava rischiasse ogni giorno la propria vita.
In qualche modo, Etienne glielo lesse negli occhi, e la cinse in un abbraccio.
«Tu ti sottovaluti, Goccia d’Autunno.»
Chissà come mai, il nomignolo che aveva sempre amato le fece lo stesso effetto di una pugnalata al cuore, e si ritrovò scossa da singhiozzi silenziosi, sorretta dalle braccia forti di lui.
«Ehi.» mormorò, asciugandole le lacrime dal viso. «Ascolta. D’ora in poi, questa nicchia del Louvre sarà la nostra nicchia del Louvre. Tra un anno esatto, in questo stesso giorno, io tornerò a Parigi.»
Désirée continuava a guardarlo, affranta. Le sue parole sarebbero state straordinariamente romantiche, se non fossero risultate anche così struggenti. Troppo.
«Sarò sconfitto o vincitore. Ma tornerò. E tornerò qui, sarò proprio qui, a baciarti e raccontarti tutto del grande continente.» si guardarono negli occhi. Quelli castani di lui ardevano liquidi di una sincerità e una forza disarmanti. «Mi aspetterai?»
Désirée annuì.
Sì, l’avrebbe aspettato. L’avrebbe aspettato sempre.

Settembre, 1956. Parigi, Louvre.

Appena i portoni del museo si aprirono, lei schizzò dentro e si precipitò alla sua nicchia. Alla loro nicchia.
Si sedette, e cominciò ad aspettare.
Aspettò.
Aspettò.
Aspettò fino a sera.
La voce del guardiano le arrivò, sgradevole, alle orecchie. Lei lo guardò, ma nei suoi occhi non c’era traccia di emozione. Non c’era traccia di nulla.
Si alzò, e a passi lenti uscì dal museo.

Settembre, 1957. Parigi, Louvre.

Settembre, 1958. Parigi, Louvre.

Settembre, 1959. Parigi, Louvre.

Settembre, 1960. Parigi, Louvre.

Settembre, 1970. Parigi, Louvre.

Settembre, 1980. Parigi, Louvre.

Settembre, 1990. Parigi, Louvre.

Settembre, 2000. Parigi, Louvre.

Settembre, 2012. Parigi, Louvre.

E alla fine, era invecchiata.
Le rughe arrivarono impietose a segnarle il volto un tempo angelico, la pelle diafana divenne trasparente e il reticolato di vene sotto di essa affiorò, ben visibile. Le curve del suo corpo si deformarono, lo splendido colore dei suoi capelli sbiadì e divenne bianco, bianco come la neve che giungeva proprio con la morte dell’autunno.
Ma a lei del proprio aspetto non importava. A lei importava soltanto della promessa fattale da Etienne, il suo unico amore.
Non era più tornato.
E lei l’aveva sempre aspettato, era venuta lì, ogni anno, puntualissima, all’appuntamento.
Non aveva mai pianto.
La sua vita era andata avanti, normale, come se la sua brevissima storia d’amore fosse stato solo un sogno nostalgico, basato sui ricordi di un bambino con cui aveva condiviso solo dei giochi, una volta.
Soltanto in quei momenti d’attesa, davanti a quel quadro, poteva permettersi di riaprire la propria ferita, e lasciarsi invadere dal dolore, crogiolarsi in esso.
Ma non aveva mai pianto.
Solamente in quell’istante, mentre lo faceva, mentre lasciava che le lacrime scorressero copiose sulle proprie guance devastate dalla vecchiaia, capì che il suo piccolo sfogo l’aveva liberata. Si sentiva libera. Si sentiva felice.
Ed Etienne, quando si voltò, era seduto accanto a lei.
Non era cambiato, dall’ultima volta che l’aveva visto. Il petto ampio, le braccia forti ma delicate, gli occhi color cioccolato screziati di verde, affascinanti e magnetici, i capelli chiari che gli ricadevano sulle spalle arricciandosi su sé stessi.
Era rimasto tanto bello.
«Mi dispiace, Goccia d’Autunno. Non ho potuto farci nulla.»
Lei annuì, gli sorrise, tra le lacrime. Lui le prese una mano, e allora lei si accorse che il suo tocco era reale, lo sentiva come se fosse tornato per davvero.
«Non importa. Mi basta che tu ora sia qui. Io… non ho mai smesso di sperare.»
Si maledisse per la propria voce gracchiante, mentre quella di lui era ancora giovane, morbida e sicura.
L’anziana donna sospirò, e lo osservò negli occhi.
«E’ stato doloroso?»
Il poeta le sorrise dolcemente.
«Non me ne sono accorto.» spostò lo sguardo altrove, e il suo sorriso si spense, prima di ricominciare a parlare. «Ma quando ho realizzato, è stato terribile. Ti avevo fatto una promessa.»
Toccò a Désirée sorridergli per incoraggiarlo, ora.
«L’hai mantenuta.»
Lui si alzò, e le porse la propria mano. Il suo sorriso era raggiante, come se fosse il ritratto della pura felicità.
«Non importa di cos’è stato. Adesso, potremo stare insieme per sempre.»
Lo sguardo lattiginoso di lei si fece malinconico.
«Ma io… sono vecchia.»
Etienne rise, si avvicinò, le accarezzò dolcemente una guancia.
«Sei bellissima.»
L’aiutò ad alzarsi, lei poté rivolgergli il proprio sorriso, finalmente felice.
Lui le cinse delicatamente le spalle con le braccia, e posò dolcemente le labbra su quelle di lei.
All’improvviso, Désirée si ritrovò giovane: sottile, bellissima, persa nelle braccia del proprio cavaliere e nell’immenso amore del suo ultimo – eppure primo – bacio.
E i suoi capelli, i suoi capelli erano rossi come in vita non erano mai stati.


È morta di vecchiaia, diceva la gente quando si parlava di lei.
Ma è morta col sorriso, aggiungevano sempre tutti.






Ciò che dice l'Autore
Dunque dunque! Intanto, grazie per esservi soffermati a leggere la mia one shot ^^
L'ho scritta per un concorso, volevo che fosse dolce e semplice allo stesso tempo. Strano, perchè a me di solito vengono in mente sempre delle trame complicate (preferibilmente fantasy ^^), io e il semplice  siamo sempre stati due cose molto diverse (non sono mai riuscita a "sfronzolare" neanche il mio stile di scrittura), eppure con questa storia ho voluto provare qualcosa di differente. Ho voluto descrivere un amore normale, che sarebbe potuto crescere tra chiunque di noi, in quell'epoca come pure nella nostra, e regalargli una fine speciale.
Beh, di nuovo grazie a chiunque sia arrivato a leggere sin qui, e a chi mi ha dato la possibilità di scrivere di realtà e non di sogni - per una volta -
Un bacione!




































  
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