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Autore: ChiiCat92    05/08/2012    2 recensioni
"Ci si sente desolatamente soli nello Spazio".
Genere: Fantasy, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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18/02/2012

Dalla mia stanza si vedono solo stelle.
Larac mi ha detto che è normale avere un po' di nausea e sentirmi disorientata.
Non ho ancora avuto la forza di alzarmi dal letto per quanto mi gira la testa.
Con lo sguardo percorro l'Universo che si srotola all'infinito fin dove i miei occhi possono vedere.
A volte perdo il senso del tempo guardando quello spettacolo senza fine. A volte provo anche a contare tutti quei puntini luminosi che sfilano ordinati dinnanzi a me. Ma la navicella si muove e perdo sempre il conto a un milione. E prima che possa rendermene conto è già arrivata ora di cena. Larac bussa alla mia porta porgendomi il vassoio, con un sorriso forzatamente amichevole sulla bocca senza labbra.
Non ho ancora ben capito se gli piaccio o no, se si prende cura di me perché deve o perché in fondo ha a cuore la mia salute, se le sue parole di conforto sono suscitate da curiosità scientifica o da compassione.
Anche se non posso rispondere alle mie domande, Larac rimane la cosa più vicina ad un amico che io abbia qui su.
Ci si sente desolatamente soli nello spazio.
Quando mi sento meglio capita che riesca ad alzarmi e uscire dalla mia stanza. Anche se l'ambiente che mi circonda è un continuo di pareti bianche senza ornamento; messe a confronto con l'Universo non sono nulla, per questo preferisco starmene rintanata sul letto a guardare fuori dalla finestra.
Anche Arel si da fare affinché io non me ne rimanga sempre rintanata al tetro lucore delle stelle, raggomitolata sul letto come una degente. Continua a dirmi che non sono malata e che ormai i sintomi dovrebbero essere passati, per cui non ho motivo di restarmene a letto.
I sintomi però non sono passati per niente, e anche se lo fossero non vorrei comunque alzarmi, per questo spero che durino il più a lungo possibile.
Guardando le stelle posso immaginare le vite di tutti gli esseri viventi del cosmo, posso essere chiunque, dovunque, posso vivere e morire migliaia di volte, posso essere tutto tranne quello che non voglio essere: me stessa. E' un sollievo temporaneo che cancella dalla mia mente tutto il nero che mi acceca la vista. Non riesco a spiegare né a Larac né a Arel il peso enorme che mi preme il petto, il grosso meteorite che è precipitato tra i miei seni restando conficcato nella carne. La mia carne rosea, lattea, così diversa dalla loro.
Forse non riesco a spiegarlo perché loro non potrebbero capire. Quando ci provo sembrano tanto interessati da incoraggiare la mia voglia di comprensione, ma poi realizzo che stanno solo analizzandomi, e non ho più la capacità di continuare a tenere loro aperta la mia mente affinché possano entrarci e sondarla con la loro.
Hanno due menti così simili che a volte mi diventa difficile distinguerle, anche se è la prima cosa che mi hanno insegnato a fare: capire dove finisce la mia mente e dove comincia la loro. Nel loro mondo senza voce e senza parole, per sopravvivere è essenziale, altrimenti tutte quelle coscienze nella mia testa potrebbero uccidermi; sono stata messa in guardia più e più volte su questo.
Larac e Arel sono due menti asettiche, bianche come le pareti che mi stanno intorno, lisce, senza spigoli, avvallamenti, montagne da superare, piatte. Quando Larac ha provato a descrivermi la mia per come lui la vedeva, ho intravisto un enorme e confuso labirinto di svolte, curve pericolose, precipizi incredibilmente profondi, montagne altissime da non scorgerne la cima. Non si spiegano perché e non me lo spiego neanch'io.
Loro vogliono aiutarmi a sbrogliare la matassa della mia mente, farla tornare piatta come avrebbe dovuto sempre essere. E io ci provo, lo giuro, provo con tutta me stessa ad ascoltare i loro consigli, a fare mie le loro esperienze, a imitarli. Ma non ci riesco. C'è sempre qualcosa che intralcia il cammino. Per quanto possa stirare con cura le pieghe dei miei pensieri ce n'è sempre una che non si tende mai. Vi passo e ripasso sopra il ferro caldo dell'autocontrollo, e quando sembra sparita e vado oltre, con la coda dell'occhio vedo che è tornata a piegarsi, nello stesso identico punto.
Dovrei dormire di più e lasciare che il mio corpo riposi. Non riesco ancora a capire il ritmo biologico del sonno e della veglia. Vorrei non svegliarmi più e non dormire più allo stesso tempo. Non capisco come capire quando è il momento di fare cosa. Anche questo secondo Larac è tutta questione di abitudine: devo cercare di far diventare l'Universo la mia routine. Non è facile come loro pensano che sia, io non sembro fatta per vivere su una navicella. Ma non rispondono alle mie domande e ormai mi sono stufata di porgergliele.
Ora, sdraiata sul morbido materasso di silicone, raggomitolata in posizione fetale con le gambe ben strette al petto, continuo a contare le stelle. Sempre di nuove se ne aggiungono e ben presto i miei occhi non riusciranno più a distinguere le une dalle altre, ma non riesco a dormire e non saprei come altro far scorrere il tempo.
Un lieve bussare mi distoglie. Stavolta ho perso il conto a duemilioniquattrocentotre. Mi tiro su a sedere di controvoglia, un capogiro fa roteare per un attimo tutte le stelle. Sbatto forte gli occhi per riprendermi e quando la vista torna a fuoco Larac mi è davanti con il mo vassoio pieno di cibo che non vorrei mangiare.
Mi fissa con gli enormi occhi senza pupilla, neri com'è nero l'Universo. Le due fessure oblique che sono il suo naso vibrano appena seguendo il flusso d'aria che gli entra nel corpo sottilissimo. Non riesco ancora a capire come faccia a muoversi senza rompersi tutto. Ha le braccia tanto lunghe e le gambe tanto sottili da essere più della metà di un mio braccio e una mia gamba.
“Ti senti ancora male?”
Sento la sua voce nella mia testa. Anche se, come è stato lui stesso a spiegarmi, non ha una voce, è la mia mente che codifica i suoi pensieri in un modo che possa riconoscere come familiare.
“Un po'. Va e viene.”
Rispondo cortesemente. Lui annuisce e mi porge il vassoio.
Il cibo è l'unica cosa colorata su quella navicella. Ma solo quello destinato a me: il loro cibo è grigio, incolore e informe.
In un piatto una lunga fetta di carne tagliata a cubetti perfetti, verdure grigliate (verde scuro, rosse, viola, arancioni) anch'esse ridotta a cubetti; frutta con la buccia (gialla, rossa, verde pallido) a spicchi in un altro piatto.
Prendo il vassoio con riluttanza, meno di quella che trapelerà nella mente di Larac (almeno spero) e lo appoggio sulle gambe incrociate. A dispetto di come appare quel cibo non saprà di niente, già lo so, è tutto colore, tutto abbacinante colore che ferisce gli occhi, ma non sa mai di niente. Io continuo a sperare che un giorno cambi. Addento un cubetto di carne; non cambia mai.
Mi sono abituata a quel gusto-non-gusto, ma la mia mente continua a fare paragoni con oggetti invisibili nella mia memoria, cose che dovrebbero avere le stesse caratteristiche fisiche ma un gusto ben differente. Non riesco a capire da dove venga tutta questa confusione. Non c'è mai stato molto altro nella mia vita che quella navicella, quel cibo, quel letto, quello spettacolo fuori dalla finestra.
Da che ricordi ho sempre vissuto qui.
“Sei riuscita a dormire un po'?”
Non mi stupisce che Larac mi stia fissando con la solita espressione concentrata, né mi stupisce che io senta nella mia mente la sua coscienza che cerca di farsi largo nei miei pensieri. Potrei respingerla, potrei almeno provare a farlo, ma non ho nulla da nascondere né la voglia di farlo. Lo lascio passare nei miei pensieri così che possa cercarsi la risposta da solo; rispetta abbastanza l'intimità della mia mente per non leggere i pensieri che non dovrebbe e io so che non andrà oltre.
Sento il suo disappunto quando scopre che no, non ho dormito molto, neanche un'ora delle dieci che secondo lui dovrei passare a dormire.
Per convenzione ha diviso la mia vita in ore, ventiquattro ore, con sessanta minuti ciascuna e ciascun minuto con sessanta secondi. Mi ha insegnato i numeri e mi ha insegnato come fare a capire quel nuovo modo di definire la mia esistenza. A me non piace e non riesco neanche a farmelo entrare in testa. Larac insiste che dovrei, infatti ha montato nella mia stanza un segna-tempo con i numeri e le lancette che dovrebbero farmi capire quando è il momento di dormire e quando invece no. Puntualmente lo ignoro, e lui si arrabbia, anche se non è mai veramente arrabbiato con me.
“Devi dormire. Altrimenti non starai mai meglio.”
Continua lui. Nella mia mente la sua voce è così carina, anche se come tutto la sento piatta.
“Mi dici così sempre ma io non capisco. Tu non hai bisogno di dormire, perché io dovrei?”
Lui sospira (almeno credo che sia un sospiro).
“Quante volte devo ripetertelo ancora?”
Lo guardo di sottecchi, ha un tono di rimprovero.
“Dimmelo ancora una volta.”
“Sei un Essere Umano e il tuo organismo ha bisogno di dormire quanto di mangiare e bere, io sono un Grigio e non necessito delle stesse cose. Per questo il tuo cibo e la tua acqua sono diversi e per questo non ho bisogno di dormire.”
Sbuffo.
Sì, un Essere Umano.
Ma cos'è un Essere Umano ancora non l'ho capito.
Ce ne sono altri come me. Non che io li frequenti molto. Sono tutti tremendamente piatti, come Larac e Arel, come tutti gli altri Grigi. Io devo essere l'ultima arrivata.
Vorrei avere anch'io la loro calma, la loro pace, la loro espressione tranquilla. I miei occhi brillano ancora.
“Hoffen.”
Mi riprende Larac. Involontariamente devo averlo inondato con i miei pensieri molesti.
“Scusa.”
Prendo un respiro profondo e spingo giù, giù, tutti i brutti pensieri, tutto il tumulto che mi agita dentro, e per un attimo raggiungo la piattezza che tanto desidero. Solo per un attimo. L'attimo giusto perché Larac esca dalla mia mente e dalla mia stanza lasciandomi sola con il vassoio colmo di cibo.
Quando la porta scorre sui suoi cardini invisibili dietro le minuscole spalle di Larac mi affretto a poggiare il vassoio sul pavimento e a tornare sul letto.
Quindi ricomincio la conta delle stelle.
Uno, due, tre, quattro, cinque...

*

I pensieri di Larac sono tranquillamente agitati e incuriositi.
“Il trattamento non sembra funzionare.”
Comunica telepaticamente a chiunque sia in ascolto.
Arel lo raggiunge a larghe falcate. D'altronde sono loro i due supervisori della ragazza.
“Ho letto ancora i suoi ricordi. Non riesco a capire la fonte del suo sconvolgimento. C'è qualcosa che non riesce a dimenticare, anche se ormai abbiamo cancellato ogni traccia di memoria umana.”
“Pensi che sia quello che stiamo cercando?”
I due si guardano con intensità, scambiandosi sensazioni e pensieri. I loro enormi occhi vacui senza pupilla sembrano per un attimo agitarsi di una qualche strana emozione.
“Dobbiamo trovare la fonte del suo sconvolgimento.”
Riprende Larac con calma.
“Intendi eliminare quella fonte una volta trovata?”
“No.” Larac fissa la porta della stanza di Hoffen “No, non eliminarla. Vi deve entrare in contatto. Voglio vedere cosa succederà.”
Arel in risposta annuisce soltanto.

*

Quella sera la strana sensazione di essere osservato non vuole abbandonarlo.
Si sente puntati addosso occhi invisibili che non riesce a vedere nell'oscurità. Non si spiega neanche lui come, in tutto quel buio, qualcuno possa riuscire a vederlo.
Eppure non si può togliere di dosso l'idea che qualcuno lo stia seguendo.
Si guarda intorno, spaventato ma troppo orgoglioso per ammetterlo. La strada è deserta come l'ultima volta che ha guardato. Ma non ne era poi tanto certo. E se il suo inseguitore misterioso si è nascosto dietro quell'angolo? O dietro quella macchina? E perché non dentro quel bar aperto fino a tardi, giusto per non farsi vedere da lui?
Poteva essere. Quante volte gli era toccato sfuggire a un mucchio di fotografi impazziti!
Anche se adesso la sensazione che prova non è per niente gradevole. La presenza che lo segue è sfuggente quasi come uno spettro, e lui non ci tiene molto all'idea di vedersi spuntare davanti agli occhi uno spettro. No, proprio no.
Di colpo si ritrova a camminare a passo sostenuto (molto più vicino ad una corsa che altro).
Perché gli era venuta in mente la felice idea di passare una serata diversa?
Doveva starsene a casa come tutte le sere, a guardare la tv come uno zombie decelebrato, ordinare una pizza magari, bere una birra e fumarsi qualche sigaretta.
Una cosa tranquillissima. Una cosa normalissima.
No, quella sera aveva voluto andare a farsi una passeggiata. Solo tra l'altro. E aveva perso il film delle 18, quindi aveva comprato il biglietto delle 20 e 30. E dopo il cinema, non contento, si era anche andato a prendere il gelato. Poi aveva flirtato con una ragazza (abbastanza carina da offrirle il gelato) e ci era andato a letto.
Si era reso conto che fosse tardi solo quando aveva lanciato uno sguardo alla sveglia sul comodino della ragazza e aveva visto che erano le tre del mattino.
Era saltato su come una molla e si era rivestito in fretta e furia per tornarsene a casa.
Come se non potesse bastare, aveva perso le chiavi della macchina (chissà dove, chissà quando, forse al cinema quando gli era caduta la giacca dove erano infilate, forse quando si era spogliato in preda dell'eccitazione a casa della ragazza) e quindi aveva dovuto cominciare a camminare.
Fortuna per lui almeno non piove. Anche se il vento gli sferza in faccia aria gelida mista a goccioline.
Sbuffa e alza il colletto della giacca, senza dimenticarsi di lanciare l'ennesimo sguardo dietro le sue spalle per vedere se riuscirà a beccare in fallo l'inseguitore.
Magari si sta solo facendo delle turbe mentali inutili.
Ma perché era uscito solo come un cane? Con la compagnia nervosa di suo fratello almeno non si sarebbe sentito così vulnerabile.
Ah già, con quel cretino ci aveva litigato. Per questo si era lanciato nella città alla ricerca di qualcosa che lo distogliesse dall'andare lì e spaccargli la faccia con un pugno, o più d'uno.
Quindi, in sintesi, se gli succedeva qualcosa avrebbero detto che era colpa sua.
Scaricare la colpa su suo fratello oltre che inutile è stupido, e lui se ne rende conto, ma per un attimo riesce a tranquillizzarsi, come se immergersi nella normalità lo allontanasse dalla paura reale che sente pulsare dietro la nuca.
“Ho bevuto troppo” si dice come scusa “ho bevuto troppo e quel cavolo di film non mi ha aiutato di certo.”
Tra i tanti bellissimi titoli che poteva scegliere giusto giusto “Non avere paura del buio”  aveva scelto. Come dire che gli avevano dato la corda per impiccarsi e lui aveva fatto tutto il resto.
“Stupido cretino che non sei altro.” continua a dirsi, ripetendoselo come una nenia che potrebbe salvarlo dalla perdizione.
S'infila le mani ghiacciate in tasca. Ormai mancano poche traverse.
Dovrà provvedere a trovare delle chiavi di riserva per la sua bambina. E' quasi certo di aver visto delle chiavi nel cassetto all'ingresso. Non è certo che siano della sua macchina, ma quanto meno l'idea mentale di dove andare adesso ce l'ha.
Uno strano fruscio lo costringe a voltarsi ancora, ma gli sembra che sia la prima volta. Il cuore gli arriva in gola per quanto lo spavento gliel'ha sparato in corsa nel petto.
Ma non c'è niente, non c'è proprio niente.
“Stupido o no” pensa “Io ora corro.” e lo fa davvero. Comincia a correre come un disperato per arrivare alla porta di casa il più velocemente possibile.
Però alla porta di casa non ci arriverà mai.

*

Ancora una volta dovrei dormire e invece me ne sto a oziare sul letto. Ho perso il conto  e la voglia di continuare a contare, per cui fisso i puntini colorati cercando di dargli un senso, tracciando linee immaginarie fino a creare delle figure.
Per un attimo mi sembra di scorgere un volto. Strizzo forte gli occhi e i puntini tornarono a essere puntini. Che strano.
Sospiro e mi alzo. La testa mi gira ancora, ma non come all'inizio; ormai non posso avere più scuse per starmene chiusa in stanza.
Mi avvicino alla porta e la apro. Il bianco abbacinante dell'interno della navicella mi sconvolge gli occhi. Li strofino con forza con il dorso delle mani finché non riesco a mettere a fuoco il mio piccolo mondo.
Altri Umani passeggiano con lo sguardo vacuo nei corridoi. Hanno tutti un bel sorriso di pace stampato sulle labbra. Non parlano, ma sento agli angoli della mente le loro discussioni interiori. Niente di interessante a dire il vero, per cui non sto a sentirle.
Le gambe mi tremano ma faccio finta di niente e passeggio fingendo una tranquillità che non ho.
Non ho voglia di mangiare, non quello che mi portano su quel vassoio, né di dormire, non riesco a prendere sonno. C'è sempre qualcosa che non va nel mio letto. Anche se a prima vista è così comodo da volerci rimanere per sempre, quando ho intenzione di dormire sembra ricoprirsi di spilli appuntiti.
Andarmene in giro non è molto stimolante, ma almeno mi allontana dalla visione monotona dello spazio.
I due Grigi custodi degli Umani li seguono come ombre. Sono sicura che se mi voltassi vedrei Larac e Arel dietro di me. Non cerco neanche la loro presenza con la mente, so già che ci sono.
Stanno sempre a osservarmi, di nascosto, da lontano, da vicino, pubblicamente: sempre. Anche quando penso che non ci sono prima o poi sbucano fuori, come per dirmi “non puoi scappare”.
E poi, dov'è che dovrei scappare e perché? Qui sto rincorrendo la pace eterna.
I Grigi sono esseri caritatevoli. Non so da cosa mi abbiano salvato, ma se non ne serbo memoria deve essere qualcosa di terribile.
Sono contenta di essere qui e non lì, ovunque ci sia il motivo per cui non riesco a trovare la mia pace, la mia serenità.
Scorgo nei volti degli altri Umani qualcosa che credo non riuscirò mai ad avere.
Di colpo le gambe, già instabili, non reggono più il mio peso e cado a terra.
Due braccia lunghe, sottili, dalla lucente pelle grigio scuro, mi afferrano.
“Ti avevo detto che dovevi riposare.”
Mi rimprovera la voce mentale di Larac, ed io mi lascio andare a lui, che sono sicura mi sosterrà come mi serve.
In un battito di ciglia mi ritrovo stretta al suo petto. Come fa a sostenermi se non so come sostiene se stesso? Con quelle piccole gambe esili e lunghe come fili!
Percorre i corridoi con una fretta pacata, fin alla mia stanza.
La porta si spalanca in silenzio.
Mi depone sul letto facendo attenzione, come se avesse paura del mio corpo, della sua fragilità. Che strano, è la stessa cosa che penso io del suo.
Mi appoggia la testa sul cuscino. La sua grande mano con tre dita si appoggia sul mio viso e mi costringe a chiudere gli occhi.
“Dormi. Non obbligarmi a farlo.”
E so che lo farà se gliene darò l'occasione. Entrerà nella mia testa e la obbligherà a spegnersi con la forza, così da farmi crollare in un forzato sonno vigile e nervoso. Sarebbe stato meglio se mi fossi addormentata da sola piuttosto.
Cerco di rilassarmi respirando piano e prima che riesca a rendermene conto il sonno ha la meglio.

*

Quando riesce ad aprire gli occhi il panico che gli attanaglia il petto non gli lascia neanche la lucidità necessaria per mettersi a urlare. Anzi, qualcosa gli dice che è meglio se si sigilla le labbra.
Non riesce a muovere un muscolo che sia uno, tranne gli occhi: quelli non fanno altro che correre tutto intorno alla ricerca di qualche indizio.
Non ha neanche sentito l'inseguitore quando l'ha aggredito, è stato spaventosamente silenzioso.
Sbatte forte gli occhi ma la luce abbacinante, asettica e bianca che lo avvolge non gli permette comunque di vedere niente.
Vorrebbe avere la forza di non pensare di trovarsi in pericolo e, magari, in punto di essere fatto a pezzi da qualche maniaco, ma non ci riesce.
Un corpo sottile si mette tra lui e la luce.
Socchiude appena gli occhi per mettere a fuoco l'immagine.
Finalmente riesce a urlare. Un urlo gutturale e spaventoso che gli esce direttamente dall'anima.
La paura folle che l'ha preso non vuole accettare che quello che ha davanti è un alieno. Un alieno bello e buono, come quelli che si vedono nei film, in tutto e per tutto identico a quello che nel suo immaginario era l'alieno tipo.
“Non ho intenzione di farti del male, non avere paura.”
La voce che sente nella testa gli comunica una pace, una calma, una tranquillità che sembrano un balsamo per la paura cieca che lo fa impazzire. Non vorrebbe abbandonarsi ma è un porto sicuro a cui approdare, la sua unica ancora di salvezza, non può fare finta di niente e lasciarsi affogare.
L'essere davanti a lui ha un aspetto meno minaccioso di quello che si sarebbe aspettato. A parte le misure sproporzionate del suo corpo si direbbe anche carino, per essere un alieno certo. Gli ricorda uno di quei pupazzi con la testa mobile che si mettono in macchina. Quasi quasi riesce anche a sorridere.
Dovrebbe rendersi conto che è l'alieno a manipolare la sua mente per tranquillizzarlo, ma per ovvie ragioni non può.
- Chi sei? Che cosa vuoi da me? -
Chiede con voce sottile, sembrerebbe quasi che abbia paura di rompere il delicato equilibrio che tiene l'essere a una distanza sopportabile da lui.
Non potrebbe dirlo ma sembra che l'alieno gli sorrida. La sua bocca senza labbra si tende all'insù in una strana espressione. I suoi occhi, grandi come piatti da portata, riflettono l'immagine di lui steso su quello che sembra essere il lettino di una sala operatoria.
E' tutto troppo come un film per fargli credere che gli stia succedendo davvero. Si metterebbe volentieri a ridere per l'assurdità del momento. Quante volte facendo zapping aveva visto servizi di persone che dicevano di essere state rapite dagli alieni e quante volte lui ci aveva riso sopra e aveva detto “cazzate!” cambiando all'istante canale. Forse era la paura di immaginare che ci fosse un fondo di verità che lo spingeva ad allontanare dalla mente l'eventualità che potesse davvero succedere una cosa del genere.
“Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Sembra che tu sia l'unico che possa farlo.”
- Cosa? Cosa devo fare? -
Ma l'alieno non risponde. Lo osserva, lo scruta. Anche se i suoi occhi non hanno pupille lui sa che si muovono famelici sul suo corpo.
Lo tocca con le lunghe mani con tre dita. Sente il freddo della sua carne grigia e in gola gli sale un conato di vomito che subito reprime sigillando le labbra.
Ora si accorge di essere vergognosamente nudo, steso su quel lettino, come un corpo morto in un obitorio.
Ha come l'impressione che ben presto l'essere tirerà fuori un bisturi e comincerà a farlo a pezzi senza neanche preoccuparsi di non fargli provare dolore. Vedrà il suo sangue rosso fuoco scorrere in quell'ambiente bianco e forse, quando il dolore sarà tanto atroce da non riuscire neanche a respirare,  sverrà e si risveglierà steso a terra sull'asfalto della strada dove è stato rapito, sanguinante e in punto di morte. O forse non si sveglierà proprio.
La prospettiva lo terrorizza, ma quella calma irreale che gli è scesa nella mente non gli permette di scatenare l'adrenalina nel sangue che gli darebbe forse la forza di tentare la fuga.
Sente dita fredde che gli toccano i pensieri. Non saprebbe neanche come descrivere quella sensazione, ma è come se qualcuno stesse tentando di violare il suo più intimo rifugio. Si sente quasi violentato e automaticamente, senza che lui possa controllarlo, la sua mente reagisce e si chiude ad ogni tentativo di effrazione.
L'alieno sembra accigliato. Forse non si aspettava che lui reagisse, non si aspettava neanche lui di reagire.
Ma la forza dell'essere è ben più forte della sua e la sua barriera viene infranta come niente.
Tutto il suo essere, messo ora completamente a nudo, viene toccato da quelle mani fredde, da quei tentacoli di pensiero piatto che strisciano e scrutano ogni parte della sua mente.
Suda freddo e ha il respiro pesante. Stringe i denti per il dolore mentale che lo acceca. Non avrebbe mai pensato che ci potesse essere un dolore più forte del dolore fisico.
Di colpo, così come sono entrati, i tentacoli escono dalla sua coscienza, lasciandolo solo e tremante.
“Puoi aiutarci. Sei tu quello che cerchiamo.”
- Dimmi cosa devo fare. - boccheggia lui, quasi supplicando, magari se lo accontenterà lo lasceranno vivo - Dimmi cosa devo fare e farò il possibile. -
“Sarebbe inutile se te lo dicessi.”
- Perché? - chiede; comincia a sentirsi in ansia. L'alieno non gli risponde, continua a osservarlo con attenzione, squadrando ogni parte del suo corpo. - Perché? -
Ripete, stavolta urlando.
L'essere fissa gli occhi nei suoi, e lui vede riflesso il suo viso terrorizzato. Pallido, scavato, gli occhi sgranati all'inverosimile. Non sembra neanche lui. Non si riconosce.
“Perché non ne serberai memoria.”
- No. - supplica. L'alieno gli poggia un lungo dito sulla fronte. - No ti prego, lasciami andare. - senza accorgersene due calde lacrime cominciano a scendergli dagli occhi castani. Il punto dove l'alieno ha poggiato il dito comincia a diventare caldo; nella sua mente i pensieri prendono a vorticare in un carosello impazzito. - Ti prego, ti prego, ti prego. - ripete all'infinito. Ma la sua preghiera non viene ascoltata, né neanche presa in considerazione.
A uno a uno tutti i suoi ricordi vengono rimossi dalla sua mente. Lui vede la sua vita sfilargli davanti agli occhi e poi sparire. Piange la perdita per un lungo istante prima di dimenticare il perché di quel pianto. E per ogni ricordo è lo stesso: lo osserva sparire, si dispera, soffre, vorrebbe urlare, poi dimentica il motivo di tutta quella sofferenza.
Quando anche l'ultimo ricordo è stato estratto dalla sua memoria la sua mente non è altro che una tabula rasa, bianca come quella stanza, bianca come quando è nato. Ed esattamente come quando è nato comincia a piangere, squarciando il silenzio.

*

Passeggio nei corridoi. Finalmente non mi gira più la testa e sono abbastanza forte per potermene andare in giro senza che Larac o Arel mi soccorrano.
E' una bella sensazione potersi di nuovo muoversi in autonomia.
La navicella è anche più grande di quanto pensassi. Ci sono corridoi e corridoi, e Umani e Umani, tantissimi Umani, davvero tantissimi. Alcuni sono più disorientati di altri, alcuni invece sembrano più vicini ai Grigi che agli Umani: hanno raggiunto la pace che cercavano, come li invidio.
Provo a infilarmi nelle loro silenziose discussioni mentali. Ma la maggior parte, vedendo il tormento della mia mente, mi ignorano o mi escludono. Poco male, non che avessi davvero voglia di sentire cosa hanno da dire.
Meno confusione c'è nella mia mente meglio è.
Tutti fuggono da me perché io non ho il controllo di me stessa. Quello che ho dentro li spaventa. E non capisco perché.
Stranamente Arel e Larac non mi sono dietro. Non sento neanche la loro presenza, chissà dove sono andati a cacciarsi.
Mi stringo nelle spalle. Non m'importa.
Nella grande piazza centrale con la cupola a vetri ci sono un sacco di posti dove sedersi per vedere lo spazio. Magari potrei sedermi lì e ammirare l'universo. Non c'è molto altro che io voglia fare.
Mi avvio a passi lenti, godendomi la monotona vista delle persone che mi circondano. Hanno tutti una faccia così piatta.
C'è qualcosa nell'aria oggi. Mi giro a destra e a sinistra, ma non vedo nulla di diverso rispetto al normale. Ma io lo sento. C'è...c'è qualcosa, c'è davvero qualcosa.
Seguo la mia sensazione. La sento pulsare agli angoli della mia mente. E' una coscienza che vuole entrare in contatto con la mia? Non lo capisco, ma voglio scoprirlo.
Sento il cuore che ho nel petto battere fortissimo. Mi fermo un attimo ad ascoltarlo. Non l'avevo mai sentito così. Poggio una mano sul petto e lo sento scoppiettare sotto le dita. Che cosa strana.
Quella piccola luce nella mia mente continua a richiamare la mia attenzione. Riprendo a camminare con l'ansia crescente di non riuscire a trovarla in mezzo a quella folla di pensieri che mi inondano la mente.
Ho dovuto aprire la mia percezione, altrimenti non potrei intercettarla, è così debole che potrei perderla. E i pensieri fin ora ignorati di tutti gli Umani che mi circondano mi attanagliano la mente e rischiano di farmi crollare a terra.
Strizzo gli occhi, abbacinata da tanti inutili pensieri, e cerco di scorgere in quel tumulto la piccola luce. Mi attira a sé e io non posso ignorarla.
Senza accorgermene mi ritrovo davanti alla porta di una stanza, una delle tante stanze, una stanza qualunque. Ma la luce è lì dentro, lo sento, lo so.
Mi faccio avanti. La privacy esiste ormai solo nelle menti.
Quattro mura bianche, una finestra sull'infinito, e un Umano seduto sul letto ad osservarmi.
Quasi mi sconvolge l'idea che la luce nella mia mente sia lui. La sua coscienza brilla vivida, irriverente, mette tutti i suoi pensieri alla berlina come se non gliene importasse niente. È un fiume di sensazioni quello che mi invade quando sondo quella mente, tale e quale a quello che nessuno riesce a sopportare in me. Lui è l'incarnazione vivente della piega che non riesco a stirare.
Scuoto la testa e cerco di bloccare il flusso di pensiero.
“Ciao.”
Gli dico, impaziente di sentire se anche la sua voce mentale è come lui: imprevedibile.
- Ciao. -
Mi risponde con la sua voce umana.
Rimango un attimo a fissarlo. Perché mai dovrebbe rispondermi con la sua voce umana?
Il pensiero deve essergli arrivato perché mi fissa di rimando.
- Non ho ancora imparato a comunicare con la mente. -
Confusa congiungo le sopracciglia. Impossibile che non abbia imparato.
“Da dove vieni? Non ti ho mai visto prima.”
Sento il bisogno impellente di saperlo. Sento che le parole che mi dirà potrebbero cambiarmi se solo mi dicesse quello che voglio sentirmi dire.
Lui si stringe nelle spalle.
Ho come la sensazione che lui vorrebbe cercare qualcosa dentro la sua mente per rispondere alla mia domanda, qualcosa che però non c'è.
Si sforza, si mordicchia le labbra, sento i suoi pensieri ingarbugliati e confusi attorcigliarsi ancora di più, quasi qualcuno avesse stretto il nodo portante rendendoli una matassa irrisolvibile.
- Da una navicella gemella dei Grigi. -
Dice alla fine, sconfitto nel suo tentativo di mettere ordine.
Sento tutta la sua incertezza, sento le sue strane sensazioni, le sento come se fossero le mie. E mi stordiscono.
Sento la testa pesante mentre quello strano umano ripassa furioso tutti i suoi ricordi. Li rivedo nella mia mente come se li stessero proiettando. Vedo lui che vive la sua normalissima vita con i Grigi, vedo il modo in cui il suo male interiore gli impedisce di essere come loro, e vedo la decisione dei suoi custodi di mandarlo su un'altra navicella per provare a migliorarlo, farlo diventare come tutti noi dovremmo essere. Allora è così che è finito qui. Anche lui non è riuscito a distendere le pieghe dei suoi pensieri.
Mi sento vicina a lui e nello stesso tempo lontana. Ha qualcosa nel suo modo di risplendere nella mia coscienza che mi ricorda una piccola stella pulsante. Nel suo essere c'è una nota familiare, un sogno dimenticato, un ricordo sbiadito, una sensazione che non conosco eppure dovrei conoscere.
Mi rendo conto che la piega nella mia mente, quella che sola e unica m'impedisce di raggiungere la mia serenità, si sta intensificando. Cresce come un'onda, si raggrinza, s'ingigantisce. Prima di venirne sopraffatta chiudo ermeticamente la mia mente.
Ritirata nel silenzio di me stessa capisco quanto quella luce mi abbia turbata.
Gli do le spalle ed esco dalla stanza senza aggiungere una parola. Fino all'ultimo, fino a che non ho voltato l'angolo, ho quasi l'impressione che i suoi occhi mi stiano seguendo, e fino all'ultimo ho evitato di correre. Ma adesso, lontano dal suo sguardo, le mie gambe di muovono da sole in una corsa sfrenata verso l'unico mio rifugio sicuro: neanche la mia mente lo è più.

Sono giorni che non esco dalla mia stanza.
Non ho la forza né la voglia.
Finalmente riesco a dormire.
Ultimamente ho trovato che dormire sia più dolce del solito. E' come se per un attimo possa avere la pace tanto a lungo desiderata.
Come si conta il tempo nello spazio? Da quanto tempo sono qui? Da sempre, da tutta la mia vita. Perché solo adesso mi sembra di essere nel posto sbagliato?
No, sono pensieri che non si reggono in piedi. Io sono esattamente dove dovrei stare. Se sto così male è solo colpa mia. Se facessi come dicono Arel e Larac, se riuscissi a seguire i loro consigli, allora non dovrei fuggire, non dovrei rinchiudermi in me stessa, nelle quattro mura che mi nascondono al mondo.
Non so come definire questa sensazione, ma so che non mi permette di alzarmi, uscire, camminare per i corridoi. Adesso non è più qualcosa di fisico, no, non è il mio corpo a ribellarsi, è la mia coscienza. Qualcosa si muove sul fondo e quel qualcosa non mi piace.
Non ho parole per descriverle, ma mozza il fiato, lascia attoniti.
Cos'è? Perché non riesco a scacciarla?
Se lascio entrare qualcuno so che sentirò ai bordi della mia percezione quella luce. La luce di quell'Umano. Esattamente uguale a tutti gli altri Umani su questa nave. Esattamente identico a tutti gli altri Umani che io abbia incontrato fin ora.
Non mi accorgo che Arel è entrato nella mia stanza. Sento appena la sua presenza e solo perché si è prepotentemente imposto di entrare nella mia mente.
Vorrei scacciarlo ma non ce la faccio. Sento la sua voce pressante, distruggermi i timpani, anche se non fisicamente.
Non usa parole, usa sensazioni. E io non riesco a stargli dietro. E' confusione su confusione.
Non gli sta bene che io stia ancora chiusa nella mia stanza. Non gli sta bene, non dopo tutto quello che ha fatto per me. Come penso di poter guarire se ignoro la cura che mi hanno dato da fare? Se non mi confronto con il mondo, se non lo affronto?
Ma io non voglio affrontarlo. Non c'è niente di bello là fuori, niente che mi possa aiutare a portare via dalla mia mente le pieghe che mi rendono difficile vivere.
Perché Arel non capisce? Dovrebbe capire meglio di chiunque altro. E' dentro la mia mente, mi conosce da sempre, perché non mi capisce?
La sua sfuriata scema quando si rende conto che lacrime gocciolano dai miei occhi.
Mi tocco sconvolta il viso, assaporando la sensazione liquida delle lacrime sulle dita. Non ho mai versato lacrime, almeno è molto che non verso lacrime.  
Quando è stata l'ultima volta? E' strano che non riesca a ricordarlo. Provo a cercare quel ricordo nella mia mente ma trovo solo del vuoto e della nebbia.
I Grigi mi hanno resa in grado di conoscere e sfruttare ogni angolo della mia mente, di non perdere nessuna informazione racchiusa nei miei neuroni, di avere tutto a portata di mano. Ma perché non riesco a trovare il ricordo dell'ultima volta che ho pianto? E' mai possibile che in tutta la mia vita non sia mai successo?
Sento l'allarme della coscienza di Arel giusto un momento prima che si ritragga nel suo muro di cristallo escludendomi completamente.
Per la prima volta lo guardo per come è realmente. Senza i suoi pensieri calmi e tranquilli nella mia mente mi appare come una creatura minacciosa, troppo alta, troppo snella, con gli arti troppo lunghi, gli occhi troppo grandi.
Lo stomaco si stringe e il cuore galoppa ancora.
Tutte queste sensazioni fisiche mi stupiscono e non aiutano la mia confusione.
Con la mente aperta, annaspante alla ricerca di un riparo, capto ancora la luce, la luce della coscienza di quell'umano.
Non sono in grado di chiudermi ad essa e rimango immobile. Lo stomaco stretto, il cuore che ancora batte forte, le braccia attorcigliate intorno al petto, Arel che continua a fissarmi come se da un momento all'altro dovesse farmi qualcosa di male.
Di colpo, come un flash, un grande flash che mi abbaglia la vista, so cosa sto provando: paura.
E' paura. Cos'è la paura? E' questo, è questa la paura, non la senti? Lo sento, la sento.
Tremo, tremo, terrorizzata.
Arel fa in fretta a sciogliersi dalla sua rigidità mentale e a invadermi con una tranquilla onda di pensiero bianco.
Fingo di essere calma, fingo perché lo voglio fuori dalla mia mente, lo voglio lontano, lontano, lontano.
Lui non vuole capirmi, non cerca di capirmi. Lui cerca di cambiarmi. Perché? Ho paura. La luce brilla in un angolo della mia mente.

*

E' notte. È sempre notte. Odio che sia sempre notte. Non so perché lo odio. Non so cosa sia l'odio.
Corro, ormai corro sempre. Corro sempre via quando Arel e Larac non ci sono. Corro sempre via dal loro controllo quando posso. Mi stringono, mi stritolano, sempre più; fanno domande a cui non so rispondere. Non so più che cosa sento, non so perché tutto questo mi sconvolga.
Adesso loro non ci sono, e io so dove devo andare.
Mi affaccio dalla porta della stanza guardandomi intorno, come se avessi paura, e in fondo è quello che provo.
Da quando ho scoperto cosa sia la paura non c'è momento della mia giornata in cui non la provo. Oscilla da panico puro a senso d'oppressione, ma non mi abbandona mai.
Mai, o quasi.
Esco dalla stanza, e corro, ancora, di nuovo. I corridoio lunghi e bianchi sembrano budelli di un labirinto senza uscita.
Ma l'uscita c'è, e io so dov'è, la sento.
Svolto l'angolo, seguo il filo sottile che mi conduce fino alla sua porta.
A un passo di distanza mi fermo. Sarebbe facile spalancarla e entrare. Ma non riesco. Non ci riesco mai.
So che la mia luce è appena oltre quella porta, ma non posso raggiungerla, è me stessa che me lo impedisce. Eppure per il momento mi basta. Rimango lì, sento la sua presenza, e mi basta. È un balsamo per la mia paura, per la paura per il mondo che mi opprime.
Mi avvicino alla porta, questa volta sono sicura che riuscirò ad entrare. Invece mi fermo, appoggio la fronte sulla superficie bianca e socchiudo gli occhi.
Incredibilmente mi basta così. Davvero, mi basta così.
Devo convincere me stessa che sia sufficiente.
Sospiro e faccio retrofront. Posso affrontare ancora un altro giorno, magari domani andrà meglio, domani avrò la forza. Adesso non mi sento ancora pronta.
Non ho fatto neanche un paio di passi che mi sento afferrare un braccio. La morsa è fredda, gelida, e forte, un artiglio che mi stringe prepotentemente. Ecco la paura che s'insinua di nuovo nella mia mente, chiusa ad ogni contatto esterno per evitare intrusioni non desiderate.
Ma i miei occhi incrociano ben presto quelli castani dell'umano.
La paura si scioglie nel mio stomaco come se non fosse mai esistita, sento di nuovo il cuore battere, la testa leggera, è una sensazione che mi mette in subbuglio. Perdo il controllo della mia mente e la sua luce mi riempie, mi stordisce.
Anche se non dice niente la sua coscienza è dentro di me e io posso vederla come lui può vedere la mia.
Non capisco cosa voglia da me ma spero che abbia bisogno della mia presenza abbastanza a lungo da curarmi.
“Scusami. Adesso me ne vado.” mi affretto a comunicargli, lui però non mi lascia andare il braccio. Il dolore che sento è stranamente piacevole.
Mi trascina dentro la sua stanza, vedo la porta chiudersi alle mie spalle e per un attimo ho l'impressione che sia tutto il mondo a rimanere fuori, tutto l'universo con tutte le sue stelle.
Ci sediamo sul letto, senza dire o pensare nulla. Le nostre sensazioni fluiscono le une dentro le altre dandomi l'impressione di non essere più me stessa. Mi sto perdendo dentro di lui, dovrei fare in modo che tutto questo finisca in fretta prima che mi distrugga.
Mi ritraggo dalla sua presa e stringo le braccia al petto.
Come la prima volta lui non sembra intenzionato a parlarmi, rimane lì con i suoi pensieri riversati nella mia mente ora fissandomi ora guardando altrove.
Chi è? Che vuole da me?
- Io sono Tom. Come ti chiami tu? -
Chiede all'improvviso. Sembra una cosa così semplice a cui rispondere, ma non credo di esserne più in grado. Cos'è un nome?
“Hoffen.” il mio pensiero è debole. Lui scuote la testa.
- Vorrei sentirlo con la tua voce. -
Non so se ho una voce. Non l'ho mai usata, ho sempre comunicato con la forza dei miei pensieri.
Spalanco la bocca. Desidero con tutta me stessa accontentarlo. Desidero che lui abbia ciò che vuole, tutto ciò che vuole.
Esce un sussurro, appena accennato. Scuoto la testa e riprovo. Ma niente. Non ho davvero una voce.
Sigillo le labbra, imbarazzata, abbassando il capo.
Più sto con lui più sento nascere in me emozioni che non avevo mai provato.
Imbarazzo. Dopo la paura, è la prima cosa che sento.
Imbarazzo, perché non sono alla sua altezza. Non sono niente, non sono in grado di dargli ciò che chiede. Imbarazzo perché nella mia imperfezione non posso essere perfetta. E lui tutto questo lo sa. Lo sente, glielo comunico io stessa. E non fa altro che mettermi più in imbarazzo. Non so come fermarlo, non so come fermarmi.
Lui mi tira su il capo con due dita. Il suo tocco è caldo, rassicurante, non come quello gelido e duro dei Grigi. Sento quasi il pallido battere del suo cuore sotto la pelle rosea.
Mi fissa, con quegli occhioni castani, perplessi, curiosi. Non la curiosità scientifica di Arel e Larac. E' qualcos'altro che non so identificare. Da quello che sento attraverso i suoi pensieri, neanche lui sa cosa sia.
- Dai, prova ancora una volta. -
Mi incita con la sua calda voce, e con i suoi effervescenti pensieri.
Non posso deluderlo. Non posso proprio. Mi strazierebbe.
Prendo un respiro e apro ancora la bocca. Stavolta l'aria sembra trovare la giusta strada nella mia gola perché dalle mie labbra appena schiuse esce una sola parola:
- Hoffen. -  la mia voce sembra strana anche a me, sembra non appartenermi - Io...mi chiamo Hoffen. Hoffen. - eppure mi appartiene, c'è sempre stata, mi appartiene come una gamba o un braccio, è solo mia, e posso usarla, so usarla.
Lui continua a fissarmi. Tom, ha detto che si chiama Tom, continua a fissarmi. Stavolta ha qualcosa di strano negli occhi. Sembra il leggero brillare di una stella lontana, qualcosa che luccica agli angoli della visuale e che non si può mettere bene a fuoco. Cerco di capire cosa sia sporgendomi verso di lui.
Non mi accorgo di avere le mani poggiate sulle sue larghe spalle e il corpo appoggiato al suo.
Devo alzarmi sulle punte per poterlo vedere meglio, ma anche così gli arrivo appena al petto.
Stringo gli occhi, piego la testa, cerco di capire cosa sia quella scintilla nelle sue pupille.
Lui ricambia il mio sguardo, sempre con quella dolce curiosità, mi comunica le sue sensazioni senza che io gli abbia posto la domanda.
Penso che sia bello.
Mi stupisco di averlo pensato. L'imbarazzo mi imporpora il viso.
Ma non posso fare a meno di pensarlo.
Ha un viso morbido, rotondo, il naso ungo, labbra carnose, occhi grandi allungati, zigomi alti.
Con le mani gli tocco il volto, sento il calore della sua pelle contro le dita e immediatamente il cuore mi schizza in gola.
Aggrotto le sopracciglia, non capisco.
La sensazione della più morbida delle stoffe sotto la pelle.
Accarezzo con il pollice un piccolo neo che ha sulla guancia, sembra essere lì per ricordare a se stesso e a chi lo guarda che neanche lui è perfetto.
Non so cosa sto cercando, ma lui si lascia sfiorare dal mio tocco indeciso, socchiudendo appena gli occhi dalle lunga ciglia, quel fitto groviglio di nero inchiostro che gli nasconde le iridi castane.
Abbasso il viso, per scorgere tra le palpebre socchiuse il suo sguardo celato, e lui riapre gli occhi per tornare a fissarmi.
Ci siamo già visti, da qualche parte, ci siamo già sentiti, abbiamo toccato i nostri corpi in un angolo lontano dell'Universo, ci siamo sfiorati e lasciati e ritrovati milioni di volte.
È una consapevolezza che nasce all'improvviso, coronata dal desiderio di avere di più, di sentirci l'un l'altro.
Sento sul mio corpo, formicolante e carico di aspettativa, il suo tocco timido avvolgersi intorno alla mia vita, in un gesto che mille volte ha fatto.
Sento la sua confusione, la sua accorata e difficoltosa ricerca nella sua memoria dei ricordi che ha perso, o che non ha mai avuto, in cui quel gesto poteva dire mille cose.
Mi affanno con lui, rovisto con lui nei nostri comuni ricordi. Con dolore ci rendiamo conto di non esistere insieme nelle nostre menti.
E allora perché quella consapevolezza, perché non si mette da parte? Perché si ostina ad accecare le nostre percezioni?
Tom socchiude le labbra, cercando parole che non trova, sento il suo fiato caldo sul collo, solletica la mia pelle accapponata.
È un attimo, un attimo che si dilata nell'infinito.
Lui riempie la distanza che ci separa. Mi tiene stretta a sé, avvicina il suo viso al mio piegandosi gentilmente in avanti.
Sento le sua labbra poggiarsi sulle mie, il calore delle pieghe screpolate che si inumidiscono, il contatto soffice che si impone con delicata ostinatezza.
Avvolgo le braccia intorno al suo collo, aggrappandomi quasi a lui, chiedendo vita e protezione. E lui mi sostiene come fosse la cosa più naturale del mondo.
La mente, ormai lasciata a briglie sciolte, vortica tra un pensiero e l'altro passando tra me e lui alla velocità di un battito di ciglia.
Lo sento, sento tutta la sua coscienza dentro il mio petto, la sua grandezza dentro il mio piccolo petto.
E io sono dentro di lui, piccola e rannicchiata vicino al cuore. Dove sento di essere sempre stata.
E lui va ad appoggiarsi sulla piega della mia mente; finalmente l'appiana. La pace che tanto andavo cercando scende su di me e mi lascia immobile, elettrizzata, carica.
Le sue labbra si muovono adagio sulle mie, caute eppure intente ad andare più a fondo, a scoprire di più.
Un fiotto di lacrime mi scende dagli occhi. Ma non è più paura. È gioia.
Ti ho cercato per tutta la vita, ho cercato te e la pace che potevi darmi per tutta la vita, mi sono distrutta per cercarti, mi sono annullata nel tentativo di dimenticarti, eri tu che continuavi ossessivamente a sconvolgere la mia mente, anche dopo che tutto ciò che conteneva è stato cancellato. Tu che rimani comunque infinitamente in me. Tu che sei sopravvissuto quando tutto il resto è andato distrutto.
In un attimo il suo tocco mi libera, spezzando il legame fisico di cui sento ancora, dolorosamente, il desiderio.
Ci fissiamo, privi di parole, abbacinati da quella nuova sensazione che proviamo.
Le nostre menti, strette l'una all'altra, non si distinguono più. Anche se i nostri corpi sono distanti e si guardano bene dal colmare di nuovo la distanza che ci separa, le nostre coscienze sono un tutt'uno di emozioni. Sentiamo come sente l'altro, viviamo come vive l'altro.
Sento il suo cuore e lui sente il mio, sento lo scorrere denso e agitato del suo sangue, sento la sua confusione, la sua gioia, la sua paura, sento lui.
Dove sei stato tutto questo tempo?
Mi porge una mano ed io scivolo di nuovo, ancora, nel suo abbraccio, provando di nuovo la sensazione delle sue dita che sfiorano la mia pelle.
È un brivido crescente di ansia, aspettativa, timore e delizia che mi preme lo sterno sotto forma di agitati battiti del cuore.
Sento sulla lingua il suo sapore, il primo vero sapore che io abbia mai sentito, come di petali di un fiore, una rosa; io non so cos'è una rosa, non so cos'è un fiore, ma deve essere bellissimo per avere il suo sapore.
Miele, sembra miele, dolce e viscoso sul palato, che scende lento nella gola e fa rabbrividire dal piacere.
Lui appoggia ancora le labbra contro le mie, stavolta sono pronta ad accoglierlo.
Entrambi sembriamo voler trovare conferma ai nostri pensieri.
È tutto vero? Lo stiamo provando davvero?
Mi sorride. Ora so cos'è un sorriso; è tendere le labbra all'insù, ma è anche qualcosa che arriva agli occhi e gli accende di luce.  
Sorrido anch'io, ma non sono certa che sia un sorriso bello come il suo.
Quando a porta dietro di noi si apre e, volontariamente o no non riesco a capirlo, ci separiamo, come se qualcuno ci avesse riscosso con una violenta scarica elettrica.
Lo strattone delle nostre menti che si separano è un dolore più che mentale, più che fisico.
La paura ci prende entrambi, colti sul fatto nel fare qualcosa di proibito: il contatto fisico con un altro essere.
Larac, affiancato da un Grigio che non avevo mai visto, entrano nella stanza con andatura altezzosa, i loro pensieri sono stizziti.
La paura che mi stringe la bocca dello stomaco mi costringe a sigillare la mia mente da qualsiasi intrusione.
Rimango sola, sola con me stessa.
Un solo pensiero, pulsante e pressante, si fa strada nella mia mente: vorrei tanto stringere la mano di Tom; sentire il caldo della sua pelle contro la mia, averne il conforto di cui tanto ho bisogno.
Ma il mio corpo è paralizzato dalla paura. Respiro pesantemente mentre gli occhi di Larac mi fissano, stupiti.
Sento subito la sua mente infilarsi a forza nella mia. La sua presenza è come una mano gelida che mi artiglia il cuore. Brividi cominciano a scuotermi; non riesco a reggermi in piedi e cado ginocchioni sul pavimento.
Sento che l'altro Grigio sta riservando lo stesso trattamento a Tom, anche lui è piegato su se stesso, il viso una maschera di dolore, mentre cerca di proteggere quello che di più sacro e intimo ha, inutilmente.
Non riesco a mantenermi cosciente mentre la mano di Larac fruga nella mia coscienza.
Che cosa vuole trovare, che cosa gli preme trovare, perché con tutta questa violenza?
Le domande che mi intasano la mente mi strappano un urlo mentale che mi scuote.
Con le braccia strette contro il petto cerco con tutta me stessa di opporre resistenza.
Lui non entrerà nei miei pensieri, non questa volta, questa volta io devo proteggerli.
Mi sento gridare mentre con forza erigo un muro spesso e alto intorno a ciò che più voglio tenere per me: Tom, il suo bacio, le sua labbra sulle mie.
Larac prova a rendere vana la mia resistenza; sento un conato di vomito premermi le labbra, lo stomaco ribellarsi, un sudore gelido scendermi sulla schiena.
Non si prenderà più niente da me, non avrà più niente di mio, ora la mia mente appartiene a lui, alla luce che mi ha tenuto sveglia per tutto questo tempo rendendomi imperfetta in quel mondo forzatamente perfetto.
Non sono io l'essere imperfetto. La piega nella mia mente non mi rende imperfetta, mi rende viva, mi rende ciò che sono, mi distingue dall'uniformità della massa grigia a cui vogliono costringermi a fare parte.
Non voglio essere come loro, non voglio che la pace eterna che sto cercando sia dimenticare tutto questo, spegnere la luce che mi tiene viva.
Non voglio abbandonare il pulsare vivo del mio cuore, le lacrime che mi scendono dagli occhi, e il dolore sordo all'anima.
Anima. L'Anima. Posso ancora rifugiarmi lì, essere nient'altro che Anima, essere la pura essenza di me stessa, abbandonare il corpo e la mente che mi tengono prigioniera nel mondo.
Il mio muro crolla, incapace di resistere ai colpi mirati, precisi e violenti di Larac; la sua coscienza fredda come la morte mi invade, mi attanaglia la coscienza, ma non arriva all'Anima.

*

Oltre Oceano, dove il Sole è alto e la giornata appena cominciata, Tom spalanca gli occhi sul nuovo giorno, sul cielo terso e azzurro che lo aspetta là fuori, chiamandolo con il suo chiacchiericcio insistente.
Sospinto da un vento insistente direttamente nei suoi ricordi dalla finestra spalancata della sua stanza, un sogno si insinua nella trama della sua mente, facendogli battere forte il cuore.
Dolore, paura e poi...un bacio.
Proprio al confine delle sua coscienza, proprio lì dove la realtà sfuma in sogno e il sogno in incubo. Dove tutto è nulla e nulla è tutto, dove è impossibile rimanere cosciente di se stessi.
A metà strada tra la pazzia e la sanità mentale, a metà strada tra la paura e il coraggio, a metà strada tra il sogno e la veglia: lì aspettava il bacio, attento, notte e giorno, a portare al limite il suo cuore, rimasto lì dalla notte dei tempo, raggiungibile solo in quell'attimo prima di addormentarsi e prima di svegliarsi.  
Si alza, sfiorandosi le labbra con due dita, come a cercare qualcosa di vero nel bacio che ha appena sognato.
Non ricordava di aver lasciato aperta la finestra. Si affaccia sul giorno, cercando in esso brandelli di quello che ha sognato, ma niente di ciò che vede lo aiuta a ricordare.
Con la coda dell'occhio, nello specchio dell'armadio, scorge una figura dalla pelle grigiastra, alta e imponente.
Si volta di scatto, spaventato, ma nella stanza non c'è nessuno, a parte lui e il suo riflesso su quello specchio.
Si stiracchia alla luce del Sole, dimentico di tutto, pronto a cominciare la sua giornata con il sorriso, e il bacio sognato, sulle labbra.
Inconsapevole che qualcosa, qualcuno, da lontano, lo guarda e lo guarderà sempre.

*

Mi risveglio nel mio letto, madida di sudore, le coperte attorcigliate ai miei piedi, il ricordo di un urlo ancora stampato sul mio volto contratto dalla paura.
Mi sporgo verso il comodino, schiaccio l'interruttore, la luce non si apre.
La mia stanza, la sua colorata tranquillità, avvolta dal buio.
La finestra è spalancata, le tende che svolazzano nella notte scura, sento il vento del primo inverno infilarsi dentro con la forza e la necessità di una maledizione..
Il cuore vacilla nel mio petto, romba come un tuono in un cielo in tempesta. Vi poggio una mano sopra e respiro, respiro l'aria fredda e densa della mia stanza, del mio rifugio violato da un'entità invisibile che è entrata con prepotenza.  
Mi alzo e corro alla finestra, uscendo sul balcone, ignorando la paura, spinta da qualcosa di più forte.
La strada è buia, la città, all'orizzonte, è buia, il cielo è acceso di milioni e milioni di stelle, la Luna, per questa notte, ha chiuso il suo occhio pallido, rimanendo un disco di oscurità nella trama del cielo.
Con ansia cerco qualcosa nel cielo, nel suo tessuto blu scuro e nero inchiostro.
Le stelle lampeggiano, scambiandosi messaggi che solo loro possono capire. Nascondono qualcosa, il loro brillare è come gli occhi birbanti di un bambino monello.
Cos'hanno visto che a me sfugge? Cos'hanno sentito le loro orecchie? A cosa, nell'immota fermezza dello spazio, hanno assistito?
Con un brivido che mi scuote da dentro, torno in camera, chiudo la finestra e tiro bene le tende.
La luce delle stelle arriva fino a lì, infilandosi negli spazi non protetti, nelle fessure non sigillate, come a volermi dire che non c'è riparo alcuno dai loro occhi indagatori.
Torno a letto, mi tiro le coperte fin sul naso, avvolgendomi in una barriera che non mi proteggerà da alcun male.
Qualunque fosse l'incubo dal quale mi sono svegliata, non lo ricordo più.
Mi sforzo di raggiungerlo e scovarlo dentro la mia mente, ma trovo solo ombra e sconforto.
Chiudo gli occhi, che trovo umidi di lacrime.  
Il silenzio della stanza è rotto solo dal ticchettare della sveglia. Cerco di concentrarmi su quel suono ritmico, cerco di tranquillizzare il mio cuore.
Tra un secondo e l'altro, in quell'attimo in cui si scivola nel sonno ma si è ancora abbastanza vigili per scorgere le cose intorno, ho la netta sensazione che una figura, alta, esile, mi fissi dai piedi del letto.
Vorrei voltare la testa per guardarla meglio ma prima di riuscire a metterla a fuoco è già sparita.
Al suo posto, sulle mie labbra, sento la dolcezza di un bacio sognato.


   
 
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