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Autore: Angel Selphie    19/02/2007    1 recensioni
Il ricordo di un singolo istante, un abbraccio più significativo di mille parole, rimasto ormai l’ultimo baluardo di un sentimento estinto.
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Embrace

Ricordi ancora il profumo muschiato della cantina? Non l’ho mai dimenticato, nonostante siano passati molti anni, da allora… Il silenzio ovattato, infranto solo dai nostri respiri che, furtivi, si aprivano un varco nell’oscurità che ci circondava…io e te, soli in quella stanza che sapeva di stantio e di mistero. Era sempre freddo, laggiù, tanto che spesso e volentieri, quando venivano a chiamarci per la cena, ci trovavano con la pelle d’oca.
Abitavamo vicini. Non c’era altro a separarci che una strada asfaltata e semideserta, come il piccolo paesino in cui trascorremmo la nostra infanzia. Eppure, nonostante ciò, non volevamo mai separarci, perché ciò che provavamo, quando eravamo uno accanto all’altro, era troppo forte per poter essere descritto qui. Volevamo stare da soli, magari anche solo in silenzio, ma esserci, essere lì, l’uno per l’altro, sempre vicini. Per questo avevamo eletto la cantina umida di casa mia a nostro rifugio, un rifugio sacro quanto un santuario millenario, dove nessuno poteva entrare…almeno, nel nostro immaginario. Era ovvio che, essendo una stanza come un’altra della mia casa, era di libero accesso a tutti quanti, ma nessuno vi si fermava mai per più di cinque o dieci minuti, e generalmente al pomeriggio tutti si dimenticavano della sua esistenza, peculiarità che ne faceva il posto ideale. Solo io e te avevamo le chiavi di quel mondo immaginario che avevamo creato insieme, e solo noi ne conoscevamo la password.
Eravamo piccoli, allora. Avevo quindici anni, tu solo dodici, ma nonostante la mia giovane età, già allora ero attratto da te, perché eri tutto ciò che sognavo. E questo era tanto più grave, in quanto io avevo già una certa coscienza di ciò che facevo, andavo alle superiori, studiavo in un liceo, mentre tu eri solo in seconda media, in pratica ancora un bambino, e mi sentivo in colpa a causa di quello che provava per te. Ma poi il vederti, scorgere il brillio segreto dei tuoi occhi d’ametista nel buio del nostro rifugio, sentire l’aroma fiorato dei tuoi capelli scuri e lisci più della seta, stringere il tuo corpo contro il mio mi facevano dimenticare tutto. Perché mi facevi quest’effetto, hai sempre avuto questo sinistro potere su di me, e non te ne sei mai reso conto, Kail. Mi facevi tremare, mi confondevi, mi turbavi, eppure non ti accorgevi di nulla, non c’era malizia in te. Anzi, ogni volta che un sorriso ti illuminava il volto di bambino, vi leggevo tutta l’innocenza dei tuoi anni, tutta la stima per me, tutto l’affetto che ci aveva incatenati senza più via d’uscita. Mi stupivi, nonostante ormai ti conoscessi meglio di quanto non conoscessi me stesso. Lo hai sempre fatto. Solo, non me ne rendevo conto come ora.
E poi, ricordi i pomeriggi passati insieme? Era come un rituale. Alle quattro in punto bussavi alla porta di casa mia, ed io ero già pronto ad accoglierti con il migliore sorriso del mio repertorio. In silenzio c’incamminavamo verso la cantina, e una volta giunti alla meta, si sedevamo sul pavimento sporco e umidiccio di quella grande stanza buia, raccontandoci tutto quanto, come solo due persone che sono cresciute insieme possono fare. E stavamo abbracciati per ore, consolandoci a vicenda per i mali, le sofferenze, i problemi che ci affliggevano. Ti tenevo con me, contro il mio corpo, nella speranza che questo potesse saziare quella fame senza nome che si stava impossessando di me con il lento trascorrere dei giorni. Ti davo la spalla su cui versare le tue lacrime senza peccato, ti donavo le braccia tra le quali rifugiarti nello sconforto, ti avevo già regalato il mio cuore, perché tu potessi tenerlo sempre assieme a te, perché tu potessi sentirmi anche quando eravamo lontani…. Non lo sapevo, eppure già ti amavo, e mascheravo questo mio sentimento indecente come meglio potevo. Anche se alla fin fine tutte le maschere si crepano. Prima è solo un segno sulla loro superficie di porcellana candida, poi piano si allarga sempre di più, diventa un solco profondo, e alla fine esse si rompono, in mille piccoli pezzi. Come è accaduto a me.
Tutto prima o poi deve finire. E il nostro rapporto finì l’ultimo giorno d’estate. I tuoi genitori avevano già deciso di traslocare, di trasferirsi in città, grazie al nuovo lavoro di tuo padre, e così fummo costretti a dirci addio, un addio più straziante della morte, perché entrambi temevamo che ciò che ci legava, con la lontananza, sarebbe sbiadito, divenuto inconsistente come le prime nebbioline nelle tiepide mattine autunnali. Fu il pomeriggio più felice e più triste della mia vita, un momento che non ho mai scordato, perché si è impresso indelebilmente nel mio cuore, marchiato a fuoco dalla memoria. Accadde tutto come al solito. Il campanile batté le quattro, quattro rintocchi di campana, che mi sembrarono dannatamente funerei. In quel preciso istante sentii un lieve bussare. Sapevo che eri tu, ma non volevo decidermi ad aprire. Temevo che, se l’avessi fatto, il tempo avrebbe cominciato a scorrere talmente in fretta che non avremmo potuto arrestarlo. Così rimasi fermo davanti a quell’uscio, come istupidito, per oltre cinque minuti, prima di fare la mossa decisiva: allungai la mano verso la maniglia di ottone dorato, e l’abbassai, tirando poi il battente verso di me. In quel preciso istante mi sentii morire, vedendo il tuo volto oppresso dal sorriso più forzato che avessi mai visto, mentre nei tuoi occhi si leggeva soltanto dolore, e un’incontenibile voglia di piangere. Non so che faccia avessi io in quel momento, anche se me lo sono chiesto tante volte. So solo che ti trascinai dentro casa, ti condussi in cantina, e lì mi sedetti accanto a te, aspettando in silenzio che uno dei due trovasse il coraggio necessario per cominciare a parlare. Ma nessuno dei due aveva voglia di farlo, così l’unica cosa che mi dicesti, flebilmente, quasi temendo di spezzare quell’atmosfera, fu un timido “Abbracciami” che non riuscii ad ignorare. Ti strinsi a me con tanta forza da farti sussultare, piansi con te le lacrime che da giorni serbavo gelosamente per questo momento, sussurrai al tuo orecchio, con voce tremante, che la lontananza non ci avrebbe divisi, che ciò che esisteva tra noi, qualunque cosa fosse, non sarebbe finita così, non quel giorno, non in quel momento. Lo dissi per te e anche per me, per convincermi che realmente sarebbe stato così, che non sarebbero bastati cinquanta chilometri a distruggere ciò che dodici anni avevano creato e fatto sbocciare con amore. E fu lì, sul pavimento umido e sudicio di quella cantina che ormai sapeva di noi, che ti baciai per la prima ed ultima volta, castamente, come si fa con un bambino piccolo. Posai le mie labbra sulle tue, strappando da te l’innocenza dei tuoi occhi, e donandoti la consapevolezza che su di me avresti sempre potuto contare. Tu non fosti sorpreso, non parlasti nemmeno, ti limitasti a donarmi ciò che avevi di più bello: l’ultimo tuo vero sorriso per me.
Il resto del tempo trascorse lento e veloce insieme, e noi lo affrontammo abbracciati, sperando e pregando che il momento di dirci addio non arrivasse mai. Anche se non fu così. Non passò molto tempo, che già mia madre era venuta a cercarci, e a pregarci di uscire, perché ormai era tardi, e tu dovevi tornare a casa. Cosa potevo fare, per tenerti con me? Tu, un bambino di dodici anni, un ragazzino…che potere avevo, e che diritto avevo di impedirti una vita che sarebbe stata sicuramente migliore? Nessuno, per te ero solo un amico, e comunque non eravamo adulti, non avremo potuto fare ciò che desideravamo. Eravamo solo dei piccoli uomini, Kail, e nessuno avrebbe capito o ci avrebbe permesso di fare di testa nostra, e d’altra parte era giusto così. A questo punto, non mi rimaneva altro da fare che rassegnarmi, e cercare di lasciarti un ricordo felice di me e del nostro ultimo incontro. Ti accompagnai alla porta con la morte nel cuore, mentre nei tuoi occhi viola cercavo un segno che mi facesse capire che ciò che sentiva il mio cuore era lo stesso turbamento che popolava anche il tuo, e quando fu il momento dell’addio non riuscii ad aprire bocca. Mi limitai ad agitare la mano in segno di saluto, come se fosse stato un vespro come tanti altri passati, e tu facesti lo stesso. Aspettai fino a che non ti vidi sparire, inghiottito da quella casa che, dal giorno seguente, sarebbe appartenuta ad un estraneo qualsiasi, e poi mi chiusi la porta alle spalle. Fu l’ultima volta che ti vidi, almeno fino ad oggi.
Nonostante tutte le promesse e le speranze, il nostro rapporto si logorò, la lontananza distrusse un’amicizia che sembrava più solida delle mura degli antichi castelli, e per anni ed anni di te non seppi nulla. Ma oggi, facendo zapping, il mio occhio è stato attirato dal trailer cinematografico di un nuovo film, e leggendo tra i nomi degli attori protagonisti, mi è subito saltato all’occhio il tuo. E non volevo crederci. Ho provato a convincermi che fosse una coincidenza, ma quando questa sera, durante il telegiornale, hanno mandato in onda un’intervista che ti è stata fatta a proposito del film di cui sopra, non ho più avuto dubbi. Sei davvero tu, e sei diventato ancora più bello di quando ti vidi l’ultima volta, in quel lontano pomeriggio di dodici anni fa. Ma sei diverso. Nei tuoi occhi l’innocenza non c’è più, ha ceduto il posto ad una strana luce che non è quella che dovrebbe illuminare il tuo viso di angelo gotico, il tuo modo di fare è divenuto scostante ed arrogante, ben diverso da quell’atteggiamento dimesso che ti aveva caratterizzato. Non c’è più il Kail che conoscevo? Chi è quel mostro che se l’è portato via? Chi è quel tuo clone senza sentimenti?
Io non lo so, vederti mi ha donato una gioia che non credevo di poter provare, ma il sapere che non sei più tu, che sei cambiato così tanto, mi distrugge, mi fa male, perché fino all’ultimo avevo sperato in un nostro fortuito incontro, in un riavvicinamento, in un contatto seppur breve, anche solo per allentare un poco la morsa dolorosa che da troppo tempo mi stringe il petto. Anche se so che il mio è un amore impossibile. Però, a vederti, non posso fare a meno di chiedermi, in cuor mio, se ti ricordi ancora di me. Se ancora ricordi delle nostre risate allegre che risuonavano nel buio, dei nostri scherzi, delle nostre confidenze. Ma più di tutto, mi domando se hai avuto il coraggio di conservare per lo meno la memoria di quell’ultimo pomeriggio, di quel bacio innocente e furtivo, ma soprattutto dell’abbraccio disperato che lo precedette e di quello che lo seguì, del mare di emozioni in cui rischiammo entrambi di affogare, incapaci di ordinare correttamente i nostri sentimenti confusi.
Forse sono solo uno sciocco sentimentale che ancora si nutre dei ricordi: so benissimo che non ci rivedremo mai più di persona, che ormai sei un attore famoso e che i tuoi impegni e la tua vita da star, rinchiuso nella gabbia dorata di Hollywood, ti hanno reso profondamente diverso da ciò che eri, ma non smetterò mai, mai, di pregare perché almeno ti sia rimasto un vago sentore del tuo passato di ragazzino felice e spensierato. Non smetterò di sperare che tu possa ricordarti di me e di ciò che eravamo, e non smetterò di confidare che nel tuo animo semplice e candido, seppur offuscato da una nuova bellezza maliziosa e provocante, sia rimasta ancora un’immagine viva e splendente di quell’abbraccio che ci vide, per l’ultima volta, i soli protagonisti del mondo e che, contro la nostra volontà, recise violentemente i lacci che ci imprigionavano alla nostra infanzia di giochi e segreti. L’abbraccio di due amici, allora. Forse di due amanti. Un momento, un istante interminabile, eterno, che non smetterò mai di rivivere, anche per te, l’unico legame rimastoci, ad unirci.
Oltre lo spazio ed il tempo.

  
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