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Autore: Juls6277    06/08/2012    1 recensioni
Beatrice è una giovane donna chirurgo, ama il suo lavoro e la sua brillante carriera è solo all'inizio.
Matteo è un famoso nuotatore e campione olimpico e gli sembra impossibile immaginare una vita migliore della sua.
Ma cosa accadrebbe se le loro strade s'incrociassero?
Genere: Romantico, Science-fiction, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi manca il mare.
Non so per quale motivo, ma questo è il pensiero che attraversa la mia mente in questo momento.
Sono appoggiata al parapetto della terrazza di un affollato locale nel centro di Milano e guardo attentamente il contenuto del mio bicchiere,  un cocktail perfettamente preparato, così forte che sicuramente non riuscirò a finirlo, così mi basta sentire il suono del ghiaccio che cozza contro il vetro dell’Old fashioned a distrarmi dal chiacchiericcio della gente intorno a me. Mi perdo invece ad ammirare le infinite luci della città che si stagliano fino all’orizzonte, ripensando agli innumerevoli tramonti che mi emozionavano da ragazza, quando mi coricavo in spiaggia e tutto quello che desideravo in quel momento era una macchina fotografica che potesse catturare quello spettacolo della natura, eppure ogni sera le chiacchiere con i miei amici, le litigate, gli amori, le discussioni con mio padre, le nostre lunghe passeggiate, le risate e gli abbracci con mia madre, i giochi con mio fratello mi distraevano, cosicché davo per scontato ogni tramonto, ripetendomi che l’indomani ce ne sarebbe stato un altro.  Non pensavo davvero che prima o poi avrei potuto provare una nostalgia così opprimente. Durante il mio cammino ho colto l’attimo tutte le volte che ho potuto, ho ponderato le mie scelte e adesso sto vivendo la mia vita esattamente come volevo. Ma la fortuna è relativa, mi dissero una volta, e adesso, mentre conto quante settimane dovrò ancora aspettare prima di entrare in ferie e salire sul primo volo per raggiungere la mia adorata Sicilia, ci credo  davvero.
“Bea!”, mi sento chiamare. Non appena mi volto, Claire mi travolge.
Io e lei siamo amiche da troppo tempo perché possa ricordarmelo, non mi viene in mente un solo avvenimento della mia vita che non sia ricollegabile a lei. Il primo viaggio da sole, i primi discorsi sui ragazzi, le prime uscite in compagnia, per le prime litigate coi genitori ci spalleggiavamo a vicenda e adesso Claire è più che un’amica o una sorella, è una compagna di vita. È nata in Francia, ma i suoi si lasciarono quando lei aveva poco più di un anno e sua madre la portò con sé a Messina, tornando dalla sua famiglia. Così Claire è stata cresciuta dai suoi nonni e da sua madre e un po’ pure io, ad essere onesta. Sua nonna ci preparava la migliore torta alle mele che esista a questo mondo, suo nonno ci raccontava storie incredibili, narrava di fiabe e realtà, mentre sua madre ci aiutava coi compiti. Forse è anche per questo che quando mi disse che aveva intenzione di trasferirsi a Milano per studiare rimasi spiazzata. “Ma cosa puoi pretendere da questa città, Beatrice? Vieni a Milano anche tu, sei bravissima in quello che fai, non avrai di certo problemi ad entrare nella specializzazione!”. Questo era fondamentalmente quello che mi ripeteva sempre. Inizialmente non le diedi retta, poi cominciai a guardarmi in giro e quello che avevo, quello che vedevo, non mi bastava più. Il mio ragazzo era troppo opprimente, l’ospedale che frequentavo era troppo insoddisfacente e per quanto i miei genitori me lo sconsigliarono, avevo bisogno di cambiare aria, partire e farmi un’idea di com’era il mondo. Feci due anni di praticantato al Guy’s Hospital di Londra, sei mesi a Berlino e sei a Parigi. Trentasei mesi di esperienza chirurgica all’estero, un sogno. Ma mi mancava la mia Italia, mi mancavano la pizza, la pasta, il Mediterraneo, le Alpi, l’italiano. Così mi dissi “O la va o la spacca”, compilai il modulo e feci domanda di trasferimento al programma di specializzazione chirurgica qui a Milano. Dopo due settimane ricevetti la conferma e ora eccomi qui. Fresca di specializzazione in chirurgia generale a soli ventisette anni, perché grazie alle mie pubblicazioni ed al curriculum che ho presentato ho potuto far convalidare le materie del quarto e quinto anno che ho affrontato all’estero. Posso essere fiera di me stessa, in un certo senso. Eppure Claire dice che ancora la mia vita è incompleta, che ho bisogno di trovare la mia anima gemella, di condividere i miei successi con qualcuno e quando le rispondo che ho lei mi dice che di certo non sarei disposta a farle un succhiotto in posti dove non batte il sole o a riscaldarle il letto. Allora non posso ribattere, ma io sono della filosofia che se esiste davvero questa fantomatica anima gemella allora quando la incontrerò saprò cosa fare, per il momento non ho intenzione di perdere tempo dietro agli uomini, non è svendendomi che mi diverto.
“Perché ti nascondi qui? Dai vieni che ti presento un po’ di gente” e così dicendo mi trascina dentro, iniziando a introdurmi a un’infinità di giovani, la crème de la crème milanese, tutti ragazzi montati e ingessati. Modelli, attori e sportivi, tutta gente del mondo dello spettacolo.
Il padre di Claire, a quanto pare, mentre lei cresceva nell’isola del sole e degli agrumi, ha girato un po’ il mondo e si è fatto un nome nel mondo della moda e adesso lavora fianco a fianco con importanti nomi di quest’industria, come Karl Lagerfeld e Marc Jacobs. Evidentemente questa passione ce l’hanno nel dna, dato che anche Claire adora il business del fashion: i suoi bozzetti sono incredibili, le sue intuizioni sono geniali, per questo –utilizzando il cognome della madre- è riuscita a farsi strada da sola e ad arrivare ad essere membro della squadra creativa della maison di Versace. È stato quando è entrata in questo giro che ha incontrato suo padre. Dopo un periodo di silenzio forzato, Claire ha deciso di dargli una possibilità e per il momento François si sta comportando da padre esemplare, non è troppo invadente ma nemmeno troppo assente o disinteressato, la sostiene e la supporta, come un padre dovrebbe fare.
Perciò adesso che tutto per lei va a gonfie vele, soprattutto da quando si è messa con un incredibile modello brasiliano di origini polacche che farebbe girare la testa a qualunque essere femminile esistente su questo pianeta e che si è follemente innamorato di lei, della dolce e bellissima Claire, lei ha bisogno di impegnare la sua mente nella ricerca della mia dolce metà, che secondo lei si è persa.
“Uffa, Bea! Potresti essere un po’ più affabile, togliti quel muso dalla faccia, ti sto presentando uno gnocco dopo l’altro!”, dice inalberata scuotendo i suoi boccoli dorati.
“Sai benissimo, meglio di me, che non sono un tipo da evento mondano! E poi dai, mica si interessano a me, mi si presentano solo per far contenta te, soprattutto stasera che non c’è la tua dolce metà”, calco maggiormente le due ultime parole, “si sentono in dovere di non farti sentire sola”.
Lei sorride birichina. “Non è del tutto vero, quel produttore televisivo ti sbavava dietro!”.
“Aveva le mani pelose!”, dico con un’espressione disgustata. Le mani sono importantissime in un uomo, a mio avviso.
“E che ne dici di Pierre? Il modello biondo che ti ho presentato prima? Ha sfilato per Gucci ed Ermenegildo Zegna!”.
La guardo sconsolata. “Potrei essere sua madre!”.
“Esagerata!”, poi guardando da un’altra parte aggiunge: “Forse la sorella maggiore…”.
Scuoto la testa ormai rassegnata, spero che la finisca qui perché sarebbe davvero capace di continuare questo teatrino.
Improvvisamente nella sala noto un ragazzo. Avrà la mia età o poco più. Ha le spalle larghe, capelli castano chiaro tendente al biondo, un profilo deciso e le labbra atteggiate a un sorriso tipico di chi è sicuro di sé, ma non sembra arrogante, solo consapevole di se stesso. Si abbassa per bisbigliare qualcosa all’orecchio dell’attraente bionda accanto a lui. Non so perché ma questo m’infastidisce. Mentre si rialza i suoi profondi occhi chiari si posano su di me che arrossisco mentre distolgo stizzita lo sguardo. Che vergogna, avrà pensato che lo stessi spiando.
Claire, col suo solito tempismo, ignara del nostro scambio di sguardi, gli fa un cenno di saluto, che lui ricambia brevemente, per poi posare nuovamente i suoi insistenti occhi su di me. Claire sbatte le sue palpebre perfettamente truccate, sorridendo come chi la sa lunga.
“Guarda guarda su chi ha fatto colpo la nostra Beatrice!”, mi sussurra.
“Perché, chi sarebbe, scusa?”. Strabuzza gli occhi sorpresa. Forse è un attore famoso che non conosco, beh, non è che tra un intervento e l’altro io abbia molto tempo per andare al cinema.
“Sei seria? Non hai seguito le Olimpiadi dell’anno scorso?”.
Cerco di pensare a cosa ho fatto l’estate scorsa, ma oltre la chirurgia e venti giorni di ferie trascorse un po’ in crociera con Claire e un po’ in famiglia nella casa al mare non ricordo nemmeno che le ultime Olimpiadi sono state l’anno scorso.
“Ehm…no”.
Claire sbuffa. “Ma dove vivi? Quello è Matteo Doria ed è un velocista della nazionale di nuoto italiana. L’anno scorso alle Olimpiadi ha vinto l’oro nei 200 metri stile libero, credo l’argento nei 100 metri e anche qualche medaglia agli europei ma non so esattamente in cosa…dovresti cercarlo su wikipedia”. Si blocca all’improvviso e alterna lo sguardo tra me e lui.
“Sai che non stareste per niente male assieme?”.
La guardo con la bocca aperta. “Ma sei matta? Deve essere un montato assurdo, non ho intenzione di perdere il mio tempo con uno come lui!”.
Claire alza gli occhi al cielo. “Nemmeno lo conosci e già tieni la guardia alta, vuol dire che a prima vista ti piace!”, dice con aria da saputella. “Vieni che te lo presento!”.
Non so quale santo devo ringraziare, ma sono salvata dalla vibrazione del mio cellulare. Lo estraggo dalla pochette McQueen e vedo il mittente. È il numero del pronto soccorso. Stasera la prima reperibilità è del professor Berti, io sono solo di terza, è strano che chiamino me. Rispondo al secondo squillo, mentre Claire si secca quando capisce che deve momentaneamente abbandonare i panni di cupido, per poi attaccarsi al mio telefono per captare qualche parola. Dice sempre che è una figata assurda avere per migliore amica un chirurgo d’urgenza, è come essere un soldato in prima linea e non è che abbia  poi così tanto torto.
“Dottoressa De Arcangelis, è arrivata una donna di cinquantaquattro anni con una pancreatite acuta”.
“Che dicono gli esami?”.
“Il globuli rossi sono elevatissimi e l’emocromo è crollato. Il primario ha detto di chiamarla perché  ha intenzione di iniziare ad operarla in laparoscopia e vuole lei come primo aiuto, tra quindici minuti arriva l’anestesista, faccia in fretta”. La caposala aggancia in fretta, mentre io già mi sono incamminata verso l’ascensore. L’ospedale non dista molto da qui, dovrei arrivare in dieci minuti, per questo ho accettato di venire qui stasera, se fosse stato lontano non sarei mai venuta. Divertirsi va bene, ma in quanto dottoressa ho delle responsabilità alle quali non posso sottrarmi.
Saluto in fretta Claire, le prometto che la richiamo domani e mentre la vedo quasi scomparire dietro le porte dell’ascensore, una mano ne blocca la chiusura e un trafelato Matteo Doria si catapulta dentro e preme freneticamente il tasto del parcheggio. Quando si gira e mi fissa è come se non mi avesse notata prima e comunque mi guarda ma è come se non mi vedesse. Le sopracciglia sono atteggiate in un’espressione d’ansia, sembra colto dal panico e sembra difficile identificarlo con quel ragazzo di cinque minuti fa dallo sguardo penetrante e l’atteggiamento di chi ha conquistato il mondo. Chissà cosa gli è successo. Mi concedo qualche secondo per ammirare i suoi profondi occhi azzurri e rendermi conto che è davvero un bel ragazzo e che mi supera di dieci centimetri buoni se non di più –e io sono 1,70 m e ho i tacchi-, poi ritorno ad essere Bea il chirurgo. Ripercorro mentalmente la procedura tipica della pancreatite mentre cerco un elastico per legare i miei lunghi e ribelli capelli ricci. Siamo al secondo piano e lui esce fuori dalla tasca le chiavi della sua macchina e io faccio lo stesso. Non appena arriviamo al parcheggio quello spilungone si fionda fuori e i fari di una Maserati Granturismo si illuminano e lui ci si dirige spedito. Io salgo sulla mia BMW Z4 molto dignitosamente, scalcio i tacchi e li butto sul sedile del passeggero assieme alla pochette, metto la prima e do gas, perdendo di vista il belloccio con la sua gran macchina e immettendomi nelle vie di Milano. 

Entro di corsa in ospedale con ai piedi le mie ballerine di riserva, mi cambio in fretta e mi lavo velocemente, accanto al professor Berti, il primario, che è arrivato qualche attimo prima di me. La paziente è già sul tavolo operatorio e le infermiere la stanno preparando. Indossiamo la cuffietta, la mascherina, la tuta protettiva e i guanti.
“È pronta, dottoressa?”.
“Certo professore”.
“Bene, allora andiamo a salvare questa donna”. Preme il pulsante di apertura delle porte ed entriamo.
Il professore posiziona meglio la scialitica, lo strumentista si avvicina di più con il carrello dei ferri, l’anestesista chiude le palpebre della paziente con del nastro adesivo, un’infermiera ricopre la pancia della donna di Betadine.
Il professore mi guarda brevemente e io lo rassicuro con un rapido cenno del capo. Allora sa che sono pronta, annuisce fra sé. Si gira con piglio deciso verso la strumentista e ordina: “Bisturi”. 

Sono esausta. Mi tolgo la mascherina lasciandola penzolare dal collo, mi strappo via guanti e tuta protettiva. Mi stiracchio un po’ e sospiro pesantemente. Guardo l’orologio e scopro che sono le due e mezza di notte. Mi gratto la nuca e penso che devo andare a dare notizie ai familiari della paziente.
“Ben fatto dottoressa”, mi saluta così il professor Berti, già pronto per tornare a casa.
“La ringrazio professore, buona notte”.
“Buona notte a lei, ma vada subito dai parenti della donna, saranno in pena”.
Annuisco assorta fra i miei pensieri.
Tolgo le protezioni dalle mie Crocs –purtroppo siamo costretti a portarle- e mi avvio verso la sala d’attesa dopo aver firmato la cartella della paziente, che scopro chiamarsi Gioli.
La sala d’attesa dove devono aspettare i parenti di coloro che sono sottoposti ad intervento chirurgico non può essere più desolata di così. L’intonaco è un po’ staccato dal soffitto, le pareti grigio sporco sono cupe e i sedili ormai cigolano per le troppe persone che vi si sono mosse sopra agitate. Nell’angolo, sopra una colonnina c’è una statuetta di San Camillo, il protettore dei malati e dei sofferenti, che a braccia aperte accoglie e consola le pene di chi siede lì afflitto. In questa sconsolata visione i miei occhi si soffermano sull’ enorme ragazzo dai capelli castano chiaro che gli ricadono sul volto, nascondendolo, mentre le mani vi affondano in mezzo e lui, piegato coi gomiti sulle ginocchia, sembra perso. Sono incredula. Lui è l’ultima persona che mi aspettavo di vedere qui, ma adesso si spiega la sua fretta nel lasciare l’edificio.
Ci sono altre persone nella sala. È possibile che non abbia operato una sua parente, forse questa coincidenza non è poi così assurda come pensavo. Una donna pallida si tiene un braccio stretto attorno al torace, sembra quasi che stia per cadere a pezzi, mentre si tiene un fazzoletto sulla bocca, immobile. Accanto a lei un bambino piccolo dorme accoccolato sulla sua spalla, ciucciandosi il pollice, beato nei suoi sogni. Un uomo di mezza età va avanti e indietro incessantemente, a volte di ferma e istintivamente prende un pacchetto di sigarette dalla tasca, poi guarda verso l’uscita, poi verso le sale operatorie, valuta il tempo che sprecherebbe se dovesse spuntare qualcuno per dargli delle notizie e decide di riporre le sigarette nella tasca, ricominciando a camminare. Sono convinta che appena uscirà si fumerà il pacchetto intero.
Non appena entro la testa di Matteo Doria scatta in alto e all’angolo dei suoi occhi posso scorgere delle lacrime. Sbatte le palpebre non appena focalizza chi è di fronte a lui ed è palese che è sorpreso quanto se non più di me. Si stropiccia gli occhi con la mano, cancellando ogni traccia liquida di debolezza e pone tutta la sua attenzione su di me, scattando in piedi. Mi sovrasta.
“Tu…”.
Annuisco. “Sì, sono io…”. Io chi, poi? Nemmeno sa chi sono.
Sto per continuare a chiedergli se è qui per la donna che ha avuto una pancreatite acuta, ma il fumatore si fionda in mezzo a noi e mi parla vicino al volto, prendendomi le mani.
“Come sta mia figlia? La prego, mi dica qualcosa o rischio d’impazzire”.
Nello stesso momento la donna si alza istantaneamente in piedi, afferrando il bambino che scosso dal suo pacifico sonno inizia a piangere come un matto.
“Dottoressa! Mio fratello come sta? Simone Pizzi si chiama. Allora?”.
Mi sento oppressa e cerco di schermirmi alzando istintivamente le mani in segno di resa, mentre una mano forte mi afferra dal gomito e mi sottrae da quell’assalto.
“Fatela parlare”, dice perentorio Matteo.
Gli sorrido riconoscente. “Sono qui per parlare coi parenti della signora Gioli”. E lascio scorrere lo sguardo tra loro, ma vedo che Matteo diventa pallido tutto d’un colpo e dice: “È mia madre”.
Gli sorrido e cerco di confortarlo mettendogli una mano sul braccio. “È andato tutto bene”, lui espira profondamente, rilascia finalmente tutta l’aria che aveva trattenuto in quelle ore e mi guarda con occhi che brillano.
“È un intervento complicato, ma siamo intervenuti laparoscopicamente. La pancreatite è stata causata da un calcolo biliare che ha ostruito il dotto pancreatico principale, causando l’ipertensione che, aggravandosi, ha causato l’emorragia. Appena siamo entrati abbiamo visto che la colata pancreatica aveva causato una raccolta sottepatica e perisplenica, perciò abbiamo lavato, aspirato e piazzato i drenaggi.  Ora dobbiamo tenerla in osservazione e seguire il decorso operatorio”.
“Quindi quando si rimetterà?”. Leggo ancora un pizzico d’ansia e trepidazione nei suoi occhi.
“Se non ci saranno complicazioni potrai portarla a casa con te nel giro di una settimana”.
All’improvviso mi stritola in un abbraccio e io vengo avvolta dal  suo profumo. Sa di agrumi, di alberi e –mi viene da ridere- c’è un lieve sentore di cloro. Sa di uomo e fa impazzire. “Grazie, grazie, grazie. Non so cos’avrei fatto senza di te”, si allontana e mi guarda con gli occhi lucidi. “Grazie”.
Io gli sorrido e gli do una pacca lieve sul braccio.
“Posso andare da lei?”.
“Al momento è ancora sotto sedativi e questo non è l’orario delle visite, ma Maria, la caposala, sa essere comprensiva e stasera dovrebbe fare lei la guardia, va’ in reparto e dille che ti manda la dottoressa De Arcangelis, mi deve un favore”, gli dico a bassa voce.
Lui continua a sorridermi e prima di andarsene correndo verso terapia intensiva mi stampa un bacio sulla guancia. Il suo profumo m’investe di nuovo e io lo guardo allontanarsi imbambolata.
Dopo due secondi mi riprendo e dico al fumatore e alla donna che mi informerò sui loro pazienti. Fortunatamente quando torno da loro dopo qualche minuto non devo dare cattive notizie. La signora ha lasciato il bambino a dormire tranquillo sul sedile e mi abbraccia pure lei, anche se non mi fa battere il cuore come sono riuscite a fare le braccia di qualcun altro una decina di minuti fa.
“Che il Signore ti benedica, ragazza mia, sei un angelo. Sono così felice, perdonami se ti ho fatto allontanare dal tuo ragazzo, sarà in pena per sua madre, corri da lui”.
Io la guardo a bocca aperta.
“Veramente, signora, io non conosco quel ragazzo, cioè sì, ma l’ho conosciuto solo qualche ora fa”.
La signora mi guarda un po’ sconcertata e un po’ sognante.
“Oh ragazza mia, correte un po’ troppo al giorno d’oggi voi giovani!”.
E mi lascia così, prende il bambino e se ne va.

 È stata una nottata scombussolante, sono confusa e molto stanca. Ho recuperato le mie cose e adesso sono uscita dall’ospedale e mi sto dirigendo verso la mia macchina con un’andatura degna del peggiore dei bradipi. Già sogno le mie lenzuola e il mio cuscino, il mio organismo sta agognando il meritato riposo.
Mentre cerco le chiavi della macchina nella borsa sento una voce chiamarmi in lontananza. Mi blocco in mezzo al parcheggio e mi guardo attorno.
“Dottoressa, aspetti!”.
Un trafelato ma sorridente e soprattutto attraente Matteo Doria sta correndo nella mia direzione. Fortunatamente i miei neuroni scelgono di farmi cadere le chiavi di mano piuttosto che far aumentare il lavoro delle mie ghiandole salivari come una ninfomane. Sì, ho decisamente bisogno di dormire.
Arriva prima di me ad afferrare le chiavi e me le porge con un sorriso.
“Ha salvato mia madre e non so nemmeno il suo nome. Non mi sono neanche presentato”, dice porgendomi la mano, “Matteo Doria”. Adesso che è più lucido è passato al lei.
Stringo la sua mano e ricambio il sorriso, “Beatrice De Arcangelis  e non è tutto merito mio, il primo operatore era il professor Berti. Sua madre è stata fortunata che fosse lui reperibile oggi, non poteva capitare di meglio”, dico con l’aria più professionale di cui sono capace.
“Ne sono convinto anch’io”, dice con uno sguardo estremamente intenso. Colgo le piccole striature di blu nei suoi occhi azzurrissimi, sono meravigliose. Chissà perché ma non credo che si stia riferendo all’egregio professore. Come una ragazzina, perciò, arrossisco e mi metto una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Addio aria professionale. C’è molto vento questa sera e con solo il copri spalle che mi ero portata per il party sto ghiacciando dal freddo. Un brivido mi percuote e lui, molto galantemente, si toglie la giacca per adagiarla sulle mie spalle.
Io, ancora più imbarazzata di prima, cerco di scostarmi. “Non ce n’è bisogno, davvero, io…”.
Lui mi blocca con lo sguardo, affondando le mani in tasca. “La prego, è il minimo che posso fare per lei”.
Gli sorrido. “La ringrazio allora, ma adesso è meglio che vada”.
“L’accompagno alla macchina”.
Mi sa molto di cavalier servente questo nuotatore dai capelli biondi e non è che mi dispiaccia. Del resto il parcheggio è deserto e buio e, come ogni sera, avevo un po’ paura prima che arrivasse lui. So che è una cosa stupida, a ventisette anni dovrei essere una donna fatta e finita, eppure ancora qualche volta il buio mi spaventa.
C’incamminiamo in un silenzio che non so proprio come colmare. Lui sembra tranquillo, magnifico con solo la camicia bianca, i pantaloni del completo che gli ricadono perfettamente sui fianchi e i mocassini neri.
Quando arriviamo davanti alla mia auto lo ringrazio e faccio per togliermi la giacca, ma lui mi blocca dicendomi: “Dovrà pur scendere dalla macchina e non vorrei che sentisse freddo, me la ridarà un’altra volta”. Non ci credo, sono allibita. Matteo Doria cerca un modo per rivedermi. Non può essere vero, di certo deve avere sviluppato una qualche strana forma di attaccamento morboso per il semplice fatto che ho collaborato a strappare via sua madre dalla morsa della morte, non ci sono altre spiegazioni.
Lo ringrazio nuovamente, lo saluto con due baci sulle guance che mi procurano dei brividi lungo la schiena, salgo sulla mia BMW, ingrano la marcia e parto in fretta, scappando via da quell’uomo troppo affascinante che piano scompare dal mio specchietto.

Salve! 
Se siete arrivati a leggere fin qui allora vi ringrazio davvero!  Volevo inizialmente mettere in chiaro una cosa: non sono una dottoressa, ma vorrei esserlo. Quello che scrivo è frutto di fantasia, ma mi sono accertata sulla veridicià di quello che ho scritto, facendo ricerche e chiedendo in prima persona ad un medico. Il caso della signora Gioli è un caso tipo, inventato ma plausibile;  inoltre non credo sia possibile nella realtà specializzarsi in chirurgia  generale prima dei trent'anni, ma volevo che Beatrice  fosse in grado di cominciare la sua carriera a quest'età.
Detto questo, se avete domande, critiche o commenti sarò felicissima di rispondere alle vostre recensioni! 
Un saluto a tutti, 

Juls

  
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