Mi
manca il mare.
Non so per quale motivo, ma questo è il pensiero che
attraversa la mia
mente in questo momento.
Sono appoggiata al parapetto della terrazza di un affollato locale nel
centro di Milano e guardo attentamente il contenuto del mio bicchiere, un cocktail perfettamente
preparato, così
forte che sicuramente non riuscirò a finirlo,
così mi basta sentire il suono
del ghiaccio che cozza contro il vetro dell’Old fashioned a
distrarmi dal
chiacchiericcio della gente intorno a me. Mi perdo invece ad ammirare
le
infinite luci della città che si stagliano fino
all’orizzonte, ripensando agli
innumerevoli tramonti che mi emozionavano da ragazza, quando mi
coricavo in
spiaggia e tutto quello che desideravo in quel momento era una macchina
fotografica
che potesse catturare quello spettacolo della natura, eppure ogni sera
le
chiacchiere con i miei amici, le litigate, gli amori, le discussioni
con mio
padre, le nostre lunghe passeggiate, le risate e gli abbracci con mia
madre, i
giochi con mio fratello mi distraevano, cosicché davo per
scontato ogni
tramonto, ripetendomi che l’indomani ce ne sarebbe stato un
altro. Non pensavo
davvero che prima o poi avrei
potuto provare una nostalgia così opprimente. Durante il mio
cammino ho colto
l’attimo tutte le volte che ho potuto, ho ponderato le mie
scelte e adesso sto vivendo
la mia vita esattamente come volevo. Ma la fortuna è
relativa, mi dissero una
volta, e adesso, mentre conto quante settimane dovrò ancora
aspettare prima di
entrare in ferie e salire sul primo volo per raggiungere la mia adorata
Sicilia, ci credo davvero.
“Bea!”, mi sento chiamare. Non appena mi volto,
Claire mi travolge.
Io e lei siamo amiche da troppo tempo perché possa
ricordarmelo, non
mi viene in mente un solo avvenimento della mia vita che non sia
ricollegabile
a lei. Il primo viaggio da sole, i primi discorsi sui ragazzi, le prime
uscite
in compagnia, per le prime litigate coi genitori ci spalleggiavamo a
vicenda e
adesso Claire è più che un’amica o una
sorella, è una compagna di vita. È nata
in Francia, ma i suoi si lasciarono quando lei aveva poco
più di un anno e sua
madre la portò con sé a Messina, tornando dalla
sua famiglia. Così Claire è
stata cresciuta dai suoi nonni e da sua madre e un po’ pure
io, ad essere
onesta. Sua nonna ci preparava la migliore torta alle mele che esista a
questo
mondo, suo nonno ci raccontava storie incredibili, narrava di fiabe e
realtà,
mentre sua madre ci aiutava coi compiti. Forse è anche per
questo che quando mi
disse che aveva intenzione di trasferirsi a Milano per studiare rimasi
spiazzata. “Ma cosa puoi pretendere da questa
città, Beatrice? Vieni a Milano
anche tu, sei bravissima in quello che fai, non avrai di certo problemi
ad
entrare nella specializzazione!”. Questo era fondamentalmente
quello che mi
ripeteva sempre. Inizialmente non le diedi retta, poi cominciai a
guardarmi in
giro e quello che avevo, quello che vedevo, non mi bastava
più. Il mio ragazzo
era troppo opprimente, l’ospedale che frequentavo era troppo
insoddisfacente e
per quanto i miei genitori me lo sconsigliarono, avevo bisogno di
cambiare
aria, partire e farmi un’idea di com’era il mondo.
Feci due anni di
praticantato al Guy’s Hospital di Londra, sei mesi a Berlino
e sei a Parigi.
Trentasei mesi di esperienza chirurgica all’estero, un sogno.
Ma mi mancava la
mia Italia, mi mancavano la pizza, la pasta, il Mediterraneo, le Alpi,
l’italiano. Così mi dissi “O la va o la
spacca”, compilai il modulo e feci
domanda di trasferimento al programma di specializzazione chirurgica
qui a
Milano. Dopo due settimane ricevetti la conferma e ora eccomi qui.
Fresca di
specializzazione in chirurgia generale a soli ventisette anni,
perché grazie
alle mie pubblicazioni ed al curriculum che ho presentato ho potuto far
convalidare le materie del quarto e quinto anno che ho affrontato
all’estero. Posso
essere fiera di me stessa, in un certo senso. Eppure Claire dice che
ancora la
mia vita è incompleta, che ho bisogno di trovare la mia
anima gemella, di
condividere i miei successi con qualcuno e quando le rispondo che ho
lei mi
dice che di certo non sarei disposta a farle un succhiotto in posti
dove non
batte il sole o a riscaldarle il letto. Allora non posso ribattere, ma
io sono
della filosofia che se esiste davvero questa fantomatica anima gemella
allora quando la
incontrerò saprò cosa fare, per il
momento non ho intenzione di
perdere tempo dietro agli uomini, non è svendendomi che mi
diverto.
“Perché ti nascondi qui? Dai vieni che ti presento
un po’ di gente” e
così dicendo mi trascina dentro, iniziando a introdurmi a
un’infinità di
giovani, la crème de la crème milanese, tutti
ragazzi montati e
ingessati. Modelli,
attori e sportivi, tutta gente del mondo dello spettacolo.
Il padre di Claire, a quanto pare, mentre lei cresceva
nell’isola del
sole e degli agrumi, ha girato un po’ il mondo e si
è fatto un nome nel mondo
della moda e adesso lavora fianco a fianco con importanti nomi di
quest’industria, come Karl Lagerfeld e Marc Jacobs.
Evidentemente questa
passione ce l’hanno nel dna, dato che anche Claire adora il
business del
fashion: i suoi bozzetti sono incredibili, le sue intuizioni sono
geniali, per
questo –utilizzando il cognome della madre- è
riuscita a farsi strada da sola e
ad arrivare ad essere membro della squadra creativa della maison di
Versace. È
stato quando è entrata in questo giro che ha incontrato suo
padre. Dopo un
periodo di silenzio forzato, Claire ha deciso di dargli una
possibilità e per
il momento François si sta comportando da padre esemplare,
non è troppo
invadente ma nemmeno troppo assente o disinteressato, la sostiene e la
supporta, come un padre dovrebbe fare.
Perciò adesso che tutto per lei va a gonfie vele,
soprattutto da
quando si è messa con un incredibile modello brasiliano di
origini polacche che
farebbe girare la testa a qualunque essere femminile esistente su
questo
pianeta e che si è follemente innamorato di lei, della dolce
e bellissima
Claire, lei ha bisogno di impegnare la sua mente nella ricerca della
mia dolce
metà, che secondo lei si è persa.
“Uffa, Bea! Potresti essere un po’ più
affabile, togliti quel muso
dalla faccia, ti sto presentando uno gnocco dopo
l’altro!”, dice inalberata
scuotendo i suoi boccoli dorati.
“Sai benissimo, meglio di me, che non sono un tipo da evento
mondano!
E poi dai, mica si interessano a me, mi si presentano solo per far
contenta te,
soprattutto stasera che non c’è la tua dolce
metà”, calco maggiormente le due ultime
parole, “si sentono in dovere di
non farti sentire sola”.
Lei sorride birichina. “Non è del tutto vero, quel
produttore
televisivo ti sbavava dietro!”.
“Aveva le mani pelose!”, dico con
un’espressione disgustata. Le mani
sono importantissime in un uomo, a mio avviso.
“E che ne dici di Pierre? Il modello biondo che ti ho
presentato
prima? Ha sfilato per Gucci ed Ermenegildo Zegna!”.
La guardo sconsolata. “Potrei essere sua madre!”.
“Esagerata!”, poi guardando da un’altra
parte aggiunge: “Forse la
sorella maggiore…”.
Scuoto la testa ormai rassegnata, spero che la finisca qui
perché
sarebbe davvero capace di continuare questo teatrino.
Improvvisamente nella sala noto un ragazzo. Avrà la mia
età o poco
più. Ha le spalle larghe, capelli castano chiaro tendente al
biondo, un profilo
deciso e le labbra atteggiate a un sorriso tipico di chi è
sicuro di sé, ma non
sembra arrogante, solo consapevole di se stesso. Si abbassa per
bisbigliare
qualcosa all’orecchio dell’attraente bionda accanto
a lui. Non so perché ma
questo m’infastidisce. Mentre si rialza i suoi profondi occhi
chiari si posano
su di me che arrossisco mentre distolgo stizzita lo sguardo. Che
vergogna, avrà
pensato che lo stessi spiando.
Claire, col suo solito tempismo, ignara del nostro scambio di sguardi,
gli fa un cenno di saluto, che lui ricambia brevemente, per poi posare
nuovamente i suoi insistenti occhi su di me. Claire sbatte le sue
palpebre
perfettamente truccate, sorridendo come chi la sa lunga.
“Guarda guarda su chi ha fatto colpo la nostra
Beatrice!”, mi
sussurra.
“Perché, chi sarebbe, scusa?”. Strabuzza
gli occhi sorpresa. Forse è
un attore famoso che non conosco, beh, non è che tra un
intervento e l’altro io
abbia molto tempo per andare al cinema.
“Sei seria? Non hai seguito le Olimpiadi dell’anno
scorso?”.
Cerco di pensare a cosa ho fatto l’estate scorsa, ma oltre la
chirurgia e venti giorni di ferie trascorse un po’ in
crociera con Claire e un
po’ in famiglia nella casa al mare non ricordo nemmeno che le
ultime Olimpiadi
sono state l’anno scorso.
“Ehm…no”.
Claire sbuffa. “Ma dove vivi? Quello è Matteo
Doria ed è un velocista
della nazionale di nuoto italiana. L’anno scorso alle
Olimpiadi ha vinto l’oro
nei 200 metri stile libero, credo l’argento nei 100 metri e
anche qualche medaglia agli
europei ma non so esattamente in cosa…dovresti cercarlo su
wikipedia”. Si
blocca all’improvviso e alterna lo sguardo tra me e lui.
“Sai che non stareste per niente male assieme?”.
La guardo con la bocca aperta. “Ma sei matta? Deve essere un
montato
assurdo, non ho intenzione di perdere il mio tempo con uno come
lui!”.
Claire alza gli occhi al cielo. “Nemmeno lo conosci e
già tieni la
guardia alta, vuol dire che a prima vista ti piace!”, dice
con aria da
saputella. “Vieni che te lo presento!”.
Non so quale santo devo ringraziare, ma sono salvata dalla vibrazione
del mio cellulare. Lo estraggo dalla pochette McQueen e vedo il
mittente. È il
numero del pronto soccorso. Stasera la prima reperibilità
è del professor
Berti, io sono solo di terza, è strano che chiamino me.
Rispondo al secondo
squillo, mentre Claire si secca quando capisce che deve momentaneamente
abbandonare i panni di cupido, per poi attaccarsi al mio telefono per
captare
qualche parola. Dice sempre che è una figata assurda avere
per migliore amica
un chirurgo d’urgenza, è come essere un soldato in
prima linea e non è che
abbia poi
così tanto torto.
“Dottoressa De Arcangelis, è arrivata una donna di
cinquantaquattro anni
con una pancreatite acuta”.
“Che dicono gli esami?”.
“Il globuli rossi sono elevatissimi e l’emocromo
è crollato. Il
primario ha detto di chiamarla perché
ha
intenzione di iniziare ad operarla in laparoscopia e vuole lei come
primo
aiuto, tra quindici minuti arriva l’anestesista, faccia in
fretta”. La caposala
aggancia in fretta, mentre io già mi sono incamminata verso
l’ascensore.
L’ospedale non dista molto da qui, dovrei arrivare in dieci
minuti, per questo
ho accettato di venire qui stasera, se fosse stato lontano non sarei
mai
venuta. Divertirsi va bene, ma in quanto dottoressa ho delle
responsabilità
alle quali non posso sottrarmi.
Saluto in fretta Claire, le prometto che la richiamo domani e mentre
la vedo quasi scomparire dietro le porte dell’ascensore, una
mano ne blocca la
chiusura e un trafelato Matteo Doria si catapulta dentro e preme
freneticamente
il tasto del parcheggio. Quando si gira e mi fissa è come se
non mi avesse
notata prima e comunque mi guarda ma è come se non mi
vedesse. Le sopracciglia
sono atteggiate in un’espressione d’ansia, sembra
colto dal panico e sembra
difficile identificarlo con quel ragazzo di cinque minuti fa dallo
sguardo
penetrante e l’atteggiamento di chi ha conquistato il mondo.
Chissà cosa gli è
successo. Mi concedo qualche secondo per ammirare i suoi profondi occhi
azzurri
e rendermi conto che è davvero un bel ragazzo e che mi
supera di dieci
centimetri buoni se non di più –e io sono 1,70 m e
ho i tacchi-, poi ritorno ad
essere Bea il chirurgo. Ripercorro
mentalmente la procedura tipica della pancreatite mentre cerco un
elastico per
legare i miei lunghi e ribelli capelli ricci. Siamo al secondo piano e
lui
esce fuori dalla tasca le chiavi della sua macchina e io faccio lo
stesso. Non
appena arriviamo al parcheggio quello spilungone si fionda fuori e i
fari di
una Maserati Granturismo si illuminano e lui ci si dirige spedito. Io
salgo
sulla mia BMW Z4 molto dignitosamente, scalcio i tacchi e li butto sul
sedile
del passeggero assieme alla pochette, metto la prima e do gas, perdendo
di
vista il belloccio con la sua gran macchina e immettendomi nelle vie di
Milano.
Entro
di corsa in ospedale con ai piedi le mie ballerine di riserva, mi
cambio in fretta e mi lavo velocemente, accanto al professor Berti, il
primario, che è arrivato qualche attimo prima di me. La
paziente è già sul
tavolo operatorio e le infermiere la stanno preparando. Indossiamo la
cuffietta, la mascherina, la tuta protettiva e i guanti.
“È pronta, dottoressa?”.
“Certo professore”.
“Bene, allora andiamo a salvare questa donna”.
Preme il pulsante di
apertura delle porte ed entriamo.
Il professore posiziona meglio la scialitica, lo strumentista si
avvicina di più con il carrello dei ferri,
l’anestesista chiude le palpebre
della paziente con del nastro adesivo, un’infermiera ricopre
la pancia della
donna di Betadine.
Il professore mi guarda brevemente e io lo rassicuro con un rapido
cenno del capo. Allora sa che sono pronta, annuisce fra sé.
Si gira con piglio
deciso verso la strumentista e ordina: “Bisturi”.
Sono
esausta. Mi tolgo la mascherina lasciandola penzolare dal collo,
mi strappo via guanti e tuta protettiva. Mi stiracchio un po’
e sospiro
pesantemente. Guardo l’orologio e scopro che sono le due e
mezza di notte. Mi
gratto la nuca e penso che devo andare a dare notizie ai familiari
della
paziente.
“Ben fatto dottoressa”, mi saluta così
il professor Berti, già pronto
per tornare a casa.
“La ringrazio professore, buona notte”.
“Buona notte a lei, ma vada subito dai parenti della donna,
saranno in
pena”.
Annuisco assorta fra i miei pensieri.
Tolgo le protezioni dalle mie Crocs –purtroppo siamo
costretti a
portarle- e mi avvio verso la sala d’attesa dopo aver firmato
la cartella della
paziente, che scopro chiamarsi Gioli.
La sala d’attesa dove devono aspettare i parenti di coloro
che sono
sottoposti ad intervento chirurgico non può essere
più desolata di così.
L’intonaco è un po’ staccato dal
soffitto, le pareti grigio sporco sono cupe e
i sedili ormai cigolano per le troppe persone che vi si sono mosse
sopra
agitate. Nell’angolo, sopra una colonnina
c’è una statuetta di San Camillo, il
protettore dei malati e dei sofferenti, che a braccia aperte accoglie e
consola
le pene di chi siede lì afflitto. In questa sconsolata
visione i miei occhi si
soffermano sull’ enorme ragazzo dai capelli castano chiaro
che gli ricadono sul
volto, nascondendolo, mentre le mani vi affondano in mezzo e lui,
piegato coi
gomiti sulle ginocchia, sembra perso. Sono incredula. Lui è
l’ultima persona
che mi aspettavo di vedere qui, ma adesso si spiega la sua fretta nel
lasciare
l’edificio.
Ci sono altre persone nella sala. È possibile che non abbia
operato
una sua parente, forse questa coincidenza non è poi
così assurda come pensavo.
Una donna pallida si tiene un braccio stretto attorno al torace, sembra
quasi
che stia per cadere a pezzi, mentre si tiene un fazzoletto sulla bocca,
immobile. Accanto a lei un bambino piccolo dorme accoccolato sulla sua
spalla,
ciucciandosi il pollice, beato nei suoi sogni. Un uomo di mezza
età va avanti e
indietro incessantemente, a volte di ferma e istintivamente prende un
pacchetto
di sigarette dalla tasca, poi guarda verso l’uscita, poi
verso le sale
operatorie, valuta il tempo che sprecherebbe se dovesse spuntare
qualcuno per
dargli delle notizie e decide di riporre le sigarette nella tasca,
ricominciando a camminare. Sono convinta che appena uscirà
si fumerà il
pacchetto intero.
Non appena entro la testa di Matteo Doria scatta in alto e
all’angolo
dei suoi occhi posso scorgere delle lacrime. Sbatte le palpebre non
appena
focalizza chi è di fronte a lui ed è palese che
è sorpreso quanto se non più di
me. Si stropiccia gli occhi con la mano, cancellando ogni traccia
liquida di
debolezza e pone tutta la sua attenzione su di me, scattando in piedi.
Mi
sovrasta.
“Tu…”.
Annuisco. “Sì, sono io…”. Io chi,
poi? Nemmeno sa chi sono.
Sto per continuare a chiedergli se è qui per la donna che ha
avuto una
pancreatite acuta, ma il fumatore si fionda in mezzo a noi e mi parla
vicino al
volto, prendendomi le mani.
“Come sta mia figlia? La prego, mi dica qualcosa o rischio
d’impazzire”.
Nello stesso momento la donna si alza istantaneamente in piedi,
afferrando il bambino che scosso dal suo pacifico sonno inizia a
piangere come
un matto.
“Dottoressa! Mio fratello come sta? Simone Pizzi si chiama.
Allora?”.
Mi sento oppressa e cerco di schermirmi alzando istintivamente le mani
in segno di resa, mentre una mano forte mi afferra dal gomito e mi
sottrae da
quell’assalto.
“Fatela parlare”, dice perentorio Matteo.
Gli sorrido riconoscente. “Sono qui per parlare coi parenti
della
signora Gioli”. E lascio scorrere lo sguardo tra loro, ma
vedo che Matteo
diventa pallido tutto d’un colpo e dice:
“È mia madre”.
Gli sorrido e cerco di confortarlo mettendogli una mano sul braccio.
“È andato tutto bene”, lui espira
profondamente, rilascia finalmente tutta
l’aria che aveva trattenuto in quelle ore e mi guarda con
occhi che brillano.
“È un intervento complicato, ma siamo intervenuti
laparoscopicamente. La
pancreatite è stata causata da un calcolo biliare che ha
ostruito il dotto
pancreatico principale, causando l’ipertensione che,
aggravandosi, ha causato
l’emorragia. Appena siamo entrati abbiamo visto che la colata
pancreatica aveva
causato una raccolta sottepatica e perisplenica, perciò
abbiamo lavato,
aspirato e piazzato i drenaggi. Ora
dobbiamo tenerla in osservazione e seguire il decorso
operatorio”.
“Quindi quando si rimetterà?”. Leggo
ancora un pizzico d’ansia e
trepidazione nei suoi occhi.
“Se non ci saranno complicazioni potrai portarla a casa con
te nel
giro di una settimana”.
All’improvviso mi stritola in un abbraccio e io vengo avvolta
dal suo profumo. Sa
di agrumi, di alberi e –mi
viene da ridere- c’è un lieve sentore di cloro. Sa
di uomo e fa impazzire.
“Grazie, grazie, grazie. Non so cos’avrei fatto
senza di te”, si allontana e mi
guarda con gli occhi lucidi. “Grazie”.
Io gli sorrido e gli do una pacca lieve sul braccio.
“Posso andare da lei?”.
“Al momento è ancora sotto sedativi e questo non
è l’orario delle
visite, ma Maria, la caposala, sa essere comprensiva e stasera dovrebbe
fare
lei la guardia, va’ in reparto e dille che ti manda la
dottoressa De
Arcangelis, mi deve un favore”, gli dico a bassa voce.
Lui continua a sorridermi e prima di andarsene correndo verso terapia
intensiva mi stampa un bacio sulla guancia. Il suo profumo
m’investe di nuovo e
io lo guardo allontanarsi imbambolata.
Dopo due secondi mi riprendo e dico al fumatore e alla donna che mi
informerò sui loro pazienti. Fortunatamente quando torno da
loro dopo qualche
minuto non devo dare cattive notizie. La signora ha lasciato il bambino
a dormire tranquillo sul sedile e mi
abbraccia pure lei, anche se non mi fa battere il cuore come sono
riuscite a
fare le braccia di qualcun altro una decina di minuti fa.
“Che il Signore ti benedica, ragazza mia, sei un angelo. Sono
così
felice, perdonami se ti ho fatto allontanare dal tuo ragazzo,
sarà in pena per
sua madre, corri da lui”.
Io la guardo a bocca aperta.
“Veramente, signora, io non conosco quel ragazzo,
cioè sì, ma l’ho
conosciuto solo qualche ora fa”.
La signora mi guarda un po’ sconcertata e un po’
sognante.
“Oh ragazza mia, correte un po’ troppo al giorno
d’oggi voi giovani!”.
E mi lascia così, prende il bambino e se ne va.
Mentre cerco le chiavi della macchina nella borsa sento una voce
chiamarmi in lontananza. Mi blocco in mezzo al parcheggio e mi guardo
attorno.
“Dottoressa, aspetti!”.
Un trafelato ma sorridente e soprattutto attraente Matteo Doria sta
correndo nella mia direzione. Fortunatamente i miei neuroni scelgono di
farmi
cadere le chiavi di mano piuttosto che far aumentare il lavoro delle
mie
ghiandole salivari come una ninfomane. Sì, ho decisamente
bisogno di dormire.
Arriva prima di me ad afferrare le chiavi e me le porge con un
sorriso.
“Ha salvato mia madre e non so nemmeno il suo nome. Non mi
sono
neanche presentato”, dice porgendomi la mano,
“Matteo Doria”. Adesso che è
più
lucido è passato al lei.
Stringo la sua mano e ricambio il sorriso, “Beatrice De
Arcangelis e non
è tutto merito mio, il
primo operatore era il professor Berti. Sua madre è stata
fortunata che fosse
lui reperibile oggi, non poteva capitare di meglio”, dico con
l’aria più
professionale di cui sono capace.
“Ne sono convinto anch’io”, dice con uno
sguardo estremamente intenso.
Colgo le piccole striature di blu nei suoi occhi azzurrissimi, sono
meravigliose.
Chissà perché ma non credo che si stia riferendo
all’egregio professore. Come
una ragazzina, perciò, arrossisco e mi metto una ciocca di
capelli dietro
l’orecchio. Addio aria professionale.
C’è molto vento questa sera e con solo il
copri spalle che mi ero portata per il party sto ghiacciando dal
freddo. Un
brivido mi percuote e lui, molto galantemente, si toglie la giacca per
adagiarla sulle mie spalle.
Io, ancora più imbarazzata di prima, cerco di scostarmi.
“Non ce n’è
bisogno, davvero, io…”.
Lui mi blocca con lo sguardo, affondando le mani in tasca.
“La prego,
è il minimo che posso fare per lei”.
Gli sorrido. “La ringrazio allora, ma adesso è
meglio che vada”.
“L’accompagno alla macchina”.
Mi sa molto di cavalier servente questo nuotatore dai capelli biondi e
non è che mi dispiaccia. Del resto il parcheggio
è deserto e buio e, come ogni
sera, avevo un po’ paura prima che arrivasse lui. So che
è una cosa stupida, a
ventisette anni dovrei essere una donna fatta e finita, eppure ancora
qualche
volta il buio mi spaventa.
C’incamminiamo in un silenzio che non so proprio come
colmare. Lui
sembra tranquillo, magnifico con solo la camicia bianca, i pantaloni
del
completo che gli ricadono perfettamente sui fianchi e i mocassini neri.
Quando arriviamo davanti alla mia auto lo ringrazio e faccio per
togliermi la giacca, ma lui mi blocca dicendomi:
“Dovrà pur scendere dalla
macchina e non vorrei che sentisse freddo, me la ridarà
un’altra volta”. Non ci
credo, sono allibita. Matteo Doria cerca un modo per rivedermi. Non
può essere
vero, di certo deve avere sviluppato una qualche strana forma di
attaccamento
morboso per il semplice fatto che ho collaborato a strappare via sua
madre
dalla morsa della morte, non ci sono altre spiegazioni.
Lo ringrazio nuovamente, lo saluto con due baci sulle guance che mi
procurano dei brividi lungo la schiena, salgo sulla mia BMW, ingrano la
marcia
e parto in fretta, scappando via da quell’uomo troppo
affascinante che piano
scompare dal mio specchietto.
Salve!
Se siete arrivati a leggere fin qui allora vi ringrazio davvero!
Volevo inizialmente mettere in chiaro una cosa: non sono una
dottoressa, ma vorrei esserlo. Quello che scrivo è frutto di
fantasia, ma mi sono accertata sulla veridicià di quello che
ho scritto, facendo ricerche e chiedendo in prima persona ad un medico.
Il caso della signora Gioli è un caso tipo, inventato ma
plausibile; inoltre non credo sia possibile nella
realtà specializzarsi in chirurgia generale prima
dei trent'anni, ma volevo che Beatrice fosse in grado di
cominciare la sua carriera a quest'età.
Detto questo, se avete domande, critiche o commenti sarò
felicissima di rispondere alle vostre recensioni!
Un saluto a tutti,
Juls