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Autore: candycotton    07/08/2012    1 recensioni
Canada. Anni 90. Una donna sta partorendo. Un bambino nasce, inconsapevole di ciò che il destino ha scritto per lui. Una madre che non lo vuole, un mondo che lo giudica, una sorella maggiore che cerca di aiutarlo... Incontri con persone sbagliate, vite che si intrecciano, che si scontrano. Ma il passato è un peso che si porta sempre sulle spalle, e la vita è la sfida più dura da affrontare.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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|| Gabriel ||




 

 

 

sweet and sour

 

 

 

 

 

 

Gabriel aveva già esplorato il negozio in lungo e in largo. Non c’erano molte cose economiche che poteva permettersi, percui, alla fine, non aveva comprato tutto quello che desiderava.

Ma sapeva accontentarsi ugualmente. Prese un bel respiro e si diresse a pagare.

Immediatamente il cassiere lo guardò dall’alto al basso, scandagliando ogni centimetro degli abiti che aveva appoggiato sul bancone. Il motivo era semplice: erano tutte cose da donna.

Gabriel aveva nove anni e appariva a tutti come un specie d’angelo. Il suo aspetto innocente ed etereo faceva pensare che fosse un bambino d’oro, benvoluto dai suoi amici e familiari, amato da tutti.

Ma la realtà era ben diversa. Gabriel non era voluto da nessuno. A scuola non aveva amici e i suoi familiari non lo potevano vedere, anzi, sua madre nemmeno ci pensava, di guardarlo.

E tutto solo perché era nato maschio.

«Sono per mia sorella», disse Gabriel in tono brusco, in risposta alle occhiate del cassiere.

La sua bugia era ovvia, dato che quegli abiti erano troppo piccoli per sua sorella, che aveva cinque anni in più di lui. E in quel paese, tutti conoscevano tutti; quell’uomo avrebbe certamente inteso la bugia di Gabriel e chissà che idee si stava facendo.

Ma il ragazzino cercò di non pensarci, lui lo faceva per sé, non voleva preoccuparsi del parere di nessun altro.

Pagò e tornò a casa di fretta, mantenendo lo sguardo basso, per non incontrare gli occhi di nessuno.

Si chiuse nella sua camera, stretta e grande quanto un ripostiglio. Si vestì velocemente, ma cercando di aver cura per l’abbigliamento.

Sua madre era una figura passiva, in quella casa. Non usciva mai di là: a volte dormiva addirittura tutto il giorno, o sul divano del salotto o sul letto nella sua stanza.

Gabriel prese un altro bel respiro profondo, come aveva fatto poco prima al negozio e aprì lentamente la porta del salotto, cosa che non faceva quasi mai. Si affacciò nella penombra della stanza e diede un’occhiata intorno.

Scorse sua madre stesa sul divano, il capo coperto dalle braccia sotto cui Gabriel notò la solita espressione tesa e incazzata, che tanto lo faceva andare in bestia.

«Mamma», la chiamò, con la voce flebile e acerba, come quella di una bambina.

Sua madre alzò un braccio da sopra il capo e si guardò attorno, gli occhi pesanti. «Chi è?»

«Gabriel…, Gabrielle, sono io mamma, Gabrielle», fece il ragazzino, disperato, cercando lo sguardo di sua madre nella semioscurità.

Cassandra lo guardò scandalizzata, gli occhi sgranati, terrorizzati. «Va’ via! Vattene!», gridò.

«No, mamma…»

Cassandra fece per alzarsi dal divano, spostando di mezzo Gabriel.

«Mamma…»

La donna si allontanò scomparendo nell’ombra, mentre mugugnava ancora tra sé e sé: «Vattene, vattene…»

«Mamma», la chiamò ancora una volta Gabriel. «Aspetta, mamma», disse ancora. «Mamma», la sua voce si era ridotta ad un sussurro, mentre si confondeva tra le lacrime.

 

 

 

Gabriel non aveva mai capito veramente chi o cosa fosse.

Era stata tutta colpa di sua madre, che lo aveva sempre allontanato, non lo aveva mai voluto, era indegno di essere venuto al mondo. Sua madre aveva la fissa delle femmine, avrebbe tanto voluto che tutti i suoi figli fossero nati donne. Ma il destino gli aveva dato due maschi, e Gabriel era stato l’ultimo.

Anche se aveva sentito dire in giro che in realtà Cassandra aveva dato alla luce altre creature prima di lui, di suo fratello e di sua sorella. Ma Gabriel non ci credeva: la gente trovava sempre il modo di parlare a sproposito.

Fino a qualche anno prima era addirittura arrivato a travestirsi da donna, per provare a piacere a sua madre, senza successo. Ora che aveva dodici anni e che con suo fratello e sua sorella aveva cambiato città, si sentiva una persona nuova, si sentiva di poter ricominciare tutto daccapo, di potersi lasciare il suo tenebroso passato alle spalle.

Eppure, quando Gabriel aveva tentato di baciare Andreas, non gli era affatto sembrato di poter essere una persona diversa. Si era di nuovo visto come quel povero bambino vestito da donna che chiamava invano il nome di sua madre, e la guardava voltargli le spalle.

«Guai a te se ti azzardi a toccarmi! Hai capito brutta checca?», gli urlò contro Andreas, davanti a quasi tutto il resto della scuola. Poi era corso via e aveva raggiunto i suoi amici, preoccupandosi di avvolgere le sue lunghe braccia attorno al collo di qualche cheerleader, come se volesse metter in chiaro che lui non aveva niente a che fare con quel genere di cose.

Gabriel lo guardò in lontananza, mentre rideva a crepapelle con i suoi amici, sicuramente di lui.

“L’ho visto saltarmi addosso, mi sono preso un colpo!” gli lesse sulle labbra.

“È meglio che mi lasci in pace, altrimenti la riempio di botte, quella checca inutile!”

Gabriel represse a forza le lacrime, mentre vedeva passarsi davanti gli altri studenti. E, mentre se ne stava imbambolato in mezzo al corridoio, con lo sguardo fisso nel vuoto a pensare a cosa ne sarebbe stato di lui, una ragazza gli si avvicinò, fissandolo.

«Tu hai i capelli d’oro» disse con voce lieve.

Gabriel stropicciò gli occhi e, ancora con la fronte aggrottata, rivolse uno sguardo alla ragazza.

Aveva una chioma rosso fuoco, ardente, e gli occhi più belli che Gabriel avesse mai visto. Erano chiarissimi, come cristalli, azzurri e bianchi. Il suo viso era piuttosto emaciato, lei magrissima. Quell’espressione curiosa rimase impressa nella mente di Gabriel, non aveva mai visto nessuno così interessato a lui.

«I tuoi sono di fuoco», fece lui, sorridendole.

La ragazza scoppiò a ridere. «Sono nata così»

Gabriel alzò le sopracciglia. «Anche io sono nato così»

Lei fece un mezzo sorriso, scrutandolo negli occhi, senza distogliere lo sguardo. «Mi chiamo Marion»

«Gabriel»

Marion sorrise un’altra volta. Sembrava che quell’espressione serena non potesse mai andarsene dal suo volto. Mosse un passo verso Gabriel, aprì le braccia verso di lui e lo strinse a sé.

Il ragazzino restò immobile.

Marion si staccò e lo guardò un’altra volta. Occhi negli occhi. «Mi sembrava che ne avessi bisogno».

Gabriel la fissò, incredulo. Sì, era proprio quello che gli serviva.

 

  
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