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Autore: Vakarian    07/08/2012    3 recensioni
Si chiese cosa si potesse definire casa.
Gli uomini avevano conquistato innumerevoli pianeti, avevano imparato a costruire pianeti artificiali. Eppure, continuavano instancabilmente la loro ricerca. Continuavano a cercare una casa, e l'avevano cercata così a lungo, così spasmodicamente, che quella parola - casa - per loro aveva perso significato.
Cos'era una casa? Un luogo preciso? Una persona? Una sensazione?
Qualcuno diceva che non c'erano più speranze. Avevano distrutto e abbandonato il loro pianeta; avevano dimenticato le loro origini. Si erano ammalati, e avevano perso la memoria. Avevano perso la Terra, e proprio per questo nessun uomo sarebbe più riuscito a sentirsi a casa.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.1 - Dianna: Tacofobia


Charon, uno dei tre soli di Echo, stava per tramontare.
I tramonti a Hera erano sempre lentissimi. Dee non ci si era ancora abituata, anche se ormai viveva su Echo da tre anni. Non si era abituata a quei tramonti, né allo strano profilo di torri e palazzi allungati di quella città, né all’odore della pelle sintetica dei sedili del tram, né all’idea di lavorare alla LEXA.
«L’hai sentito? Ne sono tornati altri due.»
«Dall’aldilà?»
«Già. Anche lui ha parlato delle stesse cose. Di un’immensa stanza. Erano tutti lì... con macchine, o droni, a monitorarli…»
Dee smise di prestare attenzione alla conversazione dei due uomini seduti dietro di lei e guardò fuori dal finestrino, ma tutto scorreva troppo velocemente davanti ai suoi occhi. Distolse lo sguardo.
«Certo, adesso andranno avanti a raccontare le stesse cose finché non se ne dimenticheranno.»
Non riusciva a sentirsi a casa, a Hera. Probabilmente era per via della gente delle Vecchie Colonie, per via del lusso o degli ambienti asettici.
In ogni caso, non aveva intenzione di tornare indietro. Era stata fortunata a trovare un impiego nelle Vecchie Colonie. Non era facile riuscire ad essere assunti dalla LEXA – non era semplice riuscire ad ottenere da loro neanche un semplice colloquio, a dire il vero. Molti consideravano il suo lavoro invidiabile e prestigioso. Dee non trovava niente di invidiabile nel lavorare per un’azienda che vendeva mercenari, ma la pagavano bene e questo le bastava, per il momento.
«Non dirmi che ci credi, Gaius.»
«Non saprei...»
Dee scese dal tram all’ultima fermata prima del capolinea.
Si trovava in periferia, in un quartiere residenziale. Le strade erano quasi sempre deserte e silenziose, anche perché erano poche le aeromobili che sorvolavano quell’area. I passanti che incontrava di tanto in tanto andavano sempre di fretta. Dee invece adorava passeggiare lentamente per quelle strade – forse per questo chi la incrociava la guardava sempre con un’espressione mista tra curiosità e fastidio.
Erano in pochi a visitare la biblioteca di Hera, a parte qualche studioso o qualche vecchio bibliofilo. La carta era un’inutile lusso, ormai – Dee non avrebbe saputo dire esattamente da quanto tempo le cose stavano così; sicuramente da generazioni. Ormai soltanto l’Unione usava la carta, esclusivamente per le sue comunicazioni ufficiali. La carta era tanto costosa da fabbricare quanto inutile, ormai – così come tutte le biblioteche che nelle Vecchie Colonie la conservavano. Non conservavano soltanto libri, ma anche quaderni, diari, quotidiani, riviste, o fumetti; ma per molti era inutile e scomodo raggiungere una biblioteca per consultarli, dato che le loro riproduzioni fotografiche erano accessibili da qualunque tab.
A Dee piaceva quella biblioteca. Era un luogo familiare, in cui si sentiva a suo agio. Non riusciva a spiegarsi perché. Prima di trasferirsi su Hera non era mai stata in una biblioteca, né aveva mai visto o toccato un libro di carta. Tuttavia, fin dalla sua prima visita, si era sentita inspiegabilmente al sicuro in quel silenzio e tra quegli scaffali. Forse perché i libri della biblioteca non cambiavano e restavano fermi nello stesso posto ogni giorno, pazienti – a differenza dei passanti delle strade di Hera che, sempre di fretta, scappavano ovunque, impedendole di memorizzare i loro volti per riconoscerli quando li avrebbe incrociati di nuovo. Dee non avrebbe saputo dire se incontrava ogni giorno gente diversa, oppure se incontrava sempre le stesse persone – che non sarebbe mai riuscita né a conoscere né a riconoscere. I libri di carta dentro la biblioteca, invece, erano sempre uguali. Anche i dipendenti della biblioteca erano sempre uguali, e anche quelli che si fermavano spesso nella biblioteca come Dee erano sempre le stesse persone – ed erano anche piuttosto abitudinarie: occupavano sempre gli stessi posti e rispettavano gli stessi orari. Tutti, dipendenti e visitatori, si muovevano lentamente dentro la biblioteca. Appartenevano a una dimensione diversa, dove si misurava il tempo e lo spazio in un altro modo.
Quando raggiunse la biblioteca, Dee si accorse che Tim Grayson, il vecchio custode, stava chiudendo il portone. Guardò l’orologio: non era ancora l’orario di chiusura. Gli si avvicinò e lo salutò. Lui la guardò perplesso, senza riconoscerla. Si sistemò gli occhiali spessi sul naso e strizzò gli occhi.
«Dianna» disse, dopo averla fissata per un po’ senza cambiare espressione.
«Già.»
«Purtroppo da oggi siamo stati costretti a modificare gli orari. Ci hanno ridotto i fondi, sai…» disse Tim, e abbassò lo sguardo sul grosso mazzo di chiavi che teneva in mano. Cominciò a esaminarle una per una, cercando quella giusta.
«È questa, signor Grayson» disse Dee, indicando la chiave più lunga del mazzo.
L’uomo prese la chiave fra le dita e la rigirò, fissandola. Poi guardò Dee.
«Hai ragione, Dianna. È proprio questa…  A volte mi pento di aver insistito così tanto per avere un portone così. Con le chiavi» spiegò Tim, parlando lentamente e facendo lunghe pause, come suo solito. «Ma non so. La nostra biblioteca è una ricostruzione. Anche all’interno. Un portone così, automatico… non so.»
Tim afferrò il battente del portone, ancora socchiuso, tirandolo a sé; qualcuno, però, lo tirò dall’interno nella direzione opposta, impedendogli di chiuderlo.
«Aspetti, signor Grayson!»
Tim fissò il portone, confuso. Poi si allontanò, per lasciare uscire la persona che stava per chiudere all’interno. Era uno dei dipendenti della biblioteca, quello con i capelli biondo scuro sempre spettinati e gli occhi grigi. Le era capitato di incontrarlo tra gli scaffali mentre controllava lo stato dei libri, qualche volta.
«Ah, Garrett, sei tu…» mormorò. «Chi altro poteva essere, del resto? Non rispetti mai gli orari di chiusura!» lo rimproverò.
Garrett si passò una mano tra i capelli, imbarazzato.
«Mi dispiace. Ha ragione, ma ogni volta sono così preso dal lavoro che dimentico di guardare l’orologio…»
Tim scosse la testa e sospirò.
«Lavoro, lavoro. Come devo fare con te?» Tim chiuse il portone con un tonfo e infilò la lunga chiave nella toppa. «Finirò per chiuderti sul serio qui dentro, un giorno o l’altro» concluse. Poi guardò Dee. «Conosci Dianna, no?»
«L’ho visto, qualche volta…»
«Sì, la vedo spesso venire in biblioteca» la interruppe Garrett. «Ma non ci siamo mai presentati» osservò, e le sorrise.
«Garrett è il nostro restauratore. Restaura libri» spiegò Tim.
Rimasero bloccati per qualche secondo in un silenzio imbarazzante. Poi Tim diede a Garrett una pacca sulla spalla, salutò Dee con un gesto della mano, e si incamminò verso casa.
«Allora ci vediamo.»
«Ci vediamo!» la salutò Garrett.
Dee si voltò per tornare indietro e raggiungere la fermata, ma si accorse che Garrett si era mosso nella sua stessa direzione. Si scambiarono uno sguardo imbarazzato. Decisero tacitamente di fare la strada insieme.
«Restauri i libri, quindi…»
«Già.»
«Deve essere impegnativo.»
«Non ho molto da fare. Potrei salvare molti più libri, ma non abbiamo i mezzi, né i fondi. All’Unione non interessa conservarli. Parlano di chiudere le biblioteche, ultimamente. Per riciclare tutta quella carta.»
«No!» esclamò Dee. Garrett sorrise.
«Non sono poi così utili le biblioteche, ormai. Esistono le riproduzioni digitali di tutti quei libri. A nessuno interessa toccarli e sfogliarli.»
«A me piace. Adoro l’odore della carta.»
«Non dirlo a me. Soprattutto della carta vecchia.»
«C’è differenza?»
«Certo! La carta dei libri antichi profuma di liquirizia» cominciò a spiegarle Garrett, con un’aria così seria da fare sorridere Dee.
«È vero!» le assicurò Garrett, credendo che stesse sorridendo perché non lo prendeva sul serio; ma Dee non poteva dirgli che era l’enfasi e l’entusiasmo con cui parlava del suo mestiere a renderlo così tenero e buffo. «Va bene, se non ci credi vieni a cercarmi appena torni in biblioteca.»
«Ti credo, ti credo. » gli disse, abbassando lo sguardo sul marciapiede.
Camminarono rimanendo in silenzio per un po’. La luce si era fatta più tiepida e più obliqua, l’aria più fredda e umida. Il secondo sole stava per tramontare.
«Sei delle Nuove Colonie, vero?» chiese Garrett.
«Il mio accento si sente così tanto?»
«Un po’» confessò Garrett. Dee rise.
«Vengo da Urania. E tu?»
«Hesper.»
Anche Garrett proveniva dalle Nuove Colonie. Ecco perché aveva riconosciuto il suo accento.
Un passante urtò il braccio di Dee nel sorpassarla, mormorando qualcosa come un rimprovero perché stavano occupando tutto il marciapiede, camminando troppo lentamente. Non riuscì a capire cosa il passante stesse dicendo, perché camminava a passi rapidi e si allontanò prima di completare la frase. Dee, ormai, c’era abituata.
A Hera camminava più lentamente degli altri. Era stupita dal fatto che Garrett riuscisse a camminare al suo fianco senza sembrare insofferente. Non le era mai capitata una cosa simile, da quando si era trasferita su quella città. Era strano. Ormai si era rassegnata all’idea di viaggiare a una velocità diversa. Raggiungeva le sue mete sempre un po’ più tardi – ed era costretta, in ogni caso, a rimanere più a lungo sul campo di battaglia. Era costretta a guardare la realtà trascorrere e trasformarsi davanti ai suoi occhi, cambiare. E anche – spesso – a restare da sola. Perché era sempre l’ultima ad andarsene.
Dee si accorse di aver raggiunto la fermata del tram.
«Io mi fermo qui» disse a Garrett.
«È stato un piacere, Dianna.»
«Puoi chiamarmi Dee.»
«Allora ci vediamo.»
«Ci vediamo.»
Arrivò il tram. Dee salì, e Garrett la salutò con un sorriso.
Le porte del tram si chiusero sibilando, e il mezzo ripartì.
Dee guardò l’orizzonte dal finestrino: anche Geryon era tramontato. Adesso toccava all’ultimo sole. Distolse lo sguardo quando il tram iniziò ad accelerare.
Sentiva qualcosa di molto simile a quanto provava sempre nella biblioteca. Era solo più intenso e complesso. Si sentiva a casa. A Hera non le era mai capitato, nemmeno nel suo appartamento o nel suo ufficio alla LEXA. Non sapeva spiegarsene il perché. Non aveva fatto niente di diverso. Aveva solo camminato fianco a fianco con uno sconosciuto. Era strano che bastasse quello.
Non appena si convinse della sua stranezza, quella sensazione svanì.
   
 
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