(Versione
riveduta e corretta il 24/03/13)
Margareth, a soli
vent’anni, era già una scrittrice di fama mondiale.
Scriveva storie drammatiche da quando era una ragazzina: bearsi del suono che i
tasti della sua malconcia macchina da scrivere le regalavano era ormai più di
un hobby, più di un lavoro: dar voce - se così si poteva dire - alla sua
ispirazione era ormai diventato parte integrante della sua vita, a tal punto
che passare più di qualche giorno senza stendere qualche riga avrebbe potuta
portarla al degenero, se non fisico, perlomeno emotivo.
Sì: scrivere di sventure, tristezza e desolazione la appagava. Non capiva il
motivo di così tanto sadismo, ma non si faceva troppi problemi a riguardo. Le
sue personali teorie a proposito comprendevano la rabbia repressa, il
crogiolarsi nei propri dolori aiutandosi col tipico pensiero del "c'è chi
sta peggio di me" e la pazzia sconsiderata della sua mente anormale che,
per qualche motivo, riusciva ad avere solo idee catastrofiche.
Poco male, si consolava. Sono solo storie. Solo una scellerata fonte
di divertimento.
Aveva appena mandato le sue ultime bozze all’editore quando, quella sera, andò
a dormire. Benché la calura estiva fosse insopportabile durante il giorno, in
quel momento una sferzata d’aria fredda le colpì le braccia nude facendola
rabbrividire.
Strano, pensò. Non avevano previsto temporali né forti venti per quella sera, e
le sembrava sospetto che tale frescura comparisse proprio al venti di agosto.
Tuttavia non badò a farsi paranoie e, stanca, andò a coricarsi.
La svegliò il rumore di foglie secche che grattavano contro il vetro della
finestra. Margareth sapeva che avrebbe dovuto far
tagliare quel maledetto ramo troppo cresciuto che la svegliava ogni benedetta
notte, ma in quel momento lasciò da parte la collera con sé stessa.
C’era qualcosa di strano in quel suono. Qualcosa di sbagliato.
Il grattare del ramo era sempre stato così intenso? Così duraturo? Così
agghiacciante?
La tapparella, abbassata solo per metà, non cigolava come faceva di solito
quando c’era vento.
Cosa stava facendo muovere il ramo?
Margareth non era di quel genere di persone fifone,
di quella gente che si fa i filmini mentali e che ha paura per tutto. Scrivere
storie horror l’aveva irrobustita, se così si poteva dire; poteva vantarsi di
avere un bel coraggio.
Tuttavia, titubante, si avvicinò al vetro freddo della finestra e sbirciò verso
il giardino.
Il ramo penzolava dal tronco dell’albero, falciato mostruosamente proprio alla
larga attaccatura. Eppure, contro ogni logica, sul vetro della finestra erano
incisi tre graffi lunghi e paralleli, proprio all’altezza dei suoi occhi.
«No, no», mormorò Margareth fra sé, ma il suo sguardo
saettava ancora dai graffi al ramo spezzato.
Si pizzicò un braccio: perché doveva essere un sogno, non poteva essere
vero. O forse suo padre doveva aver chiamato i giardinieri quel pomeriggio,
mentre lei era fuori, e rientrando Margareth non
doveva aver notato il cambiamento. Quel ramo non poteva essere caduto da solo,
non poteva. Aveva un diametro largo almeno venti centimetri, per la miseria.
Turbata, tremante e timorosa, si avvicinò all’armadio per arraffare una coperta
in più, speranzosa che forse il vento gelido di quella sera l’avesse
semplicemente scossa un po’. Aveva solo bisogno di mettersi a dormire al caldo,
e tutto sarebbe andato meglio.
Incurante, afferrò la maniglia dell’armadio e spalancò le ampie ante.
Lo scenario le fece girare la testa.
I tre corpi, appesi a gambe all'aria, si trovavano in una situazione così
cruenta da non poter nemmeno essere descritta sul serio. A Margareth
si rivoltò lo stomaco: perché non erano tre semplici corpi dissanguati e quasi
ridotti a brandelli. La mostruosità della situazione non era ancora abbastanza,
no. E lei se ne accorse solo dopo: lo fece mentre indietreggiava davanti a
quello scenario abominevole e spregevole, tentando di trattenere le lacrime e
di non svenire. Le corde che sorreggevano i corpi avevano iniziato a ruotare
lentamente su loro stesse, come in una danza infernale, mostrando i visi ancora
cristallizzati nel terrore delle tre persone anche troppo a lei familiari.
Erano loro. Ed erano morti.
Lewis, Emma, Sophie. Il padre, la madre, la
sorellina.
Sulla parete dell’armadio, scritto col sangue delle vittime, un messaggio.
“Ti diverti a scrivere drammatici, vero?
Trascini i tuoi personaggi dentro veri e propri incubi, uccidi i loro
familiari, li fai annegare nel terrore e godi delle disgrazie altrui.
Hai torturato i tuoi protagonisti per anni, riempendo
di lacrime tutti i tuoi fidati lettori.
Te la sei spassata?
Bene, ora è il tuo turno di vivere l’incubo”.
«NO!», urlò Margareth, terrorizzata. «No, no, NO!
BASTA!».
Gridava ancora mentre, con uno scatto repentino, sbatteva l’anta dell’armadio e
si raggomitolava sul terreno. «È solo un sogno», urlava istericamente. «È solo
un sogno, un semplice incubo, un dannatissimo prodotto della mia mente!».
È un sogno, è un incubo, un incubo, continuava a ripetersi.
Ma dal sogno non riemerse.
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(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio
crede)
Angolo Autrice
Mi
presento: sono Marianna, ma tutti mi chiamano WaryJMS.
Questa è la prima volta che scrivo un’horror e, sinceramente, non so cosa possa
aver prodotto. Per questa storia mi sono ispirata alla leggenda metropolitana
delle sorelle Lisa e Sara Smith, una storia che mi è stata raccontata alcune
sere fa. Da quel momento in testa ho sempre avuto questa rivisitazione e… beh,
ecco cosa la mia mente bacata ha partorito!
Spero di non aver scritto una ciofeca.
Le recensioni sono sempre gradite!
Baci,
WJ.