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Autore: Ortensia_    10/08/2012    3 recensioni
Stanze.
Stanze buie dalle quali potrà uscire sempre e solo una Nazione.
Chi dovrà sfidarsi, in questo gioco macabro ed inumano?
Chi vincerà?
Solo il vincitore deciderà delle altre vite ...
[_Fra le storie più popolari dell'anno 2012/13 su Axis Powers Hetalia: più recensioni positive_]
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XX - Titani


Stanza: Nr. 19, Stanza di Eris
(Dea del caos)
Posizione: Nucleo centrale
Dimensioni: 80 m2
Temperatura: Indefinita
Fonti di luce: Cerchio di fiamme
Ore: 17:30 - 23:44



Quella stanza aveva qualcosa di decisamente differente rispetto a tutte le altre, ed Ivan se ne rese conto non appena, superata la crepa formatasi nella stanza precedente, e poi un muro di ghiaccio ed una muraglia di fuoco, si ritrovò al centro di essa, con le suole delle scarpe immerse in una strana terra, come bruciata, o mista a cenere, nera ed argentea.
Non c’era via d’uscita, perché la muraglia di fuoco era tornata a crepitare ed illuminare la stanza con la sua integrità, e lo teneva stretto in un cerchio rovente dove, alle spalle di questa, il muro di ghiaccio era ritornato a ricoprire ogni singolo centimetro della parete umidiccia.
Un pungente odore di zolfo, ed un sudore freddo davvero fastidioso.
Sentiva l’aroma delle fiamme mescolarsi con la frescura del ghiaccio, e tutto ciò riusciva soltanto a mettergli ancor più nausea addosso, mentre provvedeva a fasciarsi stretto il torace ferito, stringendo i denti per il dolore.
Per fortuna, il proiettile che aveva colpito la coscia sinistra, gli aveva provocato una ferita molto meno grave di quella al torace, e perciò riteneva giusto doversi concentrare soltanto su quella più disperata, finché aveva tempo per farlo.
Il taglio allo sterno, ormai, non lo sentiva più, per il pugno sulla faccia, era ancora sporco di sangue, ma il dolore stava scomparendo velocemente.
Finito di annodare il lembo di tessuto intorno al torace, tese entrambe le mani in avanti, poco lontano dal suo viso, ed ecco che subito fu appesantito da una grossa bombola verde militare ed un lungo fucile scuro collegato ad essa da un tessuto isolante.
E così, alla sua collezione, insieme alla balestra, al machete, alla pistola e al kalashnikov, si aggiungeva un lanciafiamme.
Sistemata la pistola e il machete fra la cintura e i pantaloni, si caricò sulla spalla destra la balestra, e sulla schiena la bombola del lanciafiamme, sistemando il fucile di questo proprio fra essa e la schiena, per poi stringere saldamente il kalashnikov fra le mani, rimanendo immobile al centro del cerchio di fuoco, soltanto con qualche movimento impercettibile degli occhi, attenti ed ansiosi di cogliere qualche movimento oltre il crepitare d’oro rovente delle fiamme.

Erano passate ore ormai, da quando era lì ad attendere: il suo avversario ci stava mettendo davvero troppo tempo, e non ne comprendeva il motivo.
Nell’intervallo fra un crepitio e l’altro, finalmente, riuscì a percepire un debole passo alle sue spalle, e così si voltò velocemente, già puntando il kalashnikov in avanti.
Non appena lo vide, le sue labbra si incrinarono in un ghigno soddisfatto, gli occhi si assottigliarono, e il dolore di ogni ferita causatagli in precedenza parve scomparire, con ogni muscolo che già assaporava l’adrenalina e la voglia di ucciderlo, l’estati che fosse proprio quello il suo avversario.
Invece, sul viso dell’americano, era disegnata esattamente l’altra faccia della medaglia: aveva ancora gli occhi gonfi di lacrime, la testa appena china, le labbra ripiegate verso il basso e ferite dai suoi stessi denti, e non ebbe reazione quando si rese conto che quell’avversario era forte e pazzo, forse più pazzo di lui, che dopo aver pianto ancora, stretto al suo Arthur per diversi minuti, pareva aver ritrovato almeno un po’ della vecchia lucidità.
«Penso che sia l’ultima stanza.
E a quanto pare potrò vendicarmi~» il russo sorrise allegro, senza scostare gli occhi da quelli dell’americano: dopotutto era stato Alfred ad ucciderlo a Berkeley Square. E poi aveva sparato a Gilbert, quando lo avevano scoperto.
Al suo coniglietto, e lui non era neppure potuto andare a trovarlo all’ospedale.
Oh sì, si sarebbe vendicato, perché non c’era desiderio più forte, in quel momento.
Lo statunitense si rese conto che la ferita alla spalla, quella al petto e quella al torace, dovevano essere ignorate, perché Ivan avrebbe fatto fuoco molto presto e non gli avrebbe lasciato tempo di sistemarle; così si affrettò a sistemare la balestra sulla spalla, a caricare il fucile sulla schiena e a stringere l’arpione fra le mani.
Ivan era forse messo peggio fisicamente, con quella ferita al torace, ma lui, ora, aveva la mente occupata soltanto dal pensiero di Arthur, e non aveva voglia di combattere, non riusciva a percepire quella sete di uccidere che lo aveva accompagnato fino alla stanza precedente.
In più, le armi del russo, erano decisamente migliori delle sue.
Migliori, finché non arrivò la sua quarta arma, proprio davanti ai suoi occhi.

Le labbra dell’americano si incrinarono in un ghigno.
Non tutto era perduto.
E ora che ci pensava, perché doveva morire dopo aver ucciso Arthur? Quel sacrificio non sarebbe stato vano.
Avrebbe salvato la situazione, da bravo eroe.

«Ahahah! Russia~!
Forse lo sarà per te!»
Perso nuovamente ogni briciolo di lucidità, rise divertito: non c’era più un’altra faccia della medaglia.
In quel momento, entrambi, si erano già lasciati andare alla pazzia, e non vedevano l’ora di veder scorrere il sangue dell’altro, sentire il rumore delle sue ossa frantumarsi sotto i propri colpi.
Il vecchio Alfred, quello di mesi e mesi fa, quello che era sempre allegro e spensierato, non faceva altro che ridere e che poco prima era rinato dalle ceneri, per piangere la persona amata, pareva di nuovo essersi profondamente assopito, e non aveva alcuna intenzione di tornare a cercare la ragione e la razionalità.
Per Ivan, invece, il mostro che si era risvegliato in lui dalla sua prima stanza in poi, non l’aveva mai lasciato, anzi, lo aveva spinto ad uccidere Natalia e Katyusha, ma poco gli importava, forse meno di zero.

Un lanciarazzi a ricerca termica.
Ecco l’arma tanto preziosa con cui la sorte aveva deciso di premiare Alfred.
Ad Ivan, per un attimo, il suo lanciafiamme e il suo kalashnikov non sembrarono niente, se non un peso troppo concreto che avrebbe soltanto reso la sua condanna molto più probabile.
Quando vide le labbra dell’americano muoversi in fremito, capì che presto avrebbe lanciato il suo attacco, ed ebbe appena il tempo di pensarlo, perché già un razzo affilato stava stridendo nell’aria e venendo a tutta velocità verso di lui.
Alfred sembrava già piuttosto entusiasta, quando vi fu uno scoppio piuttosto violento non troppo lontano da lui: l’aveva preso.
E invece no.
Il sorriso agghiacciante sul volto dell’americano si tramutò a fatica in una smorfia, con gli occhi confusi che si rivolsero al russo: solo qualche bruciatura qua e là sul suo vecchio cappotto beige, niente di più.
«Sono a ricerca termica, dopotutto~» Ivan inclinò appena la testa, sorridendo allegro. Erano circondati da un cerchio di fiamme: come poteva pretendere, Alfred, di riuscire a direzionare con precisione i razzi verso di lui? Di certo la loro ricerca termica veniva compromessa da tutto quel calore, ed Ivan avrebbe indirizzato la cosa a suo favore.
“Che idiota.”
L’espressione del russo si fece improvvisamente seria, e allora, senza troppi complimenti, azionò il kalashnikov.
«Ah-!» lo statunitense si gettò a terra e riuscì ad evitare il grosso proiettile, per azionare a fatica l’arpione.
«Nh!» ed ecco che però, nonostante fosse costretto a terra, un po’ troppo vicino alle fiamme, riuscì ad arpionare la spalla del russo, riducendola a brandelli di carne, mentre le mani di questo cercavano in tutti i modi di liberarsi dell’arpione ed il kalashnikov era stato lasciato cadere a terra.
«Ahahah! Ma guarda un po’ chi ho catturato!» e rialzandosi, non poté che strattonare forte la corda dell’arpione, facendo cadere a terra il russo.
Senza esitare, però, nonostante il dolore, lo slavo afferrò la pistola e sparò due colpi contro l’americano, colpendolo sulla spalla già ferita e sul braccio in modo da fargli lasciare la presa sull’arma che li teneva collegati.
«Shit-» e mentre l’americano si affrettava a tamponare sulle ferite, stringendo i denti per il dolore, Russia riuscì finalmente a liberarsi dall’arpione e sospingerlo lontano, con un calcio furioso.
«America …» sibilò appena, assottigliando il proprio sguardo con la pistola ancora stretta fra le dita.
«N-non-» i denti stretti dell’americano, nonostante tutto il sangue che ora gli stava ricoprendo il braccio, parvero più un sorriso che una smorfia di dolore «non puoi fermarmi con due stupidi proiettili.»
E senza un minimo di esitazione, l’americano, lasciò scivolare la balestra poco più in basso della spalla, azionandola e liberando una micidiale freccia che andò a colpire la gamba del russo, lì dove era già stata ferita la coscia.
Le gambe di Ivan cedettero appena, e mentre il russo si affrettava a togliere la freccia dalla carne, Alfred si tuffò subito a recuperare l’arpione, che di lì a poco sarebbero tornato a squarciare la spalla del suo avversario.
«Ah!»
«Ma che cos’hai? Ahahah! Sei diventato un rammollito!»
Ma lo statunitense non si era accorto del sorriso infimo stampato sul viso del russo.
Quando entrambe le mani dell’americano si strinsero intorno alla corda dell’arpione, in modo da tirare Ivan a sé ed aprire ancor di più la ferita, il russo afferrò il fucile del lanciafiamme e lo azionò.
Una veloce scia di fuoco ridusse in cenere la corda dell’arpione, arrivando alle mani dell’americano che urlò di dolore, quando sentì i palmi bruciare, affrettandosi a farli battere più volte sulla giacca per cercare di alleviare il dolore.
«Sta zitto, America.» il russo ampliò il suo sorriso, togliendosi nuovamente l’arpione dalla carne sbrindellata della spalla e questa volta gettandolo fra le fiamme.
Ivan ripose la pistola e diede un’occhiata al kalashnikov, ancora fermo lì, ai suoi piedi, poi emise un esclamazione vocale che parve piuttosto soddisfatta, quando afferrò la balestra fra le braccia.
«La tua è una bella balestra, ma non quanto la mia, da?» e senza neanche dare tempo all’americano di capire, la azionò, sparandogli un corpo dritto al torace.
«N-nh!» l’americano perse l’equilibrio, e si ritrovò a battere i palmi delle mani bruciati e già pieni di vesciche a terra, gemendo di dolore.
Poi, lo slavo, lasciò cadere a terra anche l’ultima arma utilizzata, tenendo custoditi nelle proprie tasche il machete e la pistola ed affidandosi soltanto al lanciafiamme, nell’avvicinarsi all’avversario.
«Facciamo un gioco America!
Io aziono il lanciafiamme, e tu scappi. Finché puoi~»

Assieme al cerchio di fuoco che li teneva intrappolati al centro della stanza, si ci misero anche le fiamme liberate dall’arma del russo a compromettere le cose.
Riuscì ad evitare ogni ondata di tutte quelle lingue di fuoco, ma quando Ivan parve fermarsi, il bruciore sul viso era così forte che era evidente che la sola vicinanza con esse gli aveva provocato delle scottature.
«Sei bravo, ma credo non abbastanza~» il russo sorrise allegro, mentre lo statunitense cercava di sfruttare tutta la rabbia che aveva in corpo, il fatto che si fosse ritrovato a piangere e cullare il corpo di Arthur stretto fra le sue braccia, poco prima, e che ora, da chissà quanto tempo, doveva combattere un mostro esattamente come lui.
Ivan era come il suo riflesso allo specchio: un altro psicopatico che, molto probabilmente, riusciva soltanto a fare del male e deludere.
Alfred lo sapeva bene, che nonostante Arthur avesse risposto al suo “ti amo”, era deluso da lui, e stava male, per lui.
E allora avrebbe ucciso quel suo riflesso.
Quell’orribile mostro tanto simile a lui.

Quando si rialzò si sfilò la balestra dalla spalla e la gettò nel cerchio di fuoco: delle stupide frecce non potevano reggere il confronto con un lanciafiamme, un kalashnikov, una pistola e Dio solo sapeva quali altre sorprese lo slavo potesse riservare.
Imbracciò il fucile e premette velocemente il grilletto, andando a segno e colpendo il russo alla spalla ancora intatta.
Il russo rimase immobile per qualche attimo, poi assottigliò il proprio sguardo e, nonostante entrambe le spalle terribilmente dolorante, tornò ad impugnare la pistola, cercando di colpire l’americano in pieno tempo.
Fallito un tentativo, riprovò, colpendolo al fianco destro.
«Ah-!»
Con i diaframmi che si sollevavano e si abbassavano velocemente, i respiri affannosi, le vesti insanguinate e i visi doloranti, i loro sguardi si incrociarono, e rimasero ad osservarsi per diverso tempo.

Ivan pensò alle ferite di Alfred: prima che lui lo colpisse al torace, con un proiettile, aveva notato un taglio non troppo profondo, ma comunque abbastanza lungo, probabilmente di una spada, poi aveva una macchia di sangue piuttosto marcata sul petto, come se lo avesse colpito qualcosa di piccolo, una freccia forse.
Gli aveva trapassato la spalla con un proiettile, ma quel punto pareva essere già stato colpito da un altro, poi il braccio, e la ferita più recente, al fianco destro. Poi le mani bruciate e piene di vesciche fastidiose.

Alfred pensò alle ferite di Ivan: aveva una lievissima macchia di sangue sullo sterno, probabilmente un taglio di una spada o qualcosa del genere, aveva la coscia sinistra ferita, sicuramente da un proiettile, così come il torace, la faccia che evidentemente aveva ricevuto un pugno piuttosto consistente, anche se non era proprio cosa da classificare come vantaggio.
Oltre a questo l’inconsistente ferita alla gamba, provocatagli dalla sua freccia, ma molto importanti il proiettile conficcato in una spalla e l’altra completamente sfracellata dai due micidiali colpi di arpione che aveva ricevuto.

Lo statunitense sorrise all’improvviso, e decise di rompere quel silenzio agghiacciante creatosi fra di loro.
«Tranquillo, tutto il sangue che c’è qui, sulla mia divisa, non è solo mio.»
Ivan rimase in silenzio, continuando ad osservarlo con indifferenza.
«Ahah! Se solo sapessi chi ho ucciso~!»
E d’un tratto, il cuore del russo parve fracassare la cassa toracica, da quanto fu forte il battito.
Rimase immobile, assottigliando il proprio sguardo e parlando con voce estremamente fredda.
«Chi?»

«Il tuo coniglietto~☆»
   
 
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