Desclaimer: Ehi, se davvero
tutto ‘sto ben di Dio fosse mio, probabilmente sarei piegata sugli script della
terza stagione con Steven Moffat e Mark Gatiss che mi parlano di citazioni e dettagli e pugni in
faccia. Fatto sta che sono qui, dunque niente è mio (il mio compleanno è ad
aprile, comunque, nel caso). E non vengo pagata per scrivere (tornare al punto
1 xD).
Note:
Johnlock. Husbandlock. Parentlock, sulla
scia di molte altre meravigliose fic che mi hanno
preceduta ultimamente. No, non chiedete, non lo so “come”. Tumblr
ha buona parte della colpa, comunque. Credo di avere anche un kink per la Tube.
Questo è il risultato di
quando mi dico “scrivo qualcosa di fluff” [#YouAreDoingItWrong].
Il cambio di tempo verbale
fra inizio e fine è voluto (per la cronaca).
Tutte le note sono a fondo
pagina, perché ci sono alcune precisazioni tecniche – che amo – che vanno
fatte. È comunque una cosa senza pretese, in attesa di altra ispirazione (che
penso sarà a capitoli).
Non sono convinta, ma fa
lo stesso.
A chi si vuole cimentare,
buona lettura ♥
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St. John’s
Wood Road
La
superficie dell’acqua nella vasca da bagno è immobile attorno a lui.
Sfiora
placida le punte dei pollici e degli indici delle sue mani, che ne emergono di
qualche centimetro. Circonda silenziosa la base delle ginocchia piegate. Stacca
dalla pelle gli abiti sommersi. I jeans neri, la camicia rossa a scozzese.
L’acqua
è gelida, ghiacciata ad un livello tale che John fatica a sentirsi ancora le
dita dei piedi come parte integrante del corpo. Ma c’è effettivamente poco che
sente ancora suo, in quel momento, in quel corpo.
Non
respira, John, o almeno non lo fa normalmente. Non lo fa per non increspare
l’acqua che arriva a lambirgli dolcemente il mento (il tocco più dolce ricevuto
da molto tempo). Trattiene il respiro per lunghi momenti, liberandolo in
piccoli e brevi soffi innocui, respirando solo dal naso. Farlo gli offusca la
vista, ma non ha intenzione di smettere. È l’unico modo che ha per impedire al
proprio cuore di riprendere il battito pauroso che aveva sostenuto fino a circa
mezz’ora prima. Probabilmente, la forza di quel cuore avrebbe fatto increspare
l’acqua. E lui non voleva far increspare
l’acqua.
Immobilità:
se doveva finire, sarebbe finita così.
Non
è trasparente, l’acqua. Ha assunto quel colore rosso opaco da quando si è
immerso ed ha atteso paziente che il turbamento dovuto alla sua presenza
svanisse lentamente (che l’acqua si abituasse a lui, alla sua intrusione, e tornasse
tranquilla, placida, immobile). Il colore del sangue che non è troppo, ma
nemmeno troppo poco.
Sangue
suo. Sangue non suo. Sangue suo e non
suo, mescolati insieme. Sangue di poca importanza (entrambi).
C’è
odore di ruggine (l’odore del sangue). Di terra e di polvere (la sfumatura di
nero nell’opaco del rosso). Di sapone (marginale) e di tè (immaginazione; la
teiera abbandonata in cucina, una tazza mezza vuota rovesciata e schiantatasi
sulle scale del secondo piano).
Il
gesto disperato di un padre. Se doveva finire, voleva che lo ricordasse così:
una tazza bianca a righe blu andata in frantumi sulle scale. Una metafora senza
senso, ma poetica (forse, e forse solo per lui).
C’è
un dolore sordo allo zigomo contuso. Un rivolo di sangue che gli scivola lungo
la tempia e colora l’acqua in cui è immerso. Un taglio sulla fronte che causa
la fuoriuscita di quel rivolo e che non smette di sanguinare. Graffi e
contusioni alle mani che bruciano insistentemente. Non c’è un osso che senta
integro, non un muscolo che non sia dolorante. Non un’anima, non più – l’aveva
persa nel buio, negli angoli scuri nascosti nella luce del neon francamente
accecante sopra la sua testa, che accecante non lo era mai stata
(ipersensibilità alla luce: probabile lieve trauma cranico).
Silenzio.
Pesante e racchiuso fra le quattro mura piastrellate di bianco. Rimbombi
lontani di passi al piano di sopra, passi in salotto, passi in cucina, passi in avvicinamento. Li riconosceva
(ovunque, sempre, per sempre).
Chiude
gli occhi, scivola in basso. L’acqua si agita. La superficie trema ed ondeggia
al suo movimento.
Non
è colpa sua, non è colpa di Hamish, non è colpa di Sherlock, non è colpa di
nessuno. Lui è un essere umano che dovrebbe far altro, nella vita. Una volta
era un soldato – non un essere umano – e gli andava bene così.
È
più facile affrontare i problemi quando puoi sparargli.
Chiude
gli occhi mentre si immerge. Sente i passi sempre più vicini alla porta del
bagno ma non gli importa.
Scivola
nell’acqua finché non sparisce. Scivola nel silenzio, nel freddo, nel mondo
ovattato sotto la superficie.
E
prega che sia il più indolore possibile.
Era
abbandonato su di una sedia davanti al tavolo della cucina da quelle che sembravano
ore – e forse lo erano davvero.
I
pantaloni grigi del pigiama, una maglietta bianca a mezze maniche, un
maglioncino color vinaccia non abbottonato. I capelli spettinati erano quelli
di chi si è concesso una doccia eterna, gli occhi fissi al pavimento quelli di
chi vorrebbe smettere di pensare ma non può (non ora).
Sul
tavolo, tre oggetti. Un foglio di carta, un anello d’oro, un cellulare.
Il
cellulare era il suo. Era quello con cui aveva mandato un messaggio a Sherlock
quattro ore prima al quale lui non aveva mai risposto. Un messaggio semplice:
“torna a casa”. L’implorazione che aveva seguito il “mi dispiace”, il “la cena
si raffredda”, il “qualunque cosa abbia fatto non era mia intenzione”, il “ti
amo”. Tutte parole a senso unico.
L’anello
era la fede. Quella che si era tolto dopo cinque anni e che non aveva ancora
rimesso al dito.
Il
documento, era un modulo prestampato che aveva avuto l’accortezza – e la
disperazione sufficiente – di scaricare da Internet. Adesso i moduli per le
richieste di divorzio li mettevano anche on-line. Come se non fosse già
abbastanza imbarazzante firmarli. Ammettere davanti ad un giudice di avere
fallito. Aggiungere al proprio stato civile la parola “divorziato”.
Sherlock
dell’ultima parte non ne sapeva niente ma, a sua discolpa, poteva dire che erano
tante le cose che Sherlock aveva smesso di ascoltare, nelle ultime ore.
Avevano
litigato. Di nuovo. Succedeva spesso, ultimamente.
Quella
mattina Sherlock si era svegliato di cattivo umore e John era troppo provato
per starlo realmente a sentire con la dovuta pazienza. Pazienza che ormai aveva
esaurito, perché erano cinque fottuti
mesi che Sherlock trovava ogni momento buono per discutere del suo lavoro,
del fatto che vivessero benissimo anche senza che lui andasse a lavorare come
medico in un ambulatorio sciatto, del fatto che quel lavoro lo stesse
allontanando dai casi e via dicendo, via dicendo, via dicendo. E John era
stanco, davvero stanco di spiegargli
ogni volta che lo faceva per stare più tempo con Hamish, perché il bambino non
si meritava due genitori sempre a correre per Londra a dare la caccia ai
criminali – ne bastava uno –, che mrs. Hudson ormai
era invecchiata troppo per fare la babysitter e che lavorare in ambulatorio gli
dava la possibilità di avere orari fissi ed uno stipendio da non disprezzare.
Ma
Sherlock era sordo ad ogni spiegazione e John non aveva più voce da sprecare in
capitolo.
E
così era cominciata la guerra di trincea. Silenzi, occhiate, discussioni ad
ogni ora del giorno e della notte. L’armonia di coppia in frantumi, il ritorno
di vecchi amici sgraditi (la nicotina per Sherlock, un dolore fantasma alla
gamba per John). Ed Hamish che sentiva, sentiva tutto, nascosto dietro le porte
o direttamente dalla sua camera, nonostante lui e Sherlock cercassero di
trattenersi dal discutere quando loro figlio era in casa (almeno su di una cosa
erano d’accordo, a quanto sembrava). Ma non ci riuscivano. E la nave affondava.
Il castello crollava. Metro dopo metro e pietra dopo pietra. Inesorabilmente.
Fino
al litigio di quella mattina, in cui Sherlock aveva messo in discussione la loro
famiglia. John sapeva benissimo che l’aveva fatto per rabbia, che aveva detto
tutto senza minimamente pensarci, che nemmeno sapeva quantificare la gravità di quello che stava dicendo, ma il
fatto stesso che fosse un ex-soldato orgoglioso e testardo – e che quelle
parole lo avessero ferito molto più a fondo del consentito – lo aveva portato
ad accendere il computer subito dopo che Sherlock aveva sbattuto la porta di
casa e a scaricare il modulo che ora giaceva sul tavolo sotto al suo sguardo.
Lui
amava Sherlock come lo aveva sempre amato. E amava Hamish, che biologicamente
non era suo, come se suo lo fosse stato davvero. Non aveva mai messo in
discussione quello, ciò che loro tre
erano diventati, e Sherlock semplicemente non poteva permettersi di farlo in sua
vece.
Nemmeno
per rabbia. Nemmeno se non intendeva farlo sul serio (e John sapeva che era
così, ma il perdono per quelle parole non riusciva proprio a trovarlo).
Sospirò,
massaggiandosi gli occhi con la mano destra. In una briciola di speranza
allungò la stessa mano sul cellulare, scorrendo la rubrica fino al numero di
Sherlock, facendo partire la chiamata.
Come
tutte le altre volte lungo il corso di quella giornata infinita, il telefono
squillò a vuoto.
Chiuse
la chiamata giusto in tempo per sentire dei passi lungo le scale, e la porta
d’ingresso aprirsi.
Da
quando Hamish era diventato abbastanza grande per dormire da solo, John gli
aveva ceduto la sua vecchia camera al piano di sopra, che era diventata a tutti
gli effetti il quartier generale del figlio (tranne quando doveva essere
pulita, ovviamente, cosa a cui pensava John).
Con
uno scatto veloce prese il modulo per il divorzio e lo voltò dalla parte bianca.
Suo figlio era fin troppo intelligente ed accorto per non avere già capito la
brutta aria che tirava fra i suoi genitori, non serviva una prova ulteriore di
cosa stesse passando loro per la testa.
Con
un passo leggero perfettamente udibile nel silenzio, Hamish Watson Holmes,
sette anni appena compiuti, si affacciò alla porta aperta della cucina.
John,
voltandosi, gli sorrise. Hamish era di qualche centimetro più alto rispetto ai
bambini della sua età, aveva la pelle chiara ed era magro; una testa di capelli
neri e lievemente mossi faceva da cornice ad un paio d’occhi di un azzurro
disarmante, rendendo palese la sua discendenza genetica. Se non fosse bastata
la sua spropositata intelligenza, ovviamente.
Era
maledettamente uguale a suo padre. Così simile che guardarlo faceva quasi male.
« Ehi, non è ora
che vai a dormire? » domandò John,
suonando forse più stanco e sfibrato di quanto in realtà volesse dare a vedere.
Hamish,
annuendo appena, entrò in cucina e gli si avvicinò. « Papà non è ancora
tornato? » domandò.(1)
John
scosse il capo. « Io e papà abbiamo
avuto una piccola discussione questa mattina, mentre tu eri a scuola » cercò di
spiegargli dolcemente: « probabilmente
tornerà stanotte » disse.
A
volte credeva che fosse inutile trattarlo ancora come un bambino. Hamish era
davvero molto intelligente, così tanto che temeva che avesse già perso tutto ciò
che gli rimaneva della sua infanzia... ma nonostante tutto era ancora un
bambino – che giocava, e si divertiva, e faceva finta di essere il capitano di
una nave pirata (tutto suo padre, sul serio) – e John non aveva semplicemente
il coraggio di fargli ingoiare la pillola amara. Hamish capiva lo stesso.
Hamish capiva sempre.
Capì
anche quella volta. In silenzio.
John
sorrise ancora. « Non ti
preoccupare, si risolverà tutto. È solo un brutto periodo » gli disse, mezza
verità e mezza bugia (cose che pensava realmente ma in cui non sperava
totalmente).
Suo
figlio annuì, allungandosi sulla punta dei piedi per posargli un bacio sulla
guancia. « Vado a letto.
Buonanotte » gli disse.
John
annuì, spettinandolo in una carezza. « Buonanotte figliolo » lo salutò.
Lo
guardò incamminarsi fuori dalla cucina, ma prima che potesse attraversare la
porta si fermò. Si voltò di nuovo verso di lui, guardandolo con le sopracciglia
aggrottate. « Papà? » chiamò.
« Sì? » rispose John, in
ascolto.
« Ti voglio bene. E
anche papà te ne vuole tanto, anche se non te lo dice spesso » gli disse.
John
si chiese, guardando suo figlio in piedi a poca distanza da lui, come quelle
semplici parole fossero in grado di mandarlo in brodo di giuggiole e sull’orlo
delle lacrime contemporaneamente. Probabilmente era il suo essere padre – per
quanto anti-convenzionalmente – a fargli quell’effetto (francamente
debilitante).
Annuì
al figlio, allargando il sorriso. « Lo so. Vi voglio bene anche io » gli rispose, un
groppo in gola che nascose il meglio possibile.
Quando
Hamish sparì e cominciò a salire le scale verso la sua camera, John chiuse gli
occhi e deglutì. Non aveva la minima idea di cosa sarebbe successo, ma la cosa
non gli piaceva a prescindere.
Lestrade
si concesse uno sbadiglio ampio, di quelli che quando richiudi la bocca ti
fanno male gli angoli delle labbra.
Si
passò la mano destra sugli occhi, infilandosela poi fra i capelli nel tentativo
di ritrovare se stesso – o qualunque cosa somigliasse alla forza di ritornare
nel proprio ufficio – prese i due caffè che aveva appena preparato – uno con un
cucchiaio di miele e l’altro con due cucchiaini di zucchero – e, facendo retro-front dal cucinino del commissariato, rientrò a passo
strascicato oltre la porta a vetro con la scritta “D.I. Gregory Lestrade”.
« Caffè » biascicò ad uno
slanciato Sherlock Holmes, ospite nel suo ufficio da quella stessa mattina, in
piedi davanti ad un tabellone di sughero su cui erano stati attaccati
fotografie e documenti riguardo all’ultimo caso in corso.
Come
Greg aveva immaginato, non diede il minimo segno di averlo notato. Tranne per
il fatto che si mise a parlare, anche se sapeva da fonti autorevoli (John) che
era in grado di farlo anche senza che nessuno fosse effettivamente presente
(dunque il dubbio che non lo avesse notato permaneva).
« C’è qualcosa che
ci sfugge » constatò,
aggrottando le sopracciglia infastidito, le dita delle mani unite appoggiate
alle labbra.
« E buon anno nuovo
» borbottò Lestrade
sorseggiando il proprio caffè, abbandonato in modo indecente sulla sedia della
propria scrivania. Erano ormai le undici e mezza di notte e dopo un’intera
giornata passata ai ritmi senza respiro di Sherlock Holmes, cominciava a
sentire la stanchezza.
Holmes
lo fulminò con la coda dell’occhio, ritornando quasi subito al tabellone. « Hai evitato che
la stampa diffondesse la notizia? » domandò.
Lestrade,
le labbra ancora sul bordo della tazza, roteò gli occhi. « Procedura
standard, certo » rispose.
« Mh... » mugugnò l’altro pensieroso: « dovrebbe essere
arrabbiato. Dovrebbe esserlo, cerca l’attenzione mediatica, quella che noi non
gli stiamo dando, e allora cosa sta aspettando? Se uccidesse qualcun altro
avrei tutte le informazioni che mi servono! » esclamò il detective, incrociando le
braccia al petto e tamburellando le dita sul proprio avambraccio.
Greg
sospirò. « Sherlock, noi
dovremmo evitare che uccida qualcun
altro » lo redarguì.
Holmes
gli rispose con una scrollata di spalle. « Sciocchezze » disse: « uccide in modo
troppo discontinuo, troppo diverso, troppo pulito. O meglio, si sceglie posti
sporchi che coprano le sue tracce. La metropolitana. Astuto, furbo, ma non
abbastanza, se solo riuscissi a capire lo schema. Uno schema che sembra non
esserci. Non esserci, no, e se non ci fosse? Ma non può non esserci, ci deve
essere, deve avere uno schema. È un
seriale, non un volgare psicotico... » pensò ad alta voce, cominciando a
riferirsi più a se stesso che all’ispettore.
Greg
sospirò, appoggiando la tazza alla scrivania. Aveva decisamente superato il
limite giornaliero della sua pazienza. Ora avrebbe cominciato a fare domande.
« Sherlock, siediti
» disse.
Il
moro lo ignorò.
« Sherlock! » chiamò ancora.
Holmes
lo ignorò di nuovo.
« Sherlock Holmes,
dammi la tua attenzione o giuro che il killer della Metropolitana lo prenderò
senza il tuo aiuto » minacciò.
Sherlock
si espresse in un sogghigno. « Mi piacerebbe vederti provare » ribatté.
Touché. Ma non era ancora finita. Sfoderò l’arma
che John (l’uomo che ci aveva prima convissuto, poi lo aveva sposato – figlio
annesso. Santo subito.) gli aveva detto funzionare la maggior parte delle volte.
« Per favore » gli disse, voce
ferma.
Vide
Sherlock serrare le labbra in un moto di stizza. « Tu devi smetterla di parlare con
John » borbottò,
girandosi definitivamente in sua direzione prima di aprire bocca di nuovo: « due minuti,
Lestrade. Dopodiché qualsiasi cosa tu mi voglia chiedere, cose che sono
chiaramente scollegate dal caso in corso e sì, sappi che te lo si legge in
faccia, io farò quello che mi riesce meglio, ovvero smettere di ascoltarti » avvertì,
sedendosi e prendendo in mano solo in quel momento la sua tazza di caffè.
Greg
non poté fare altro che annuire, accettando silenziosamente le condizioni.
Erano
più di dieci anni che conosceva Sherlock Holmes e mai, mai era rimasto per più di un quarto d’ora nel suo ufficio.
Sherlock Holmes era allergico a
Scotland Yard. Immaginava che gli venisse l’orticaria anche solo alla vista
dell’insegna all’ingresso. Motivo per cui c’era qualcosa di profondamente sbagliato
nella sua presenza lì e aveva fondamentalmente il timore che – purtroppo –
centrasse John.
Cercò
le parole giuste con cui iniziare. « C’è qualcosa che non va? » domandò.
Approccio
classico, ma confidava di portarlo sull’argomento pian piano, delicatamente.
Regola
numero venti delle relazioni con sociopatici iperattivi ad alto QI: mai
confidare, pianificare, supporre.
« Possiamo saltare
la parte in cui prendi il giro largo per chiedermi se c’è qualche problema con
John? » gli domandò
Sherlock in risposta.
Lestrade
si diede dell’idiota per averci provato e si arrese miseramente. « C’è qualcosa che
non va con John? » chiese dunque.
« Non sono affari
tuoi » rispose Holmes.
« Oh, andiamo,
Sherlock! » esclamò Lestrade,
mettendosi seduto meglio: « senza offesa, ma non voglio vederti nel mio ufficio
in pianta stabile ogni volta che tu e John discutete ».
« Questa è la prima
volta che lo faccio ».
« È anche la prima
volta che il litigio sembra grave » insisté Greg.
Sherlock
lo guardò, positivamente sorpreso. « Perspicace, Lestrade » ammise.
« Sì, beh, grazie » concesse
l’ispettore: « non era così
difficile ».
Il
detective sospirò, prendendo un sorso di caffè dalla tazza. Lestrade non si
perse l’espressione disgustata che riservò alla bevanda prima di abbandonarla sulla
sua scrivania, ma evitò di commentare in favore dell’attesa.
Attesa
che venne infine ripagata. « Io e John siamo in una sorta di... conflitto d’interessi » sputò quelle
parole come se fossero un misto di succo di limone e acido muriatico: « ...che si protrae
da un po’ » formulò.
« Da quanto,
esattamente? » domandò Greg.
Sherlock
evitò il suo sguardo inquisitore: « cinque mesi ».
Lo
Yarder annuì brevemente con il capo. « E quale sarebbe
l’oggetto di questo contendere? » domandò.
Sherlock
schioccò le labbra, infastidito, ma rispose comunque: « non voglio che
lui lavori » sputò fuori.
Lestrade
dovette riallacciare per un secondo i fili di ciò che conosceva della coppia Watson-Holmes: « come medico intendi? ».
Sherlock
annuì.
« Perché? » domandò allora Lestrade,
sinceramente stranito da quella sua richiesta.
Sherlock
lesse esattamente ciò che pensava, perché aggrottò la fronte in un’espressione
snervata. « Perché dice che
vuole restare di più con Hamish, che mrs. Hudson è
troppo vecchia per fare la babysitter e che Hamish è lievemente iperattivo, a
volte, situazione che la nostra padrona di casa potrebbe non continuare a
tenere sotto controllo per molto. E lui ha deciso di punto in bianco di
smettere di risolvere casi con me e
trovarsi un posto in una clinica medica francamente scadente e mediocre,
in cui lavora finché Hamish non esce da scuola per poi rimanere a casa con lui.
E si rifiuta di sentire le mie logiche e supportate ragioni per cui mrs. Hudson è perfettamente in grado di gestire nostro
figlio per una decina di ore e non ci capita tutti i giorni di andare “in giro
per la città a correre dietro ai delinquenti” come dice lui, citato fedelmente » si lamentò il
detective nel discorso più lungo – per lo meno su qualcosa di personale – che
Greg gli aveva mai sentito fare. Se non pensava alla stranezza del sentire
Sherlock Holmes parlare da padre,
ovviamente.
Stava
per dirgli qualcosa, ma il detective riprese parola prima che potesse farlo: « sono mesi che si
ostina a volerne parlare, e quando gli rispondo che per me la cosa è chiara
quanto inaccettabile, e che non c’è davvero bisogno di sprecare parole per
niente, lui perde le staffe. E comincia... » una pausa e un lungo sospiro, prima del
silenzio.
Anche
Greg sospirò a sua volta. Non aveva cuore di dirgli che due mesi erano troppi,
per risolvere un litigio così banale, ed era esattamente in quel modo che fra
lui e Cecile era cominciato ad andare tutto male.
Prima dei tradimenti. Prima della separazione. Prima del divorzio.
L’ultima
cosa che voleva era vedere Sherlock perdere l’unica persona che fosse riuscita
a mettergli un anello al dito e, soprattutto, a non farglielo togliere più.
L’ispettore
osservò di sottecchi la fede dorata all’anulare dell’altro, prima di ribattere:
« hai mai pensato
che la soluzione giusta sia effettivamente
quella di parlare con John? » domandò.
Sherlock
roteò gli occhi con fare incredulo. « Hai sentito anche una sola parola di
quello che ti ho detto? » domandò.
« Sì » disse Lestrade.
« Allora saprai che
ci ho già provato » disse a denti
stretti.
« Quello che ho
sentito è che hai imposto la tua opinione senza realmente considerare la sua. E
lui, che è orgoglioso e testardo tanto quanto te, per ripicca cerca di farti
arrabbiare » gli spiegò,
guardandolo dritto negli occhi e sostenendo lo sguardo decisamente alterato
dell’altro.
Poi,
con un breve sospiro, si strofinò di nuovo gli occhi con la mano. « Senti,
Sherlock... tuo marito è l’ideale del santo. Cioè, suvvia, ti ha sposato. Solo
Dio sa cosa voglia dire averti attorno 24 ore su 24. Ti conosce. Per questo
motivo non posso credere che tu sia riuscito seriamente a farlo arrabbiare fino
a questi livelli » gli disse
sinceramente.
« Questa mattina
l’ho accusato di non tenere abbastanza a me e ad Hamish » aggiunse
Sherlock.
« Sei un pezzo di
merda » fu il commento a
caldo di Lestrade.
Holmes
alzò il sopracciglio. « Grazie Lestrade,
le tue perle di saggezza illuminano il mondo di sapienza » ironizzò
amaramente.
« Non sto
scherzando, Sherlock » lo interruppe
l’altro: « non c’è uomo al
mondo, e ripeto: al mondo, che tenga
di più a te e a tuo figlio di John Watson ».
« Nostro figlio » specificò
Sherlock.
« Non è questo il
punto! » esclamò Greg,
stizzito: « ti rendi almeno
conto di cosa sei riuscito a dirgli? » domandò retoricamente, le mani sulla
scrivania ed il busto piegato in avanti verso l’altro.
Sherlock
mantenne il suo sguardo composto per un po’, ma poi capitolò e chiuse gli occhi
in un sospiro breve. Annuì in sua direzione, quasi come in un’ammissione di
colpa (non c’era niente di diverso, in effetti).
Lestrade,
per l’ennesima volta, si strofinò gli occhi con le mani. Calò fra loro un
silenzio pesante che fu il vibracall del cellulare di
Sherlock ad interrompere.
Lo
vide tirarlo fuori dalla tasca interna della giacca, osservare lo schermo e poi
appoggiarlo fra loro sulla scrivania. Sul display, Greg poté leggere “incoming call from:
JOHN”.
« Quante volte ti
ha già chiamato, oggi? » domandò allora a
Sherlock.
Quello
rimase silente per qualche istante. « Senza contare gli SMS? » rispose poi.
Si
trattenne dal ringhiare. « Non hai mai
risposto? » chiese poi.
Sherlock
negò con il capo.
« Pezzo di merda » soffiò lo Yarder.
« Ti stai ripetendo
» rimbeccò
Sherlock.
« Così lo impari
meglio » borbottò
Lestrade, osservando il cellulare vibrare contro il legno.
La
chiamata terminò. E, come tutte le altre di quella giornata, non ebbe risposta.
Un
altro silenzio profondo prese posto fra loro, entrambi indecisi se chiudere il
discorso e tornare al caso del serial killer della Metropolitana – chiamato
così perché amava uccidere le sue vittime nei condotti delle linee
metropolitane – oppure rimanere semplicemente in silenzio senza niente di
concreto da dirsi.
A
risolvere l’enigma, fu la suoneria del cellulare di Lestrade.
Lo
prese dalla tasca dei pantaloni e, osservando stranito il display, non seppe
bene cosa fare. « Sherlock? » chiamò.
Il
detective alzò di nuovo gli occhi su di lui.
Il
poliziotto gli mostrò il telefono. « Perché John sta chiamando me? ».
La
teiera fischiò sul fornello e John, staccandosi dal tavolo su cui si era
appoggiato nell’attesa, si affrettò a spegnere il fuoco per non svegliare
Hamish. Non c’era niente di meglio di un tè alle undici e venti di sera,
soprattutto se doveva sedare il tumulto di ansia, dispiacere e rabbia compresso
in un grumo in fondo al suo stomaco.
Spostò
la teiera dalla fiamma e aggiunse le foglie di tè. Lasciò in infusione per tre
minuti, aspettando pazientemente ed in silenzio, poi appoggiò il filtro in
acciaio sopra la tazza e verso il contenuto della teiera.
Il
solo odore dell’infuso ebbe l’effetto di riportare la sua mente ad una
situazione di tranquillità. Aggiunse mezzo cucchiaino di zucchero e qualche
goccia di limone – essenziale per l’Earl Grey – e senza nemmeno aspettare che si raffreddasse un po’
ne prese un sorso.
Il
paradiso. Separa gli inglesi da tè e non ci sarebbe stata più religione.
Sentì
tutta la tensione di quella sera scivolargli via dai muscoli e andare a
depositarsi da qualche altra parte – nelle giunture delle ginocchia, sulle
costole, nelle dita dei piedi. In posti in cui lo avrebbero lasciato in pace
fino al mattino successivo, o comunque fino alla prossima discussione.
Probabilmente
quella riguardante il divorzio che John era ancora indeciso se chiedere o meno.
Non
voleva finire in tribunale. Non voleva nemmeno qualche riconoscimento di tipo
monetario. Voleva solo chiedere a Sherlock di poter vedere Hamish, ogni tanto.
Per quanta pena potesse fargli diventare una di quelle coppie del tipo “il
prossimo fine settimana tocca a me tenerlo” oppure “io vado a prenderlo a
scuola il martedì e il giovedì”.
Scosse
il capo, deciso a non rovinarsi il tè con certi pensieri. Anello, foglio
(girato) e cellulare trovavano ancora spazio sul tavolo della cucina, lasciati
lì nella stessa posizione di un’ora prima, e probabilmente ci sarebbero rimasti
ancora per un po’.
Sospirò
di nuovo, soffiando piano sulla superficie ambrata della bevanda e puntando gli
occhi al soffitto, in direzione della camera del figlio. In casa regnava il
silenzio, dunque Hamish doveva essere veramente andato a dormire.
Sorrise.
Almeno non aveva preso tutto da suo
padre.
Come
faceva altre volte – e per distrarsi da tutta quella maledetta faccenda –
decise di andare di sopra.
Uscì
in pianerottolo con passo leggero e, salendo le scale il più silenziosamente
possibile, arrivò alla porta socchiusa della sua ex-camera da letto.
Sul
corrimano della scala erano appoggiati alcuni vestiti, disordinati e
stropicciati, uniti ad un paio di calzini appallottolati sotto di essi. Ad
occhio, nella semi oscurità, John contò due paia di pantaloni, una maglietta a
mezze maniche ed una camicia e, sbuffando, scosse piano la testa. Roba da
lavare. Quante volte doveva ripetere a quel ragazzino di portarla nel cesto
della biancheria invece di ammucchiarla sul corrimano? Non ascoltava mai. Come
il suo dannato padre.
Si
appuntò mentalmente di prenderla quando sarebbe sceso. Ultima volta che lo
faceva (se lo diceva sempre ma continuava a farlo comunque).
Tenendo
la tazza di tè con la sinistra ed aprendo lentamente la porta con la destra,
John si appoggiò con la spalla allo stipite ed osservò sorridendo il groviglio
di coperte nella stanza buia. Hamish aveva da sempre l’abitudine di dormire con
gli scuri aperti e le coperte fin sopra la testa, anche se John non era proprio
sicuro di come riuscisse a respirare.
Sorrise
dolcemente. Lui e Sherlock avevano preso l’abitudine, le prime volte in cui
Hamish era in camera da solo, di salire le scale in silenzio a notte fonda e
guardarlo dormire. Loro lo chiamavano “controllare che fosse tutto a posto”, ma
John ci andava solo per osservare il figlio ed ogni volta si ritrovava a
ringraziare mentalmente Sherlock, appoggiato allo stipite opposto al suo, di
aver reso parte anche lui della vita del piccolo Hamish. Anzi, di averlo reso
parte di quella vita e basta. Di avere, inavvertitamente o meno, realizzato il
suo desiderio inconscio di essere padre.
Hamish
non era suo ma lui non avrebbe potuto mai amarlo meno di quanto già lo amava.
E
il ricordo di uno Sherlock che gli sorrideva nel silenzio – come al solito
completamente consapevole di cosa stesse pensando – ora gli faceva stringere
dolorosamente il cuore.
Chiuse
gli occhi, scostando di nuovo gli occhi sul letto.
Ultimamente
Hamish aveva la passione per la Tube. Aveva cercato su Internet – con il loro
permesso, perché John era abbastanza contrario al fatto che a sette anni
cominciasse già ad usare il computer tutto il giorno – la storia della sua
costruzione, lo sviluppo progettuale di tutte le linee e le varie modifiche
alle tratte, rimanendo talmente assorto da precipitare in un mondo tutto suo
(di nuovo tutto suo padre).
Ne
era talmente rapito, che Mycroft per Natale gli aveva
regalato una vecchia mappa dei primi del novecento, ingiallita dal tempo e
dalla polvere, con lo schema di tutta la linea (molto più contenuto di quello
di oggi). Hamish l’aveva fatta incorniciare e l’aveva attaccata al muro, posizionandogli
di fianco una mappa attuale.
Un’altra
delle cose che John non aveva mai capito appieno. Così come Sherlock non capiva
il – o meglio, non era contento del – perché Hamish fosse così fissato con le
stelle. Una volta aveva persino annunciato la sua intenzione di voler studiare
Astrofisica all’università e Sherlock si era quasi strozzato con il tè. John
aveva riso per ore dopo che il detective lo aveva guardato sconvolto dicendogli
“le stelle, John?” come se fosse una cosa grave.
Gli
mancava. Gli mancava troppo per essere quantificabile. Cinque mesi prima andava
tutto bene ed era bastata una decisione, un cambiamento per distruggere la bolla
di felicità in cui John si era sentito protetto per più di sette anni.
Rivoleva
tutto indietro ma non aveva la minima intenzione di scusarsi. Aveva smesso di
chiedere perdono per cose che non aveva nemmeno fatto o si sentiva in diritto
di fare. Lasciare Hamish a mrs, Hudson, per quanto la
donna stesse con lui molto volentieri, era ingiusto quanto fare finta di non
notare che loro figlio fosse fin troppo esuberante, a volte.
Non
voleva abbandonare Sherlock ed il suo (loro) lavoro, era questo che Sherlock non
capiva. Lo avrebbe comunque aiutato a casa, nei suoi ragionamenti lunghi ed
intricati, lodandolo e facendo domande stupide con risposte ovvie come faceva
sempre. Solo, non lo avrebbe fatto correndo per Londra.
Ma
questo Sherlock non lo voleva capire. E allora lui non si sarebbe preso il
disturbo di spiegarglielo.
Sentendo
di nuovo un’ormai abituale fiotto di rabbia espandersi dal petto al resto del
corpo, prese un profondo respiro e tentò di calmarsi. Forse sarebbe stato
ingiusto svegliare Hamish... ma era uno di quei momenti in cui la vicinanza di
suo figlio faceva meglio di qualsiasi altra cosa al mondo.
Anche
quella del marito, in realtà, ma di lui non vi era traccia.
« Hamish? » azzardò
sussurrando, facendo un passo dentro la camera.
Non
arrivò risposta, né il cumulo di coperte si mosse.
John
sorrise appena. Sonno pesante. Riprovò.
« Hamish? » chiamò a voce un
poco più alta, ma ancora nessuna risposta.
Facendo
attenzione si sedette sul materasso. Appoggiò una mano dove, secondo calcoli
molto approssimativi, doveva trovarsi la spalla del figlio e lo scosse con
delicatezza.
E
da subito qualcosa gli sembrò completamente sbagliato. Ciò che stava toccando
era troppo morbido e... da quando Hamish era così piccolo?
Aggrottando
le sopracciglia scostò il lembo superiore della coperta... per trovarci sotto
un’altra coperta.
Arrotolata,
perfettamente formata per somigliare ad un corpo umano rannicchiato, ma era
comunque una dannata coperta. Il pensiero che si formò nella sua mente non
aveva nemmeno bisogno di avere un nome o una finalità.
Semplicemente,
il suo cuore si fermò per poi andare in tachicardia istantanea; una mano
invisibile gli strinse lo stomaco e gli congelò il respiro nei polmoni.
Era
scappato. Era scappato? No, non poteva essere vero.
Con
uno scatto improbabile colpì violentemente l’interruttore del lampadario di
fianco alla porta, reprimendo un verso d’orrore quando, strappando la coperta
via dal letto, vide quello che nel buio aveva già visto.
Era scappato.
« Hamish... » sussurrò con un
filo di voce, il respiro accelerato ed il cuore in aritmia. Lo sentiva
rallentare quasi fino a fermarsi per poi riprendere a battere violentemente
contro la cassa toracica, saltare un battito per guadagnarne un altro poco
dopo, raddoppiando quelli normali. Sapeva riconoscere un attacco di panico e
nulla avrebbe potuto convincerlo che non gliene stesse arrivando uno in quel
preciso istante.
« Hamish... S-Sherlock... » sussurrò di nuovo, la voce flebile; « SHERLOCK! » gridò poi,
girandosi in fretta verso le scale.
Ma
Sherlock al piano inferiore non c’era. Ed Hamish, in camera sua, non c’era. Era
da solo e suo figlio era fuori di notte, a Londra, in mezzo a tutti i criminali
che lui e Sherlock inseguivano nelle loro indagini. Un bambino di sette anni da
solo di notte a Londra. Da solo. Di notte.
Persino
i suoi pensieri erano aritmici, in loop sulle stesse
quattro informazioni: no Sherlock, no Hamish, di notte, da solo.
E
lui poteva fare solo una cosa.
Scattò
all’improvviso precipitandosi giù dalle scale, lasciando cadere la tazza di tè
che si infranse sui gradini. Si tolse la giacca a mezza via, liberandosi della
maglia ancora prima di entrare in cucina e recuperare il cellulare. Spinse il
tasto di chiamata rapida collegato al numero di Sherlock e, mentre lo sentiva
squillare contro l’orecchio, corse in camera da letto.
« Andiamo,
rispondi, questa è una di quelle importanti... » borbottò mentre si toglieva anche
i pantaloni del pigiama e recuperava quelli usati quel giorno, infilandoseli
con una mano sola. « Andiamo Sherlock,
maledizione! Rispondi! » imprecò a denti
stretti, aprendo la cassettiera e recuperando una camicia a caso (rossa a
scozzese).
« Cazzo, Sherlock! » imprecò rabbioso
quando capì che era inutile continuare a chiamare, chiudendo l’unico tentativo
che avrebbe usato per avvertirlo di ciò che stava succedendo.
Quando
lo avrebbe rivisto non solo gli avrebbe fatto firmare i documenti del divorzio
con il sangue, ma gli avrebbe anche spaccato il naso a suon di pugni e gli
avrebbe fatto sputare uno per uno tutti i denti a forza di calci in bocca.
Avrebbe potuto ucciderlo, in quel momento, e non se ne sarebbe pentito
nell’immediato.
Preso
dal panico e dalla rabbia, digitò sul telefono l’unico altro numero che sapeva
a memoria. Tenne stretto il cellulare con la spalla mentre si abbottonava la
camicia e i polsini, infilandosi le scarpe senza perdere tempo ad indossare i
calzini. Finalmente, la sua seconda possibilità rispose.
« Pronto? ».
« Greg, mi devi
aiutare, non riesco a contattare Sherlock » cominciò, allacciandosi la scarpa.
Un
attimo di silenzio si sentì dall’altra parte, ma John non aveva tempo di
chiedersi cosa significasse. « Greg! » ruggì frettoloso.
« Sì, ci sono » disse
semplicemente l’altro, come cadendo dalle nuvole (o semplicemente sorpreso dal
tono appena usato). « John, cosa sta– ».
« Hamish è scappato
» lo interruppe
John, senza dare il tempo all’altro di rispondere: « ho provato a
chiamare Sherlock ma quel maledetto idiota ha deciso di ignorarmi.
Rintraccialo, per favore, se lo chiami tu risponderà, ovunque cazzo sia! » ringhiò furioso,
terminando di allacciarsi le scarpe e fiondandosi in salotto per agguantare una
torcia elettrica.
« Va bene, va bene, ma ora stai calmo! » tentò di dire
Lestrade. Pessima scelta di parole.
John
lo interruppe di nuovo: « ti ho appena
detto che non so dove sia mio figlio e tu mi dici di stare calmo?! » sbottò
inviperito.
« Sì, scusa, hai ragione. Non era questo che
volevo dirti, devi ascolt– ».
« Limitati a quello
che ti ho chiesto e chiama Sherlock! » lo interruppe di nuovo John, dirigendosi
all’ingresso in quattro falcate per recuperare il giubbotto nero: « digli che sto
andando a cercare Hamish e di non farsi rivedere se ci tiene alla pelle, perché
appena mi capita sotto tiro gli apro la succlavia a mani nude. Ho ucciso per
molto meno! » gridò, chiudendo
il telefono e fiondandosi come un fulmine giù per le scale.
Fuori
dalla porta, con il freddo mite di fine primavera a colpirgli le tempie già
sudate, camminando veloce in una direzione a caso, cercò il terzo e unico
numero in rubrica che sapeva sarebbe stato realmente efficace.
« Mycroft? Scusa l’ora tarda ma ho bisogno di aiuto ».
Quando
John riattaccò, Lestrade doveva avere un’espressione così disagiata da lasciare
senza parole persino Sherlock Holmes. John e Sherlock avevano litigato e il
secondo non aveva risposto ad una telefonata del primo che aveva appena
trasformato la serata da un pozzo di noia in un vero inferno. O almeno, lo
sarebbe diventato una volta che Lestrade avesse detto a Sherlock l’oggetto di
quella conversazione telefonica.
Ma
Sherlock era Sherlock, e a Greg non servì dirglielo. Glielo lesse da qualche
movimento: dalle sopracciglia aggrottate, dal colletto della camicia che si era
tormentato per tutto il tempo in cui era stato al telefono o forse,
semplicemente, dagli occhi spiritati che sapeva
di avere in quel momento.
« Cos’è successo? » domandò il
consulting detective, tirando indietro le spalle e raddrizzando inconsapevolmente
la schiena.
Lestrade,
ancora alla ricerca della voce e del modo con cui comunicargli la notizia senza
provocare nell’altro pericolose reazioni di panico e/o rabbia – non esattamente
in questo ordine – riuscì solamente a dire « Hamish ».
La
mascella di Sherlock si indurì e lui scattò in piedi, strisciando la sedia sul
pavimento. Greg lo vide cercare inutilmente di mantenere un contegno ormai
andato per altri lidi. « Cos’ha fatto? » domandò – pretese
di sapere – poi.
L’ispettore
dovette deglutire, prima di parlare: « John dice che è scappato... » cominciò, ma non
fece nemmeno in tempo a terminare la frase che Sherlock era già fuori dalla
porta del suo ufficio, cappotto sul braccio e cellulare alla mano.
Lestrade
non poté far altro che seguirlo.
« Hai un’auto? » gli domandò
Sherlock mentre copriva a veloci falcate il corridoio del piano, diretto alle
scale (impensabile aspettare l’ascensore quando si ha fretta).
« Sì, nei parcheggi
sotterranei » rispose Greg, ritrovando
improvvisamente la presenza di spirito dello Yarder
tutto d’un pezzo. Lo vide spingere violentemente il maniglione anti-panico
delle scale d’emergenza, cominciando a scenderle con passo veloce mentre
cercava un numero in rubrica e si premeva con forza il cellulare contro
l’orecchio.
Mai
a Lestrade era capitato di vedere Sherlock così agitato. Per quanto
intrattabile fosse a livello caratteriale, in realtà anche il minore di casa
Holmes aveva in sé un cuore – un’umanità molto particolare, ma pur sempre
un’anima come tutti gli altri.
Lavorare
con Sherlock Holmes faceva sì che si apprendesse l’importanza dei dettagli, ed
era proprio attraverso i dettagli che si poteva realmente capire una persona come Sherlock. Per esempio, in quel
momento l’agitazione era padrona della maggior parte della sua mente, glielo
dicevano le nocche sbiancate della mano che teneva il cellulare.
« Dannazione! » sbottò il moro
alla fine della scalinata, aprendo la porta che dava sul parcheggio interrato;
a quel punto Greg gli passò davanti, sbloccando a distanza l’antifurto di una Wolkswagen grigia.
« John? » domandò per
conferma mentre prendeva posto sul sedile del guidatore e Sherlock sbatteva di
malagrazia lo sportello del passeggero.
« Il telefono è
occupato! » esclamò iracondo,
cominciando subito a digitare un messaggio che però cancellò. Buttò il
cellulare sul portaoggetti di fronte a lui mentre Lestrade faceva rumorosamente
manovra – la gomma degli pneumatici fece attrito sul pavimento e provocò acuti
stridii – ed usciva dal posteggio.
« La metropolitana » esordì
improvvisamente Sherlock, le mani unite con la punta delle dita appoggiate alle
labbra.
« Cosa? » domandò Greg,
stranito.
« La metropolitana.
Hamish è alla metropolitana » specificò il detective con un groppo in gola
difficilmente rintracciabile nelle note della sua voce. « Ultimamente ha la
passione per la Tube. Non può essere andato da nessun’altra parte ». Lanciò
un’occhiata rapidissima al proprio orologio da polso: « quindici minuti
alla mezzanotte. Orario in cui le linee vengono chiuse e gli addetti alle
riparazioni esplorano i binari a treni fermi. Di giorno non potrebbe farlo, ma
di notte è facile per un bambino nascondersi sulle banchine e aspettare la
chiusura, soprattutto se si parla di Hamish » disse velocemente, gli occhi che
scorrevano febbrili dal cellulare alla strada davanti a loro.
L’ispettore
non faticò a credergli. « In che punto
della linea, e di quale linea? » domandò allora, cercando di avere un qualche punto di
riferimento per sapere dove dirigersi.
Il
silenzio pensieroso di Sherlock riempì l’abitacolo. « Mi serve Mycroft » sentenziò poi: « ma lo avrà già chiamato John. So che lo
ha fatto. Mycroft è l’unico che può rintracciare
Hamish o almeno sapere dove si è diretto, e John lo sa. Mycroft
darà a John informazioni che poi passerà anche a me » predisse.
Tempo
qualche secondo, ed il suo cellulare suonò. Questa volta rispose subito.
« Dove? » domandò a quello
che non poteva essere altri che suo fratello.
« Stazione della Metropolitana di Baker
Street. È salito sulla Jubilee Line
in direzione Stanmore con il penultimo treno. Non so
se e dov’è sceso, però. Ha evitato le telecamere » disse Mycroft direttamente, evitando convenevoli come i saluti.
« Bene » disse Sherlock: « e John? » domandò poi.
Greg
notò una punta d’ansia, in quella domanda, ma preferì tenersi i suoi commenti
per sé.
« Lo ha seguito » gli disse il
fratello maggiore: « stava scendendo le scale della stazione per
prendere l’ultimo treno quando ho perso il contatto con lui ».
Sherlock
fece un meccanico cenno del capo, probabilmente un ringraziamento anche se, ovviamente,
il fratello non poté vederlo. « Appena lo
trovate chiamami, manderò qualcuno » aggiunse.
Tuttavia
sembrò non esserci bisogno di ulteriori parole, dato che sia lui che Mycroft chiusero la comunicazione contemporaneamente.
« Jubilee line » disse poi
Sherlock a Lestrade, ormai in uscita
dalla strada principale di Westminster: « St. John’s
Wood. Cominceremo da lì » decretò; Greg
annuì, aumentando la velocità.
« Se la caverà,
vedrai » disse subito lo Yarder: « tu e John gli avete insegnato tutto. Starà bene. Lo
ritroveremo sano e salvo » cercò di fargli
(farsi?) coraggio.
Sherlock
strinse le labbra, gli occhi fissi sulla Londra che sfilava veloce fuori dal
finestrino. « Lo so » rispose,
apparentemente calmo: « non è lui che mi
preoccupa ».
Aspettando
impazientemente il treno in arrivo, John tentò di rallentare il battito del
proprio cuore impazzito e di fare il punto della situazione; di ricordarsi
particolari e dettagli, frasi dette o comportamenti strani, ma Hamish aveva
preso talmente tanto da suo padre da essere un mostro della recitazione, quando
voleva ottenere o nascondere qualcosa alla loro attenzione. Erano tante le cose
di cui si accorgeva solo Sherlock ma a cui doveva porre rimedio John. Non se ne
era mai lamentato. La loro famiglia funzionava semplicemente così.
Ma
ora era da solo, Sherlock chissà dove a fare chissà cosa, ed improvvisamente
quei dettagli che di solito riusciva a capire solo Sherlock era costretto ad
intuirli di per sé.
Fece
mente locale. Mycroft gli aveva confermato che Hamish
aveva preso la metropolitana, dunque doveva per forza avere a che fare con la
sua recente passione. Mappe nuove, mappe vecchie. Cosa c’è di diverso, di
sbagliato, di strano, che non va? Pensa John, pensa. Pensa. Ti dicono sempre che vedi ma non osservi, è arrivato il
momento di richiamare alla mente ciò che osservi ma di solito non ricordi.
L’ultima
volta che Hamish aveva usato il suo laptop (Gesù, quant’era uguale a suo
padre...) aveva lasciata aperta la pagina di ricerca. Un sito che mostrava
vecchie foto in bianco e nero di fermate della metropolitana londinese in
disuso.
Le
aveva segnate, si rese conto poi. Aveva disegnato a mano una cartina uguale
identica a quella che Mycroft gli aveva regalato –
quella dei primi dei novecento – a cui aveva aggiunto anche le più recenti
linee e indicato ogni fermata. John l’aveva vista, una volta, quella cartina:
un disegno impressionante ed una maestria di precisione spaziale da far
impallidire chiunque, considerata l’età (ma considerando il lignaggio Holmes,
ormai non si stupiva più di niente).
Con
gli occhi chiusi, l’ululato di un treno ancora lontano e il canticchiare dell’unica
altra persona sulla banchina insieme a lui, John cercò di richiamare alla mente
quell’immagine.
Aveva
diviso i colori, Hamish, cerchiando di verde le fermate attive e di rosso
quelle in disuso. Aveva poi usato il blu per quelle murate e dunque inaccessibili.
Aprì
gli occhi di scatto, girandosi verso il muro alle sue spalle. Una cartina
dell’Underground prendeva un abbondante pezzo di parete, intrappolata dietro ad
una lastra di plexiglass; linee e linee di diversi colori che si intrecciavano
e sovrapponevano, come tanti fili elettrici di un immenso circuito grande come
tutta la città.
Cercò
di sovrapporre la mappa che aveva davanti agli occhi con quella disegnata da
Hamish. Righe perfette si sovrapposero, nella sua mente, a quelle già segnate,
anche se alcune zone del disegno di Hamish erano per lui impossibili da
ricordare. Non aveva la stessa mente degli Holmes, quindi la sua capacità di
imprimersi nella mente delle informazioni visive era limitata.
Ciò
che riuscì a richiamare alla mente, però, fu sufficiente.
Ci
sono cose di cui si ha paura. Quando si è adulti riguarda più che altro affetti
e cose intangibili: la paura di perdere qualcuno di caro, la paura di perdere
il lavoro, la paura di non riuscire a portare avanti ciò che ci si è prefissati
di fare nella vita, la paura che possa succedere qualcosa di grave e che quel
qualcosa possa non avere soluzione.
Ma
ci sono altre paure, quelle che si possono toccare con mano, e sono per lo più
cose di cui siamo venuti a conoscenza da bambini: la paura dei ragni, dei
serpenti, dell’altezza, del buio, del temporale. Oggettivamente si impara che
sì, non ha senso temere tutte queste cose, perché si possono affrontare
facilmente. Oppure, semplicemente, perché ormai si è adulti e quelle non
prendono più il nome di paure, ma vengono chiamate “fobie”; etichettate come un
disturbo psicopatologico lieve – il modo
degli adulti per non mettersi in ridicolo. (Preferiscono dire di essere acluofobici piuttosto che ammettere di avere semplicemente
paura del buio. Come se non fosse normale, avere paura di qualcosa che per
definizione non puoi vedere).
Anche
John aveva una paura, una di quelle che vengono dall’infanzia. L’aveva
nascosta, sotterrata dentro di sé quando era diventato prima medico poi
soldato, perché i medici e i soldati – soprattutto se sono medici e soldati – non hanno paura di niente.
Come i veri uomini. Suo padre amava dirgli ciò che i veri uomini non fanno
(evitando accuratamente di spiegargli cosa bisognasse fare per diventarlo, un
vero uomo).
Quando
era piccolo Harriet, prima di dormire, era solita
spaventarlo raccontandogli delle storie sui fantasmi della metropolitana di
Londra. All’epoca John aveva cinque anni e voleva tanto incontrare Peter Pan, e
questo faceva di lui una mente troppo malleabile e pura per poter rendersi
conto dell’effettiva presa in giro della sorella maggiore.
Gli
diceva sempre che la Underground era uno dei posti più infestati della Gran
Bretagna, perché per scavarla sotto terra erano stati distrutti molti cimiteri
antichi e chi vi era sepolto era stato disturbato, oppure affermava che la
gente morta lì sotto non trovasse la via per uscire dai tunnel e vi rimanesse
intrappolata in eterno sottoforma di spirito.
Persino
in quel momento, a più di quarant’anni e duecento chilometri di distanza, John
poteva ricordare i brividi gelidi lungo la schiena e gli incubi che seguivano
quei racconti.
Le
urla di donne e bambini a Bethnal Green, sulla Central Line. Il fantasma urlante
di Farringdon. Il treno dei morti nel vecchio tunnel
murato che collegava il London Hospital con Whitechapel.
Il fantasma dell’operaio con la lampada tilly in un
tunnel di non ricordava quale linea. La donna senza volto vestita di bianco. Il
fantasma dell’attore accoltellato. Il fantasma riflesso sui finestrini dei
treni sulla Bakerloo Line.(2)
E tutte quelle altre favole sulle vecchie stazioni abbandonate, di orme nella
polvere e spifferi gelidi sul collo, di sassi spostati e sussurri nel silenzio,
di eco di bombardamenti di quando quelle fermate erano state usate come rifugi
durante la guerra.
A
causa di quel ricordo, sovrapporre il tratto a matita di Hamish alla mappa
della rete fu terribilmente più semplice. Per la prima volta, le intenzioni di
suo figlio gli furono chiare come se fosse stato Sherlock a spiegargliele.
Vide
nettamente alcuni dei cerchi rossi del disegno di Hamish combaciare e
sovrapporsi a tratti ora vuoti delle linee colorate sulla mappa.
Stazioni
in disuso. Tante, troppe. Ma solo tre erano sulla Jubilee
Line, solo tre fra Baker Street e Finchley
Road, solo tre possibilmente raggiungibili da un bambino fin troppo curioso e
sconsiderato con una passione per vecchie fermate molto probabilmente chiuse al
pubblico ed inutilizzate da decenni.
Per
un istante solo, mentre il treno passava e rallentava sul binario dietro di lui
e l’altoparlante annunciava l’ultima corsa e la conseguente chiusura della
stazione, John pregò con tutto se stesso un Dio che aveva perso in guerra che
il figlio fosse stato graziato con qualche stilla in più di buon senso rispetto
al padre, e che dunque Hamish si fosse limitato a fuggire vicino a casa. Sperò
che l’urgenza di tornare prima del sorgere del sole, nella speranza che il suo trucchetto non fosse stato scoperto, lo avesse spinto a rimanere
vicino a casa e che dunque la fermata prescelta dal figlio fosse St. John’s Wood, quella immediatamente successiva a Baker
Street.
Senza
pensarci due volte si infilò sul treno, attendendo impaziente che il convoglio
lo portasse più vicino a suo figlio.
Tre
vittime in ventidue giorni. Due ragazze ed un ragazzo fra i 20 ed i 24 anni.
Per l’esattezza 22, 20 e 24 anni.
Nessun
particolare in comune l’uno con l’altro. Non si conoscevano, non frequentavano
la stessa università – il ragazzo lavorava, non studiava – non avevano sport,
interessi, amici o luoghi di ritrovo comuni. Abitavano in tre parti diverse
della città. Nessun particolare fisico che potesse far pensare ad un fetish particolare dell’assassino. L’unica cosa di
veramente uguale in ogni delitto era il modus
operandi.
Per
questo era stato chiamato il “Killer della Metropolitana”. Abbordava le sue
vittime sulle banchine della Tube (mai sulla stessa linea o due volte nella
stessa stazione, per ora), saliva sul convoglio con loro e le seguiva nella
stazione di arrivo, dove attendeva la fine della fila per sorprenderle con un
panno intriso di cloroformio e trascinarle giù dalla banchina, nei cunicoli. Lì
le stuprava ancora addormentate, togliendo solo la parte inferiore degli abiti,
tappava loro la bocca con del nastro adesivo e le uccideva con un coltello:
pugnalate in numero crescente a seconda della successione delle vittime, un
macabro sistema per enumerarle (una pugnalata alla prima vittima, due alla
seconda e tre alla terza). Se erano fortunate, colpiva un punto vitale e morivano
subito. Se non lo erano, l’assassino pugnalava a caso e le lasciava morire per
dissanguamento mentre dormivano. Secondo gli ultimi rapporti del coroner, il
giovane si era addirittura svegliato, prima di morire dissanguato.
Aveva
tutta l’aria di essere un caso immensamente interessante, per questo lo aveva
accettato. Per questo lo portava avanti. Per questo non tornava a casa.
Non
era per John. Non era perché non volesse stare vicino ad Hamish. Non era per
nessuna di quelle cose. John sapeva benissimo cosa volesse dire per lui
lavorare su di un caso, la priorità che aveva su tutto il resto. Lo sapeva. Non
stava fuggendo.
Arricciando
il naso in una smorfia al proprio riflesso sul finestrino, Sherlock tirò fuori
il cellulare dalla tasca del cappotto per l’ennesima volta. E, per l’ennesima
volta, le sue dita volarono inconsciamente a digitare il numero di John.
Non
avrebbe risposto e lo sapeva. Il suo cellulare non prendeva. Oltre a quello,
probabilmente John non avrebbe risposto e basta. Troppo arrabbiato, e amareggiato,
e deluso dal suo comportamento – una volta di troppo, forse. A conti fatti,
Sherlock non si ricordava nemmeno quando avessero cominciato. Quando tutto
aveva cominciato ad essere più stretto, al 221B, e lui si era ritrovato con il
bisogno psicofisico di passare più tempo possibile fuori da quell’appartamento
(lontano da John).
Guardò
di nuovo lo schermo del proprio telefono.
Cos’era
andato storto?
« Se guardi quel
telefono ancora per un po’ lo consumerai » lo apostrofò Lestrade, la voce bassa nel
silenzio dell’abitacolo. Sherlock, sospirando, se lo rimise in tasca.
« Eviterò di dirti
quanto sia illogico consumare un telefono solo con lo sguardo » gli rispose il
detective.
« Ed io eviterò di
perdere tempo dicendoti che è un modo di dire » ribatté sagace Lestrade.
« Lo hai appena
fatto » disse subito
Sherlock (sempre l’ultima parola).
L’ispettore
sospirò con un sorrisetto sulle labbra. Sorrisetto che scomparve poco dopo.
« Sei preoccupato
per Hamish? » domandò, il tono
serio.
Sherlock
si accorse della variazione nella voce, dunque evitò di sbuffare o dar segno di
non apprezzare del tutto la conversazione. John gli ripeteva spesso che, a
volte, la preoccupazione della gente nei nostri confronti è semplicemente un
segno di affetto, dunque rispondere è cortesia.
« No » disse dunque,
sincero.
Lestrade
si accigliò. « No? » domandò sorpreso.
« No » ripeté Sherlock.
Un
altro sguardo accigliato. « Sherlock, è tuo figlio... ha sette anni, come fai a
non essere preoccupato? » chiese
scandalizzato.
Holmes
sospirò profondamente. « Sa cavarsela da
solo. E poi John lo sta cercando » disse, come se solo quel particolare
potesse contribuire a farlo stare più tranquillo.
Cosa
che effettivamente faceva.
Lo
Yarder scosse piano il capo, incredulo. « Io starei morendo
d’ansia, se fosse mio figlio. Non potrei nemmeno pensare di saperlo di notte in
giro da solo, a Londra, con un assassino seriale in libertà » gli disse.
« Potenzialmente
tutti sono assassini. Non vedo perché dovrei fare di tutta l’erba un fascio. E
poi il Killer delle Metropolitane è un narcisista, adora cacciare in pieno
giorno circondato dalla gente. La probabilità che sia in giro stanotte è
scarsa, e se consideriamo quella che sia nello stesso posto e nello stesso
momento di Hamish e che scelga lui come vittima, cambiando tra l’altro il
target dei suoi obiettivi, le possibilità si fanno remote » sciorinò il moro,
tormentandosi inconsciamente con il pollice la fede all’anulare sinistro.
Lestrade
lo ascoltò comprensivo, non abbandonando però il discorso: « allora cos’è che
ti disturba? ».
« La remota ma
esistente possibilità che tutto questo possa effettivamente succedere » rispose,
pensieroso.
Un
silenzio pensieroso li avvolse per qualche istante, probabilmente usato
dall’altro per capire il filo logico dei suoi pensieri. Non ci riuscì, data la
frase che seguì: « è un po’ un
controsenso » disse Lestrade.
« Solo per te » gli rispose
Sherlock, nemmeno parlassero del tempo.
Ma
Greg non era Ispettore per niente, per quanto Sherlock potesse sminuire la sua
intelligenza. Come John aveva fiuto, e ormai conosceva il sociopatico ad alta
funzionalità da talmente tanti anni che, pur non essendo il diletto consorte,
sapeva leggere segni che solo John era effettivamente in grado di vedere.
Segni
d’ansia come, appunto, la continua tortura che quella fede d’oro stava subendo.
« Vedrai, lo
troveremo » gli disse
infatti.
Sherlock
sospirò, socchiudendo gli occhi. « Non serve, l’ho già trovato » gli rispose.
« Cosa? » domandò sorpreso
il poliziotto al suo fianco.
Holmes
si girò a guardarlo: « so già dov’è. Da
Natale ha la passione per la metropolitana, tanto che Mycroft
gli ha regalato una vecchia mappa dei primi del ‘900. Ne ha disegnata una copia
identica che ha aggiornato con i nuovi tunnel e ha cerchiato di rosso tutte le
fermate chiuse o in disuso. Inoltre, avendo preso molto da John, è improbabile
che si sia allontanato troppo da casa, soprattutto se è uscito senza dire
niente a suo padre – che ovviamente non lo avrebbe lasciato uscire e, anzi, si
sarebbe arrabbiato. Questo riduce le possibilità alle linee che passano da
Baker Street, ovvero la Bakerloo, la Circle, la Hammersmith &
City, la Jubilee e la Metropolitan.
Mycroft mi ha confermato il fatto che è salito sul
penultimo treno della Jubilee, il che non dice niente
di nuovo se non per un fatto: nel 1939 tre fermate della Metropolitan
fra Baker Street e Finchley Road vennero chiuse e due
di loro rimpiazzate sulla Jubilee dalla fermata di
St. John’s Wood. Queste tre fermate erano Lord’s, Marlborough Road e Swiss Cottage. Ora, sia Swiss
Cottage che Lord’s potrebbero essere raggiungibili
dalla Jubilee tramite qualche sottopassaggio o tunnel
esterno, ma sono sicuro al 90% che Hamish cercherà di accedere a Lord’s » spiegò velocemente, snocciolando nozioni storiche che
non era da tutti sapere – ma lui era Sherlock Holmes, no?(3)
« Come accidenti...
? » cominciò a
domandare Lestrade, ma Sherlock lo interruppe.
« Conosco a memoria
l’intera linea » disse: « ...e ho ascoltato
Hamish mentre ne parlava » aggiunse subito
dopo.
Nonostante
fosse ancora agitato per la situazione e meravigliato – sì, non ci faceva mai
l’abitudine – dalle abilità mnemoniche del detective, Lestrade trovò comunque
il tempo per concedersi un sorrisetto.
« Sai, devo dire
che all’inizio ero preoccupato, quando tu e John avete deciso di tenere Hamish » gli disse, gli
occhi puntati sulla strada.
Sherlock
alzò un sopracciglio, guardandolo con la coda dell’occhio. « Motivazione? » domandò, serio.
Greg
fece spallucce, prima di rispondere: « ammettilo Sherlock, oggettivamente; non
sei esattamente il tipo di persona che la gente comune vedrebbe adatta a fare
il padre ...o il marito » gli disse, il
tono però niente affatto accusatorio, come se stesse facendo una constatazione
a livello confidenziale.
Per
questo non se la prese. Per questo, e anche perché una frase del genere se
l’era sentita ripetere molte volte.
D’istinto,
posò gli occhi sulla fede. Non se la toglieva da cinque anni e nemmeno lui, in
realtà, avrebbe scommesso tanto su di sé. Non in quel frangente. Non in quella nebbia
indistinta che era per lui il sentimentalismo umano.
« Avrei tenuto
Hamish in ogni caso » cominciò poi
Sherlock, coprendo con la mano destra la sinistra: « è mio figlio, ne
riconosco la responsabilità. John ha deciso da solo di rimanere al mio – nostro
– fianco » fece una pausa
nel ricordarsi quel giorno: John che teneva in braccio un pargolo di appena un
mese avvolto in una tutina azzurra e annuiva in sua direzione, sorridendogli.
Le cose di lui che aveva accettato e continuava ad accettare. Il “grazie” che
gli sussurrò all’orecchio tre anni più tardi, al capezzale del lettino di
Hamish, febbricitante a causa di un’influenza stagionale. La sua decisione di
rendere quell’uomo legalmente parte di quella famiglia di cui era già la
colonna portante senza nemmeno rendersene conto.
« È per questo che
io e John abbiamo deciso di unirci civilmente. Probabilmente John è più padre
di quanto lo sia io. Ha il diritto di poter prendere decisioni riguardo ad
Hamish senza incontrare nessun ostacolo burocratico » aggiunse, usando
tecnicismi per esprimere a parole sue quanto in realtà ci tenesse.
Se
non fosse stato per John, non ci sarebbe stato niente. Se non era John, non
poteva essere nessun altro. Ormai questo lo aveva capito da molto, molto tempo.
Allora
per quale motivo avevano litigato, esattamente?
Era
già perso nei propri pensieri quando Lestrade richiamò la sua attenzione: « sei un padre ed
un marito migliore di quello che credi, Sherlock » gli disse – sincero, palesemente
sincero. « Devi solo tentare
di tenere la bocca chiusa, a volte, e magari ogni tanto chiedere scusa » aggiunse
l’ispettore, svoltando a destra in una via laterale.
Holmes
non rispose, puntando di nuovo gli occhi sulla strada. Forse non aveva tutti i
torti.
John
non aspettò che le porte del vagone si aprissero del tutto e che la ormai
famigliare voce pre-registrata gli ricordasse di fare attenzione al vuoto.(4)
Non
appena ebbe via libera si gettò come un fulmine verso l’uscita, percorrendo i
corridoi e salendo i gradini due a due. Era noto che le stazioni della
Metropolitana rimanevano custodite, la notte, e la sua irrinunciabile speranza
era che l’addetto controllore fosse riuscito a vedere ciò che alle telecamere
di sicurezza (dunque a Mycroft) era sfuggito.
Arrivò
in cima alle scale con il fiatone e, girando velocemente la testa a destra e a
sinistra con un principio di panico imminente, incollò gli occhi alla figura in
divisa più vicina, un uomo di bell’aspetto sulla cinquantina già in procinto di
proclamare la chiusura della stazione dopo l’uscita degli ultimi passeggeri.
Senza nemmeno pensarci sopra, si precipitò verso di lui.
« Scusi! » urlò l’ex soldato
da lontano, evitando di correre in sua direzione solo a causa della poca
distanza che li separava: « scusi! » ripeté, esclamando.
Quello,
adocchiandolo, fece un cenno d’assenso in sua direzione. « Mi dica » disse tranquillo,
non sorprendendosi troppo del modo trafelato in cui John lo avvicinò.
« Mi chiedevo se
avesse visto passare un bambino da queste parti. Circa... » fece per
guardarsi l’orologio da polso ma, nella fretta di uscire, non lo aveva
indossato. Ritentò una volta individuato un orologio a muro su di una parete
non troppo distante: « circa quindici
minuti fa. Alto più o meno così – indicò un punto una decina di centimetri
sopra al proprio fianco – magro, capelli neri, occhi azzurri. Ha sette anni ma
ne dimostra almeno dieci » lo descrisse
sommariamente, non riuscendo a capire se ciò che minacciava di fargli esplodere
il cuore fosse speranza o reverenziale terrore.
La
guardia dovette pensarci un minuto, ma probabilmente la scarsa vastità della
stazione e l’orario non proprio frequentato contribuirono al miracolo.
« Ah, sì, certo che
l’ho visto » disse, annuendo
con il suo mento prominente: « pantaloncini marroni e polo nera a maniche lunghe.
L’ho incrociato sul binario all’arrivo del treno precedente. L’ho fermato
perché era da solo e gli ho chiesto dove fossero i suoi genitori; mi ha detto
che lui e suo padre si erano separati per sbaglio e che il genitore lo stava
aspettando all’uscita della stazione » gli rispose, a quanto pare fin troppo
gioviale per farsi qualche domanda a proposito di un perfetto estraneo che fa
delle domande riguardo ad un bambino.
John
serrò la mascella in un fiotto d’ira misto ad esasperazione. Nonostante avesse
tentato in tutti i modi di evitare che Hamish imparasse l’arte della
manipolazione che tanto riusciva bene al padre, a quanto pare il bambino era
abbastanza bravo da scampare ai controlli di gente pagata per controllare. Anche se non doveva essere difficile,
pensò, infinocchiare l’uomo che aveva davanti in quel momento.
Una
volta ritrovato avrebbero fatto quattro chiacchiere. Poi avrebbe ucciso
Sherlock con il cavatappi.
« Sì, sì, è lui...
sa dirmi dov’è andato una volta fuori? » chiese allora John, tagliando corto il
discorso.
Solo
in quel momento la guardia cominciò palesemente a nutrire qualche sospetto. « Perché lo vuole
sapere? » domandò.
Si
trattenne dall’urlare. « Perché sono io il padre » sputò fuori,
sottolineando con la voce il pronome personale.
Probabilmente
qualche brandello di buon senso doveva essere presente all’interno della
scatola cranica del controllore, perché Watson poté vedere dalla faccia che
fece la consapevolezza di essere stato fregato da un bambino. « Lui aveva
detto... » borbottò,
stranito.
« È scappato. Sa
dirmi dov’è andato? » ripeté
velocemente John, ormai al limite della sua (quella sera esigua) pazienza.
Quello
negò con il capo. « Mi dispiace ma è
uscito da solo, non l’ho seguito... » mormorò, pronto a ricevere chissà quale
insulto dal medico.
Cosa
che John, semplicemente, non fece. Si limitò ad annuire meccanicamente,
ringraziando e scattando verso l’uscita.
Solo
quando fu praticamente alle porte sentì il controllore chiamarlo a gran voce: « senta, non so se
le è utile, ma il bambino mi ha chiesto di una vecchia fermata della Metropolitan Line! » esclamò.
John
si girò di scatto, ascoltandolo con attenzione.
Quello,
vedendolo attento, continuò a voce alta: « mi ha domandato di una fermata chiamata
“St. John’s Wood Road”, ci ho messo un po’ per capire
che intendeva Lord’s. Mi ha chiesto anche che fine
avesse fatto l’edificio per accedervi e io gli ho detto che è stato trasformato
in un albergo, ora. Di tutta la stazione rimane solo un’entrata di servizio in Lodge Road » gli disse, annuendo in accompagnamento al discorso.
Fu
il momento in cui John perse del tutto il controllo di se stesso. Troppo
stressato, troppo in ansia per comportarsi da persona civile con quello stupido
imbecille.
« E lei glielo ha
detto?! » gridò, facendo risuonare
la propria voce nella stazione ormai vuota.
La
guardia sobbalzò, sorpresa della reazione. « Credevo fosse solo curioso... » tentò di
giustificarsi.
Inutilmente.
John ci vedeva rosso. « Quanti bambini
incontra che le chiedono come si entra in vecchie stazioni in disuso della
metropolitana?! Non ha pensato che stesse cercando di andarci?! » sbottò.
Quello
sembrò totalmente perso nella realizzazione di cosa avesse potenzialmente
fatto, ma prima che potesse realizzarlo del tutto John prese nuovamente parola:
« mi dica come ci
si arriva » ordinò, la voce
dura del soldato che era un tempo e che, da qualche parte sotto le vesti
dell’uomo di famiglia, ancora viveva.
L’uomo
sembrò riscuotersi, pallido in volto: « all’uscita della stazione vada a destra,
poi all’incrocio a sinistra su Wellington Road. Percorra tutto l’ospedale fino
al Lord’s Cricket Ground. Una volta arrivato vedrà il
Danubius Hotel, Lodge Road
e dietro di esso e l’entrata di emergenza è sulla destra appena imboccata la
via » gli disse, non facendo
in tempo ad aggiungere null’altro.
John
era già sparito.
Seguì
correndo a perdifiato le istruzioni ricevute, bruciando il rosso al semaforo
pedonale e rischiando di farsi investire. Sentì il cellulare suonare nella
tasca dei pantaloni ma non rispose, ignorando persino la torcia attaccata alla
cintura che gli batteva dolorosamente sulla gamba ad ogni falcata. Corse lungo
tutta la struttura ospedaliera – non aveva la minima idea di quali dei tanti
ospedali di Londra fosse ma non gliene importò più di tanto – ignorando anche
il dolore sordo dei muscoli ed il pungere dei polmoni a causa dell’aria fredda
della notte respirata troppo in fretta e nel modo sbagliato. Già a trecento
metri dall’incrocio poté vedere l’insegna dell’hotel. Non si fermò e attraversò
di nuovo la strada con il rosso, incespicando sul marciapiede ma riuscendo
miracolosamente a mantenere l’equilibrio. Fece il giro della struttura in pochi
secondi e, nonostante la semi oscurità di Lodge Road,
riuscì a trovare l’entrata di servizio.
Aveva
immaginato che fosse chiusa, magari a chiave. Magari con una catena ed un
lucchetto. Magari entrambe.
Non
vi era traccia di catena e lucchetto ma la porta era socchiusa e la maniglia
completamente abbassata, con evidenti segni di scassinatura.
Nel riprendere fiato, ringhiò. Se quell’idiota di Sherlock Holmes aveva
veramente avuto il fegato di insegnare a loro figlio come scassinare le
serrature gliel’avrebbe fatta pagare amaramente (ancora).
Con
un profondo respiro staccò dalla cintura la torcia, accendendola ed aprendo la
porta d’acciaio davanti a lui. Rimanendo poi in piedi appena oltre essa, la
torcia puntata verso il basso, esitò.
Il
fascio di luce della lampadina illuminava una porzione mediocre di una scala
d’acciaio immersa nel buio. Le pareti piastrellate di bianco erano piene di
graffiti, oltre i corrimani della scala, ma l’aria odorava di polvere e chiuso.
Era immersa nel silenzio, notò John quando l’unica cosa che sentì nelle
orecchie fu il battito del proprio cuore, ed il solo pensiero di cominciare a
scendere quei gradini, e quindi di spezzare la quiete con il suono metallico
delle sue scarpe contro la il metallo, bastò per fargli serrare la mascella con
forza.
Non
gli piaceva. L’idea di scendere nelle profondità della terra, in un tunnel di
pietra e cemento abbandonato forse da anni – se non da decenni –, circondato
dall’oscurità e con l’ausilio di una sola torcia gli chiuse lo stomaco,
mandandogli brevi e pungenti brividi lungo la schiena. Sentì la pelle d’oca
sulle braccia al solo pensiero.
Non
aveva paura, no. Lui era stato un soldato, aveva combattuto in guerra, aveva
ucciso della gente. Non aveva esitato a farlo anche quando in guerra non c’era
più stato – quando era entrato a piè pari in un altro tipo di guerra. Era un uomo, un marito ed un padre e non
era più così sciocco e suggestionabile da lasciarsi spaventare dal buio
(totale), dai fantasmi (che non esistono), dalla superstizione (insensata) e
dalle storielle con cui Harry aveva deciso di rendere terrificanti ed insonni
molte notti della sua infanzia (riuscendoci).
Ma
l’inconscio contro cui doveva lottare era forte, resistente. Rispondeva con i
calci quando lui tentava di incatenarlo alla ragione. La sua mente giocava
scherzi strani dettati dalla suggestione.
Un movimento
nell’ombra al limitare del fascio di luce. Il luccicare modesto di un paio
d’occhi subito dopo la curva a destra che le scale facevano quindici gradini
più in basso. Mani viscide e rachitiche che si stendevano nel buio dietro di
lui, tentando di afferrargli i capelli, il giubbotto, la cintura, l’orlo dei
pantaloni.
Pelle
d’oca, brividi, la poco gradita sensazione di avere qualcosa di invisibile che
preme dietro la nuca. L’imminente istinto di girarsi di scatto e l’inquietudine
imbarazzante di non volerlo fare. Ragione contro sentimento contro dovere
contro paure infantili mai superate.
Ma
c’era Hamish, là sotto. Vedeva impronte di scarpe nella polvere depositata sui
gradini, zone pulite sul corrimano della ringhiera. Quasi poteva immaginarselo
scendere quella stessa scala con un sorriso, torcia alla mano, impaziente di
esplorare i cunicoli e le vecchie piattaforme e agli anfratti e le scale
d’emergenza e i tunnel. Nel buio e nel silenzio. Da solo.
Trattenne
il fiato al pensiero, troppo inquieto anche solo per sbattere gli occhi. La testa
ed il cuore gli dicevano “scendi, non fare il bambino” mentre l’istinto urlava
“corri” indicandogli la porta alle sue spalle.
Hamish
era là sotto. Suo figlio. Una delle cose più belle della sua vita. Una cosa
bella che era diventata la sua stessa vita.
Non
poteva lasciarlo. Non poteva e basta. Lui era suo padre, suo tutore, suo
insegnante, suo mentore. Almeno finché avesse potuto e anche dopo, sempre, per
tutta la vita finché avesse avuto bisogno di lui – e sperava che non smettesse
mai, di avere bisogno di lui.
Annuì
a se stesso. Il suo primo passo provocò un flebile sibilo metallico che risuonò
sulle pareti come l’urlo di uno spettro. Cercò di ignorarlo con tutto se
stesso.
Discese
le scale lentamente, concentrandosi sulle tracce che la sua mente poteva
elaborare in modo razionale. Impronte, più che altro. Provò ad assimilare e
mettere in pratica il metodo che usava Sherlock durante i suoi casi, ma anche
solo il fatto che non vedesse altro che impronte di scarpe e mani non gli
permetteva di applicare quel metodo in modo completo.
Svoltò
la curva con attenzione, posizionandosi nell’angolo buio del muro e puntando la
torcia verso il basso. Non vide altro che gradini di ferro ed impronte – e mani nel buio, movimenti repentini, indistinte
ombre striscianti percepite con la coda dell’occhio. Ancora la sensazione di
essere seguito, osservato, deriso, sfiorato.
Si
girò di scattò verso la scala appena discesa e, nell’improvviso timore che
qualcosa spuntasse fuori dal buio che non aveva ancora esplorato, si girò di
nuovo verso la fine della rampa.
Rendendosi
conto che niente si era realmente mosso, prese un breve respiro fra i denti,
accorgendosi solo in quel momento di avere trattenuto il fiato.
Calmati,
John, si disse. Calmati o il tuo cuore non ce la farà.
Scese
a passo leggero ma svelto gli ultimi gradini, appoggiando i piedi su quella che
doveva essere la vecchia banchina d’attesa dei treni. Notò che non era
piastrellata, dunque era solo pietra.
Facendo
bene attenzione di tenersi la scala appena percorsa alle spalle – la prudenza
da soldato era una radice impossibile da sradicare, soprattutto in momenti di
tensione ed allerta – puntò la torcia intorno a sé a centottanta gradi.
Vide
un collage di binari, muri di pietra, sassi, oscurità e pavimentazione. Flash
di un muro dalle piastrelle rotte e scrostate. Fitta oscurità che inghiottiva i
tunnel da una parte e dall’altra(5). Aria densa e odorante di
polvere ed umidità. Aria che si attaccava ai vestiti ed alla pelle, viscosa,
densa, soffocante. Figure sinuose
osservarlo nell’allungarsi delle ombre, insetti grandi come arance nascondersi
dove non avrebbero potuto essere visti, zampe di ragno ritirarsi nelle crepe e
nelle fenditure dei vecchi mattoni gocciolanti d’umidità. Immaginò quelle zampe
solleticargli il collo e si portò d’istinto la mano destra a toccarsi la nuca.
Buio.
Silenzio. Solo il fascio di una torcia a separarlo dall’assenza totale di luce.
Si chiese quanto fossero cariche le pile. Si chiese da quanto tempo non le
cambiavano. Si domandò quel’era stato l’ultimo blackout in cui avevano avuto
bisogno di usare la torcia e si ricordò Hamish urlare dal piano superiore la
sua paura per il temporale, lui e Sherlock che subito lo avevano raggiunto nel
tentativo di calmare il suo pianto. Hamish era piccolo. C’era la possibilità
che si scaricassero le pile.
La
cosa non lo confortò.
Guardandosi
per bene attorno tornò a seguire l’unica cosa che poteva dargli un indizio del
passaggio del figlio: le impronte nella polvere. Puntò di nuovo il fascio di
luce a terra.
Erano
confuse, ora che il terreno si era fatto più incerto e frastagliato. Hamish
doveva essere tornato indietro per un qualche metro prima di proseguire, dato
che le impronte sembravano di due serie. Allungando la portata della torcia,
scoprì che una discreta parte della banchina era crollata, poco più avanti, e
si poteva evitare la frana solo passando di fianco al muro, accanto ad un
cartellone di plexiglass con dietro una vecchia mappa risalente a prima della
guerra.
Notò
impronte di mani sul vetro e, annuendo a se stesso, attraversò con attenzione.
Oltre quello, percorrendo la banchina fino in fondo, le impronte scendevano
lungo i cinque gradini in pietra e sparivano sui binari.
A
quel punto, circondato da muri e da buio dopo essere del tutto entrato nel
tunnel, si mise di nuovo in ascolto. Pregò per un passo, nonostante il pensiero
di sentirlo davvero lo spaventasse a morte. Sperò di sentire qualcuno muoversi,
qualche forma di vita, la consapevolezza che Hamish c’era davvero, in quel
posto, nonostante le impronte viste poco prima sulla scala e sulla banchina non
lasciassero molto alla fantasia.
Ma
non sentì niente. Alla sua preghiera mentale rispose solo il silenzio.
Un
silenzio pressante, assoluto. I rumori della superficie – auto, passanti, la
vita che a Londra andava avanti tutti i giorni – sembravano non scalfire
minimamente quel luogo. Era davvero in un posto abbandonato da tutto e da tutti
ed un altro, lungo brivido freddo gli corse lungo la schiena a quella
constatazione.
Il
suo istinto era diviso a metà fra il continuare e scappare. Continuava a dirgli
di abbandonare tutto. Il cuore sapeva che non poteva. La mente cominciava a
vacillare sotto il peso dei ricordi e della paura che non riusciva a togliersi
dalle vene.
Vedeva
mostri negli angoli bui, fantasmi senza volto osservarlo senza essere visti;
sentiva passi inesistenti sul tetto della galleria, rimbombare sulle grosse
pietre, correre sulla banchina opposta con l’eco a vibrare nell’aria polverosa
e stantia. Percepiva cose che non esistevano. Ma questo non voleva dire che gli
facessero meno paura.
Non
ci pensò due volte a fare un passo avanti e a mobilitarsi lungo i binari in
direzione nord – un delle due, a questo punto. Se Hamish era là sotto sarebbe
rimasto per cercarlo.
« Non risponde » borbottò
Sherlock, seccato, riattaccando il telefono dopo avere (infine) deciso di richiamare
John. « Suona ma non
risponde » specificò,
muovendo ritmicamente un piede contro il tappetino.
“Mi
sembra lecito” avrebbe voluto rispondergli Lestrade, ma dubitava fortemente che
con Hamish disperso il medico facesse il prezioso e non rispondesse volutamente
alle telefonate di Sherlock. Probabilmente non poteva semplicemente rispondere.
E
lo sapeva anche Sherlock. Era ovvio che lo sapesse anche lui. Fece solo finta
di ignorarlo. Per lamentarsi (perché gli sembrava giusto fare almeno quello).
Lestrade
si sentì in dovere di sottolineare l’ovvio, giusto per tenere occupata la mente
iperattiva del sociopatico seduto al suo fianco: « probabilmente non può rispondere » gli disse.
Quello
roteò gli occhi. « Lo so » ribatté piccato,
sbuffando.
Fu
nei cinque minuti successivi che Lestrade arrivò finalmente alla fermata
indicata da Sherlock, parcheggiando sul ciglio esattamente davanti all’entrata
mentre Holmes scendeva e percorreva in poche falcate la distanza che lo
separava dall’auto alla saracinesca che sbarrava l’entrata. Batté qualche volta
con i pugni sul metallo, sperando di attirare l’attenzione di qualcuno.
Lui
non era preoccupato. Il fatto che Hamish fosse scappato non era una cosa grave,
anche lui lo aveva fatto da piccolo (salvo che non si era fatto scoprire, ma
aveva genitori meno attenti di come poteva esserlo John, doveva ammetterlo). Non
era affatto arrabbiato con il piccolo. Forse John lo sarebbe stato. Forse
avrebbe urlato. Non ne poteva più di sentirlo urlare, ma avrebbe urlato, lo
sapeva. Ma poi gli sarebbe passata. Era una di quelle situazioni in cui “Hamish
si merita una punizione, Sherlock, non mi interessa se pensi che sia una cosa
normale alla sua età, so anche io che lo è ma non deve farlo, è così che si
crescono i figli”.
Non
lo aveva mai detto con vera cattiveria, John. Era solo che a Sherlock non
veniva molto bene di fare il padre.
Smise
di battere sulle inferiate solo quando Lestrade si avvicinò a lui e gli mise
una mano sulla spalla, facendolo desistere silenziosamente. Stavano per
rientrare in macchina e provare all’ufficio centrale quando, da dietro le
sbarre di ferro, la porta automatica si aprì e ne spuntò fuori un cinquant’enne
paffuto dai capelli brizzolati. « Vi ho visti dalle telecamere di sicurezza
» disse, indicando
con il mento una telecamera piazzata nell’angolo del cornicione: « si può sapere
cosa volete? Siete ubriachi per caso? » disse l’uomo, chiuso in una divisa da controllore,
con una smorfia da duro.
Sherlock
aprì la bocca per sfoggiare il meglio del suo linguaggio inappropriato, ma
Lestrade lo anticipò appena in tempo: « Detective Inspector
Lestrade, Scotland Yard » si presentò,
mostrando il tesserino ed il distintivo: « lui è il signor Sherlock Holmes, un
detective privato. Possiamo farle qualche domanda? » chiese, il tono
fermo e monocorde del poliziotto.
Sherlock
soffiò fra i denti un “Consulting Detective” al suo fianco, ma venne ignorato.
Non
appena Lestrade ebbe mostrato grado e qualifica, la guardia abbandonò la sua
maschera da duro e si affrettò a recuperare un mazzo di chiavi dal cinturone,
aprendo la saracinesca per poterli osservare direttamente. Sherlock non aspettò
che si presentasse, portando le mani dietro la schiena e parlando velocemente.
« Con il penultimo
treno diretto verso Stanmore dovrebbe essere passato
un bambino per questa stazione. Sette anni ma ne dimostra dieci, alto circa un
metro e trentacinque, capelli neri, occhi azzurri, magro, carnagione chiara,
straordinariamente intelligente » lo disse con una punta d’orgoglio che non
poté fare a meno di nascondere « lo ha per caso visto? » domandò poi, assottigliando gli
occhi e rendendo lo sguardo con cui stava oltrepassando il custode più tagliente
del solito.
Quello,
dopo averlo ascoltato, aggrottò le sopracciglia in un’espressione dubbiosa e si
umettò le labbra. « Perché lo vuole
sapere? » domandò a Sherlock, che non seppe trattenere
uno sbuffo peripatetico.
« Sono il padre » si degnò di rispondergli,
senza aggiungere un “non le pare ovvio?” che avrebbe sicuramente indisposto
Lestrade.
Videro
entrambi il momento esatto in cui l’uomo raddrizzò le spalle, sospettoso. « Mi dispiace,
signor Holmes, ma il vero padre del
bambino mi ha chiesto la stessa cosa meno di mezz’ora fa. Non credo di poter
rispondere alla sua richiesta » disse.
Sherlock
serrò la mascella mentre Lestrade si massaggiò gli occhi con una mano. « Ha due padri » sibilò il detective, senza
riuscire a trattenersi oltre: « cosa che avrebbe almeno dovuto prendere in
considerazione prima di dare per scontato il fatto che io non lo fossi solo
perché sono arrivato cronologicamente dopo. Soprattutto perché se veramente ha
visto il bambino, ma considerando il suo alquanto scarso livello intellettivo
stento a credere che se lo sia effettivamente ricordato, si renderà
perfettamente conto che somiglio più io al piccolo rispetto alla persona che
precedentemente le ha chiesto informazioni presentandosi come il padre,
nonostante anch’essa sia di indubbio bell’aspetto. Questo avrebbe dovuto fargli
nascere almeno un sospetto, non trova? E no, non faccia sforzi: sì, io sono il
padre biologico, mio marito è quello acquisito. Ora, devo procurarmi i
certificati di nascita e di unione civile per avere una risposta possibilmente
sensata o possiamo procedere e smettere di perdere tempo? » domandò, parlando
in fretta e attaccando le lettere una all’altra.
Il
custode, borbottando qualche scusa non si sa bene rivolta a chi, spiegò ai due
ciò che gli aveva chiesto Hamish. Stava anche per dare loro alcune indicazioni
ma Sherlock alzò la mano, interrompendolo. « So dov’è » tagliò corto, incamminandosi a
passo svelto in direzione dell’incrocio.
Lestrade,
scusandosi di malavoglia, lo seguì.
Obiettivamente
non si ricordava se stava camminando dentro quel tunnel da un paio di minuti o
da mezz’ora. Non sapeva se aveva fatto duecento metri o due chilometri. Ad un
certo punto aveva optato per tenere sempre la torcia fissa in avanti,
illuminando solo i binari e qualche metro di galleria dritto per dritto, perché
spostare sempre la luce da destra a sinistra aveva cominciato a fargli
sospettare persino della propria ombra.
Aveva
creduto fin troppe volte di vedere occhi in quell’attimo in cui, spostando la
torcia, uno spazio (in realtà uguale a tutto il resto tranne che per la sua
suggestione) si illuminava per due decimi di secondo. Le ombre allungate di
pezzi di alluminio abbandonato sembravano artigli sulle pareti, una radice
pendente da una crepa aveva assunto le sembianze di tentacoli pronti a
soffocarlo, il suo stesso respiro sembrava un lamento e sentiva freddo, poi
caldo, poi brividi, poi il sudore scenderli lungo le tempie, sulla gola e giù
fino in mezzo alle scapole.
Momenti
di paura che cercava disperatamente di fermare usando la tempra del soldato. Ma
la paura che occasionalmente aveva provato in guerra, al buio mai totale delle
tende da campo con il rimbombo delle esplosioni non poi così lontane, era
diversa dall’inquietudine gelida che provava in quel momento, dalla sensazione
costante di qualcuno che lo seguiva, dal terrore che lo assaliva al pensiero
che se fosse morto lì sotto, per un motivo o per l’altro, nessuno lo sarebbe
mai venuto a cercare. Nessuno lo avrebbe mai trovato. O almeno, non prima di
diventare un ammasso di ossa sporche con qualche brandello di carne ancora
penzolante. Mangiato dai topi e dagli scarafaggi (e solo Dio sa da cos’altro).
Ma
il suo rimpianto più grande, ed il suo terrore più radicato, era che quella
fine potesse farla Hamish. Era trovare suo figlio... boh, steso a terra per
aver sbattuto la testa sui binari inciampando nel buio. Morto di paura perché
la torcia si era scaricata e non sapeva più ritornare indietro. In un posto
dove non si può aspettare il mattino perché diventi tutto più luminoso, perché
nelle profondità della terra la luce del sole non arriva e dunque il mattino
nemmeno esiste. Oscurità senza fine, questo era.
John
rabbrividì, costringendosi a camminare perché fermarsi lo avrebbe spaventato
ancora di più.
Fermo sei un
bersaglio, fermo sei una preda facile. Fermo è immobilità, è debolezza: la
senti arrivare ma il tempo di reazione è troppo breve, un secondo per pensare a
muoversi e un altro secondo per farlo davvero e da qualche parte lì in mezzo la
cosa arriva e ti prende e ti trascina nel buio e
ti sbrana con gusto. La “cosa” è il
buio. Di te lascia solo le ossa se sei fortunato abbastanza.
Avrebbe
chiuso gli occhi per togliersi quel pensiero dalla testa con più facilità se
non avesse avuto timore persino a sbattere le palpebre (che succedesse qualcosa durante quel decimo di secondo non gli era dato
saperlo, dopotutto).
Pensò
ad urlare il nome di Hamish. A chiamarlo in qualche modo. Ma la sua irrazionale
paura del nulla formulò in fretta scenari un cui la sua voce risvegliava
fantasmi dormienti che non volevano essere disturbati. E già vide forme traslucide senza volto volare contro di lui con le
mani tese e l’intenzione si rubargli il cuore, o l’anima, o gli occhi, o i
sentimenti, o i ricordi, o la vita. Hamish. Sherlock. NO.
Dacci
un taglio John Watson, dacci un maledetto taglio. Ti stai suggestionando da
solo. È solo una fottuta galleria.
Continuava
a ripeterselo ma la “fottuta galleria” non lo spaventava di meno.
Continuò
con il suo passo – ed il respiro centellinato, e i movimenti minimi ed il più
leggeri possibile – finché non udì distintamente un suono in lontananza,
ampliato dall’alta volta del tunnel.
Trattenne
rumorosamente il respiro, mettendosi una mano davanti alla bocca per impedirsi
di fare rumore espirando ed inspirando aria, impedendosi al contempo di entrare
in iperventilazione. La seconda cosa che fece fu quella di far aderire la parte
luminosa della torcia alla gamba in modo da rimanere completamente nascosto nel
buio e rendersi invisibile. Combattuto fra mettersi di schiena al muro o
semplicemente restare lì, evitò la prima cosa quando la consapevolezza di
essere rimasto in piedi nell’oscurità senza protezione gli inchiodò le gambe al
suolo e gli impedì di qualsiasi intenzione di movimento.
Il
tunnel, ora, era immerso nel più completo silenzio e nella più completa
oscurità.
Avrebbe potuto
attaccarlo qualsiasi cosa.
Del
rumore che aveva sentito non vi era più traccia.
Prenderlo alle
spalle e portarselo via senza problemi.
Non
una goccia d’acqua, non uno spiffero di vento, non un sasso, uno squittio.
Arrivargli davanti
e respirargli addosso senza che John potesse anche solo accorgersene.
Una
speranza, una voce, la luce di un’altra torcia. Un’altra presenza vera,
tangibile. Hamish.
Scivolargli dal basso sulle caviglie,
dentro i pantaloni come tentacoli umidi e freddi, arrivare fino all’arteria
femorale ed entrargli nella carne, arrampicarsi nei vasi sanguigni per arrivare
al cuore e stritolarglielo dall’interno.
Era fottuto.
Sentì
di nuovo quel rumore.
All’inizio
non ne fu sicuro; il battito impazzito del proprio cuore gli rimbombava nelle
orecchie a causa del silenzio – tanto che pensava che il suo battere furioso
sulla cassa toracica potesse sentirsi anche da fuori – ma quando accadde per la
terza volta, e nell’agitazione riuscì a riconoscere rumore di sassi che
venivano calpestati, assottigliò gli occhi per scrutare nel buio.
Non
seppe bene dire quanto distante, ma la flebile luce di una piccola torcia a led
illuminava i contorni di un corpo piccolo e longilineo. Figura che non avrebbe
mancato mai di riconoscere.
Liberò
la propria fonte di luce da ciò che la bloccava, puntandola verso la figura:
era abbastanza vicino da essere illuminato e quando la torcia gli rivelò essere
Hamish, la vita che stava perdendo passo dopo passo in quell’incubo di brutti
sogni infantili gli ritornò in corpo in un fiotto caldo.
In
quel momento, non poté fare a meno di chiamarlo. « Hamish! » esclamò, il tono
non troppo duro né sollevato, almeno per lui.
Forse
per il piccolo non fu lo stesso. Quel richiamo doveva essere sembrato
arrabbiato perché, girandosi di scatto in sua direzione, l’unica cosa che
riuscì a fare fu di mettersi a correre dalla parte opposta, scappando da John al
massimo della velocità consentitagli dalle sue gambe corte e dal terreno
tutt’altro che favorevole.
La
reazione di John fu di puro istinto. Semplicemente, si mise a correre a sua
volta.
Dovette
spingere di nuovo i suoi muscoli a compiere un sacrificio, soprattutto quelli
della gamba “lesa” che per effetto puramente psicosomatico ora sentiva pesante
e dolorante, nonostante si stesse convincendo con insistenza che non era vero.
Mise il piede in fallo rischiando di cadere, o peggio, di slogarsi una caviglia
circa un paio di volte ma alla fine, sudato e seguendo i pochi frammenti di
immagini che la sua torcia ballerina gli forniva durante la corsa, riuscì ad
afferrare Hamish per un polso e strattonarlo in sua direzione per fermarlo.
Il
bambino, palesemente colto sul fatto e con il timore che l’avesse combinata
troppo grossa per scamparla, ebbe la reazione istintiva di mettersi in
posizione di difesa, con le braccia incrociate davanti al volto e il viso
girato verso il basso, gli occhi serrati, aspettando di essere colpito.
John
non seppe quantificare quanto quella reazione di Hamish gli fece male.
Ansimò
pesantemente, osservandolo in silenzio per qualche istante prima di prendere
parola: « Hamish Watson-Holmes, non ho alzato le mani su di te per sette
anni e non ho intenzione di cominciare ora » gli disse.
Il
piccolo, abbassando lentamente le braccia, lo guardò. « Non sei
arrabbiato? » sussurrò, la voce
tremante, le lacrime agli angoli degli occhi.
« Sì che sono
arrabbiato » gli rispose John,
lasciandogli andare il gomito e chinandosi sulle ginocchia: « certo che sono
arrabbiato. E appena arriveremo a casa ti prenderai una bella sgridata. Ma ora
come ora sono sollevato, perché mi hai messo addosso una paura tremenda... » ridusse la sua
frase a qualcosa di molto simile ad un rantolo, perché la sua gola si rifiutò
di collaborare oltre e si chiuse. « Non lo fare mai più, Hamish. Mai più... » sussurrò, tirando
a sé il figlio in una stretta che sapeva più d’urgenza che di sollievo.
Hamish
però rimase rigido nel suo abbraccio. In silenzio, aspettò che John se ne
accorgesse e lo guardasse negli occhi, la luce della torcia in mezzo a loro per
illuminare i loro visi. « Cosa c’è? » domandò l’uomo,
aggrottando le sopracciglia.
Il
bambino sembrò indeciso ma non scostò mai gli occhi dai suoi. John rivedeva
tanto, troppo di Sherlock negli atteggiamenti di suo figlio – loro figlio – ed era la prova costante
che se anche Holmes non era mai stato davvero un padre modello, aveva comunque
lasciato traccia di sé in Hamish.
« Tu e papà state
pensando di lasciarvi? » domandò infine il
bambino.
John
sussultò. Gli si strinse il cuore. Fece quello che un padre fa per proteggere
il figlio dalle sue stesse indecisioni: mentire.
« No... no, Hamish » gli rispose,
scuotendo la testa: « io e tuo padre
stiamo passando un periodo difficile ma non abbiamo mai pensato di– ».
Venne
interrotto: « c’è un foglio sul
tavolo della cucina con scritto “richiesta di divorzio consensuale” » lo interruppe
Hamish: « l’ho visto mentre
facevi la doccia... papà, so cos’è un divorzio, lo dicono in TV » gli disse, la
voce rotta da un pianto imminente a cui stava resistendo stoicamente.
Doveva
fare qualcosa. Anche se quel “qualcosa” significava ammettere di avergli
mentito.
Sospirò,
posando le mani sulle sue spalle. « Hamish... tuo padre non ne sa niente. Ci
ho pensato solo io. Ero arrabbiato e... » si bloccò; i meccanismi di coppia erano
cose che un bambino di sette anni non poteva ancora capire, lo sapeva bene
(anche lui a sette anni non aveva capito(6)): « ...non ho intenzione
di lasciare tuo padre, va bene? È solo che mi ha fatto tanto arrabbiare questa
mattina e io non ci ho pensato come avrei dovuto. Ti ricordi cosa ho detto che
bisogna fare prima di fare qualsiasi cosa, vero? » domandò, sorridendo.
« Pensarci due
volte » rispose
prontamente Hamish, John annuì.
« E tu ci hai
pensato prima di scappare di casa? » rincarò la dose il medico, osservandolo
in tralice.
« Ma papà, hai
visto questo posto? » cominciò il
bambino, completamente dimentico del rimprovero e delle parole di poco prima: « è fenomenale! Lo
sapevi che la Tube ha più di quaranta fermate in disuso, compresi addirittura
alcuni tunnel e passaggi murati? La vecchia fermata di City Road dev’essere di sicuro la più bella, è stata chiusa nel 1922
e non l’hanno utilizzata nemmeno come rifugio anti bomba durante la guerra! » esclamò, allegro,
guardandosi intorno con occhi sognanti.
Così
maledettamente uguale a suo padre che John aveva voglia di mettersi a piangere
– probabilmente dalla disperazione. « Sì, sì, ho visto, ma la Transport for London non si
merita una serratura scassinata » disse.
« Non l’ho aperta
io! » si difese il
figlio: « era già così
quando sono arrivato! ».
John
lo guardò con la tipica espressione da HamishWatsonHolmes-non-dire-bugie-solo-per-salvarti-all’ultimo-minuto.
« È la verità! » continuò il
piccolo.
John
annuì distrattamente, rimettendosi in piedi: « ve bene, ma adesso andiamo a casa;
anche tuo padre e Greg ti stanno cercando e saranno preoccupati » gli disse,
spolverandosi i pantaloni con la mano libera dalla torcia.
« Anche zio Greg? » domandò Hamish,
John annuì senza specificare perché fosse stato costretto a telefonare a
Lestrade. Prese per mano Hamish e puntò la torcia in avanti con tutta l’intenzione
di tornare da dove era venuto.
Non
fece in tempo.
Fu
in quel momento che il fascio di luce illuminò qualcosa.
Qualcosa
che sembrava troppo reale, troppo vera per essere solo frutto della sua immaginazione.
Il
cuore gli balzò in gola con un battito violento mentre riconosceva la sagoma di
un cadavere riverso a faccia in giù, le mani bianche ed i capelli castani
imbrattati di sangue.
Trattenne
a stento un’imprecazione mentre stringeva a sé Hamish, sperando che non avesse
visto. Ma sentiva il corpo del figlio tremare contro la sua gamba e seppe che
la sua speranza era vana.
« P-Papà... » pigolò il
bambino, occhi spalancati fissi nel buio nonostante John avesse spostato il
fascio di luce dal corpo – e stesse tentando con tutto se stesso di fermare i
battiti impazziti del cuore che gli sfondavano il petto e gli facevano tremare
le mani. Portò la mano destra fra i capelli di Hamish, intrecciando le dita con
quei fili neri e tenendo suo figlio stretto a sé nel più rassicurante abbraccio
che poteva dargli in quel momento.
« Shhht, tranquillo Hamish, tranquillo. Non è niente... non
è... » ma la sua voce
tremava e dovette fermarsi, e deglutire, e convincersi che continuare a dirsi
“lo sapevo che sarebbe successo” non sarebbe servito a niente.
Avrebbe
dovuto avvicinarsi al corpo, probabilmente. Assicurarsi che fosse davvero un
corpo e che non fosse un essere umano in lotta fra la vita e la morte. Ma aveva
Hamish con sé, accanto a sé, e non aveva assolutamente intenzione né di
lasciarlo da solo nel buio né di farlo avvicinare ad un cadavere. Era il figlio
dell’unico consulting detective al mondo ma questo non voleva dire che dovesse
seguire le orme del padre così presto.
Rimase
nell’indecisione per un tempo fin troppo breve e nessuna delle opzioni che la
propria mente aveva dipinto fu la risposta.
Ancora
fermamente ancorato alla sua gamba, la piccola torcia a led persa chissà dove
fra i sassi attorno ai binari, Hamish sussultò e gli tirò la camicia indicando
un punto poco più avanti, la voce fievole e spezzata. John alzò lo sguardo
lentamente.
L’ultimo
spicchio di luce della sua torcia, al limitare massimo della sua portata (che
doveva essere dieci o dodici metri più avanti) illuminava fievolmente un paio
di scarpe da ginnastica e la sagoma di quello che doveva essere un ragazzo – ma
non si vedeva chiaramente. Se ne stava fermo immobile, probabilmente ad
osservarli, e se si concentrava bene John poteva sentire il rumore del suo
respiro tranquillo e pacato.
A
Watson non servì avvicinarsi, per capire che le suole delle scarpe erano sporche
di polvere e sangue. Non dovette alzare la luce verso l’alto per vedere le mani
e la maglietta schizzate di sangue. Poteva sentirne la puzza.
In
guerra, e poi con Sherlock, di assassini ne aveva visti tanti. Aveva
sufficiente esperienza per capire che in una stanza in cui ci sono tre persone
ed un cadavere, solitamente l’assassino è quello più calmo ed i testimoni sono
sempre scomodi.
All’improvviso,
tutta la paura che aveva provato qualche minuto prima tornò a pesargli addosso
sottoforma di tensione. La persona dall’altro capo della luce non si muoveva,
ma ne aveva intenzione, John ne era ormai certo. Per questo motivo non tentò
nemmeno di parlargli, di provare a se stesso di sbagliarsi, perché al diavolo,
se sbaglio e lui è innocente non andrà peggio.
Il
brutto, era che il suo istinto raramente sbagliava.
Hamish
strinse con più forza le mani sulla sua camicia e lo sentì ansimare e respirare
velocemente. Attacco di panico. Non ci era abituato – Cristo Santo, aveva sette
anni, non doveva esserci abituato! –
ma l’unica cosa che John riuscì a fare in quel momento fu di stringerlo a sé
ancora di più.
Voleva
dire ad Hamish di prendergli la mano e tenersi pronto a correre, perché
sarebbero fuggiti. Si era appena reso conto con orrore che non aveva con sé la
famigliare scomodità della pistola fra la cintola e la schiena – da quando
c’era Hamish sia John che Sherlock avevano limitato il loro uso delle armi ai
casi di estrema necessità – e dunque non aveva niente con cui difendersi dalla
distanza in caso di un attacco. Avrebbe anche voluto dirgli di essere
coraggioso ma regnava un silenzio talmente profondo, talmente pressante, e
vuoto, e totale, che solo il pensiero di parlare faceva rumore già di per sé.
Pregò,
in uno di quei secondi di immobile terrore, di sentire i confortanti passi di
Sherlock in lontananza nella galleria. Nello stesso istante, rendendosi conto
che non erano in uno di quei film d’avventura e nessuno, tantomeno Sherlock,
sarebbe venuto a salvarli all’ultimo momento, mentalmente gli chiese scusa.
Gli
chiese scusa per il litigio, per come si era comportato, per tutto. Gli chiese
scusa perché con lui c’era Hamish, in quel momento, ed era spaventato, e non
sapeva se sarebbe riuscito a proteggerlo, o a farlo fuggire. Gli chiese scusa
perché si sentiva un padre immeritevole di tanta fortuna. Gli promise che
avrebbe fatto del suo meglio per far tornare Hamish da lui (almeno lui).
Non
ebbe effettivamente bisogno di vedere il coltello riverberare di luce sinistra,
nella mano del giovane davanti a loro.
« Al mio tre,
girati e corri. Non lasciare mai la mia mano » sussurrò, talmente piano che
nemmeno lui sentì le proprie parole, ma Hamish annuì contro il suo braccio,
stringendo la presa sulla mano di John, che fece lo stesso su quella del
figlio.
« Uno ».
La
mano dell’uomo silenzioso si mosse, a disagio.
« Due ».
John
posizionò il pollice sull’interruttore della torcia mentre leggeva nella
tensione dei muscoli dell’assassino la sua imminente decisione di scattare in
corsa.
« Tre » disse.
Spense
la torcia.
C’erano
talmente poche probabilità che John ed Hamish incontrassero il killer della
Metropolitana da non costituire nemmeno una possibilità reale.
La
Underground contava 382 stazioni servite dai treni e 19 completamente
abbandonate, il che portava il numero di stazioni possibili a 401. Sapevano che
non colpiva mai nello stesso punto e aveva già ucciso tre persone, dunque il
numero scendeva a 399. Una, la
possibilità positiva di trovare il killer. Formula classica del calcolo della
probabilità di Laplace: La probabilità di un evento A è data dal rapporto fra
il numero dei casi favorevoli ad A ed il numero dei casi possibili. John aveva
una possibilità su 399 di incontrare il serial killer con una probabilità dello
0,0025%.
Troppo
bassa. Persino per John, che aveva abbracciato le altrettanto basse possibilità
di sopravvivere in mezzo al deserto con un buco nella spalla e l’arteria
succlavia colpita, il tutto in quei dieci minuti in cui la perdita massiccia di
sangue non lo aveva ucciso.
Eppure
Sherlock non era tranquillo.
Non
aveva mai creduto all’istinto, né ai presentimenti. Troppo imperfetti, troppo
astratti, solo colpi di fortuna, solo coincidenze.
Ma
continuava a non essere tranquillo. Era questo ciò che lo stava facendo correre
lungo Wellington Road, ampliando la falcata così tanto che nemmeno Lestrade
riusciva a stargli dietro. Questo lo portava a seguire velocemente l’unica
pista che aveva, sperando che fosse quella giusta e che avrebbe potuto rivedere
sia John che Hamish prima di perdere il controllo sulla propria mente e
cominciare a prepararsi al peggio. Lo faceva sempre (era uno dei suoi sistemi
di protezione automatici).
Arrivò
all’incrocio con St. John’s Wood Road, guardando
fisso l’hotel dall’altra parte della strada. Greg lo raggiunse ansante,
appoggiandosi alle ginocchia con le mani per poter recuperare il fiato.
Sherlock
sembrava non avere nemmeno faticato per arrivare lì, nonostante avesse corso
un’intera via in poco meno di qualche minuto. Osservava frenetico ogni angolo
dell’incrocio e dell’edificio, del traffico, del semaforo, delle aiuole, dei
cancelli, dei muretti e delle vie traverse per capire da qualche parte fosse
andato John, o Hamish; cercando qualunque cosa potesse dargli un indizio, un
segno del loro passaggio (una speranza concreta).
Come
capitava spesso quando era in ansia per qualcosa, la sua mente cominciò ad andare
in overdose mentre la sua capacità di calcolo scendeva a livelli insufficienti
per filtrare l’eccessivo carico d’informazioni.
Chiuse
gli occhi, fermo in mezzo al marciapiede, respirando piano. Era quasi l’una di
notte.
« Possiamo chiedere
alla reception dell’hotel » disse poi Greg – non capì la situazione in cui
versava, raramente Sherlock stesso concedeva agli altri di farlo. Fu comunque
una buona idea.
Non
annuì, né parlò, ma scattò non appena il semaforo pedonale divenne verde e si
diresse verso l’entrata ormai chiuse dell’hotel.
Holmes
rimase indietro di qualche passo mentre Lestrade bussava sul vetro, facendosi
aprire da una ragazza seduta dietro alla reception. Coprirono la distanza
dall’entrata al bancone della hall in pochi passi.
« Detective Inspector Lestrade, Scotland Yard » si presentò
ancora Greg, mostrando tesserino e distintivo.
Sherlock
rimase in ascolto per tutto il tempo, pensando a tutto e niente, sperando senza
ammetterlo.
Correvano
alla cieca lungo il tunnel buio, cercando di adeguarsi entrambi alla velocità
dell’altro, ma non era facile.
John
aveva le gambe lunghe e la resistenza di un adulto, Hamish le gambe corte ed il
fiato corto di un bambino. Il medico tentava disperatamente di correre lungo
una linea retta, usando i binari come riferimento per non sbandare, ma poteva
affidarsi solamente all’udito e a ciò che sentiva sotto i suoi piedi e senza
vista era difficilissimo non uscire dalla traiettoria ideale che li avrebbe
tenuti in salvo da improvvisi scontri con pareti o chissà cos’altro. Capitava
spesso che mettesse un piede in fallo su di un’asse di legno spostata o spezzata,
che montasse sopra la rotaia di ferro e scivolasse, che perdesse l’equilibrio a
causa di un sasso o dell’orientamento praticamente assente che aveva nel buio
profondo. L’unica cosa che non lasciava era la mano di Hamish, che stringeva
convulsamente senza nemmeno pensare di fargli del male, e tramite quella
stretta lo sorreggeva tutte le volte che perdeva l’equilibrio e lo rialzava di
peso quando cadeva. Lo incitava a correre con esclamazioni veloci in mezzo ai
rumori dei loro passi sulla ghiaia e sul legno, perché sentiva altri rumori,
altri passi dietro di loro che gli dicevano fin troppo bene di essere seguiti.
Flash veloci e scomposti di luce arrivavano da dietro di loro, illuminando le
loro schiene ed il cammino che stavano facendo solamente a tratti, non facendo
altro che confondere John sempre di più Le loro ombre erano prima lunghe, poi
corte, poi spezzate, poi sottili ed ogni volta spaventose. Il cuore gli batteva
in petto violento e velocissimo, aritmico, facendogli mancare il respiro che
già difficilmente aveva ritrovato poco prima. Sentiva Hamish al suo fianco
piangere ed ansimare, stanco e provato dalla corsa, ma sapeva che se si fossero
fermati, sarebbe stata la fine.
« Resisti! » urlò al bambino,
tirando la sua piccola mano: « resisti Hamish! » ripeté, aumentando di poco la corsa
nonostante cominciasse a sentire la milza pungere ed i polmoni bruciare a causa
dell’aria umida e della polvere che aveva sicuramente inalato dopo tutto il
tempo passato là sotto. Ancora non c’era possibilità di capire quanta strada
avessero fatto e da quanto tempo stessero correndo, ma non aveva comunque
intenzione di scoprirlo. Sarebbe arrivato più avanti possibile e se Hamish
fosse crollato, se si fosse stancato e le sue piccole gambe non avessero più
sopportato il ritmo frenetico della corsa, lo avrebbe preso in braccio e
avrebbe fatto più del suo possibile.
Finché
non si rivelarono tutti pensieri inutili. Finché non inciampò definitivamente,
cadendo in avanti e battendo la spalla sul binario, scorticandosi i palmi delle
mani con i sassi e portando Hamish giù con se. Fece di tutto per proteggerlo
dalla caduta con il proprio corpo, ma lo sentì atterrare sulla ghiaia a sua
volta.
Rimase
a terra per un secondo, uno soltanto. Un attimo in cui recuperò il fiato con
una boccata d’aria profonda che portò nella sua gola più pulviscolo che altro.
Sentì di nuovo i passi, la corsa dietro di loro, l’uomo armato avvicinarsi in
fretta, e l’unica cosa che poté fare, che pensò
di fare, fu di coprire il corpo del figlio con il proprio, intrappolandolo
sotto di sé.
Hamish
urlò. L’uomo gli fu addosso. Vide la luce sparire, caduta da qualche parte, il
buio ritornare impietoso. Il freddo della lama di striscio contro la testa.
Bruciore sulla tempia, liquido caldo (sangue). La mano sinistra dell’uomo sulla
propria schiena, appoggiata aperta sulle scapole, che lo teneva fermo sopra ad
Hamish. John si reggeva con le mani per non schiacciare completamente il figlio
sotto di sé. Attorno a lui c’era solo silenzio perché le orecchie si erano
rifiutate di ascoltare oltre il momento in cui avrebbe fallito sia come padre
che come uomo.
Il
momento in cui la vita avrebbe concluso quello che aveva cominciato in
Afghanistan.
Il
momento in cui sarebbe stato ucciso.
Forse
fu il suo istinto di sopravvivenza, o l’istinto del soldato assopito dentro di
sé. Si ancorò a terra con il braccio destro, usando il dominante sinistro per
sferzare due forti gomitate all’indietro che andarono a segno. A livello dello
stomaco le prime, al volto le successive due. Quando lo sentì lasciare la presa
sulla propria schiena si voltò di scatto, usando la forza della torsione per
sferrargli un pugno alla cieca a braccio inerme, che lo colpì miracolosamente
alla testa e lo fece cadere a terra.
Subito
si sollevò in piedi, afferrando Hamish per la camicia e facendo rialzare anche
lui.
E
la vide. In lontananza, una linea blu che spezzava l’oscurità in modo del tutto
naturale e anche del tutto insperato. Quasi inaspettato. Ci mise qualche
secondo per capire che era l’uscita, che la galleria non correva completamente
nel sottosuolo. Che era uno scorcio di Londra, quello che si vedeva là in
fondo.
« Corri Hamish » sussurrò,
riscoprendosi più affaticato e dolorante di quello che sperava di essere: « corri e cerca
aiuto, salvati. CORRI! » gridò, spingendo
il figlio verso la notte esterna al tunnel.
« No, papà! » gridò il figlio,
terrorizzato al solo pensiero di lasciarlo. Troppo piccolo per avere il sangue
freddo dei Watson e l’impassibilità degli Holmes.
« HAMISH VAI! » sbottò John,
disperato, sentendo grugnire l’aggressore dietro di sé, segno che stava per
riprendersi, e per attaccare, e avrebbe attaccato l’anello debole, avrebbe attaccato Hamish.
Lo
spinse di nuovo e solo allora lo sentì alzarsi e correre via. Ne fu sollevato.
Si
girò verso il buio giusto in tempo per sentire un braccio prenderlo
direttamente il volto e sbatterlo a terra di nuovo. Combattere nel buio era
come prendere a pugni un ignoto animale enorme che poteva colpirlo da tutte le
direzioni contemporaneamente senza che lui avesse avuto né il tempo, né la
possibilità di proteggersi.
Tentò
di tirare qualche calcio, ma colpì solamente l’aria. Sentì la lama del coltello
sibilare vicino al suo orecchio, dei movimenti alla sua destra, e allora tentò
di tirare un pugno in quella direzione, ma lo colpì solamente di striscio
prendendo solo vestiti. Temeva che si sarebbe messo a correre verso l’uscita
per intercettare Hamish. Temeva di non avere più la forza per rialzarsi e
rincorrerlo per fermarlo.
Ancora
una volta sull’orlo della paura.
Poi,
una luce fendette di nuovo il buio. Una luce tremolante ma sufficientemente ferma.
John riuscì perfettamente a vedere l’uomo torreggiare su di lui – gli occhi
piccoli e neri, la bocca distorta in un sorriso sanguinante, la mano alzata con
il pugnale in procinto di abbassarsi, il fisico magro ma atletico, i capelli
corti e neri.
Hamish,
in piedi a qualche metro di distanza, stava tenendo la torcia per lui. Per
mostrargli dove colpire.
Senza
pensarci due volte alzò di nuovo il piede e lo colpì all’inguine, dirigendo il
calcio al volto quando quello si inginocchiò a causa del dolore, rompendogli il
naso.
Ma
l’altro non si arrese. Ringhiò di frustrazione con la luce negli occhi,
infastidito sia da essa che dal sangue che sgorgava copioso dal suo naso rotto,
e cercò ancora una volta di calare il coltello su di lui.
Tre
colpi di pistola lacerarono il silenzio, rimbombando violenti sulle basse volte
della galleria, facendogli fischiare fastidiosamente le orecchie.
Vide
l’uomo davanti a sé cadere di lato, inerme, colpito in pieno.
Sentì
la voce di Hamish chiamare “papà” in modo ovattato, come se fosse lontano
chilometri. Sentì anche la voce di Sherlock gridare il suo nome e quello di
Hamish, ma non riuscì a capire se fosse reale o meno. Si sentiva come se stesse
galleggiando in acqua e quella impedisse a qualsiasi suono di arrivargli in
modo decente e comprensibile. Sapeva benissimo che era una conseguenza del
colpo di proiettile al chiuso, favorito da tutto il rimbombo e l’eco che i muri
arcuati della galleria creavano naturalmente, e sapeva anche che sarebbe
passato ma un altro tipo di spossatezza si impadronì di lui, impedendogli di
alzarsi e rimettersi in piedi. Si sentiva la camicia fradicia di sudore e il
lato destro del viso sporco di sangue – che fosse suo o no non faceva
differenza. Vedeva, senza nemmeno impegnarsi, fasci di luce danzanti sulla
volta sopra di lui. Non si mosse.
Mi mangeranno, pensò
distrattamente: i mostri che vivono
nell’ombra delle cose. I mostri che vivono nei cuori della gente. I mostri
proiettati da una luce troppo forte. Si nutriranno di me banchettando
sghignazzanti.
Si
chiese se fossero i sintomi di una perdita massiccia di sangue, o di una
commozione cerebrale. Non lo seppe con certezza ma il mondo sembrava troppo
distante nonostante ne sentisse la consistenza sotto di sé. Chiuse gli occhi
pensando ma sì, lasciamo fare ai mostri
ciò che vogliono.
Poi
si sentì scuotere per le spalle. La realtà tornò solida mentre qualcuno
chiamava il suo nome, inginocchiato di fianco a lui.
« John! John, mi
senti!? » vide Lestrade
esclamare, molti fasci di torce puntati in loro direzione mentre uno stormo di
uomini in completo nero marciava verso la galleria, posizionando lampade
alogene ogni due metri che illuminarono l’ambiente a giorno. Poteva quasi
vedere il nome “Mycroft Holmes” tatuato sulle loro
nuche di fianco ad un codice a barre e ad un numero di serie.
Annuì
distrattamente a Lestrade, chiudendo gli occhi a causa della luce improvvisa
dopo una lunga permanenza nel buio. « Hamish... dov’è Hamish? » biascicò,
cercando di farsi forza sulle braccia ed alzarsi da terra.
Greg
provò ad impedirglielo ma non ci fu verso. « Va tutto bene, sta bene, è con Sherlock » gli rispose.
Quando
fu in piedi, in un equilibrio abbastanza stabile, e alzò lo sguardo, la figura
alta a scura di Sherlock lo stava osservando con uno sguardo palesemente
preoccupato ed ansioso, tenendo in braccio Hamish che aveva seppellito e
nascosto il volto nell’incavo fra spalla e collo del detective.
Non
seppe rispondergli con un sorriso come faceva di solito. Non ne fu in grado.
Quella di Sherlock con in braccio Hamish era – ed era sempre stata – una delle
immagini più belle su cui potesse posare gli occhi, resa inusuale dallo stesso
Sherlock che raramente dimostrava la sua paternità così apertamente (aveva
altri modi, altri metodi, tutti suoi, tutti da decifrare e da capire ma
ugualmente dolci e unici, per essere padre), ma non trovò in sé la forza, o la
voglia, di reagire a quella vista.
« John, dovresti
andare in ospedale e farti visitare » sentì dire a Lestrade al suo fianco, il
medico scosse il capo.
Nausea, un capogiro. Chiuse gli occhi per farlo passare in fretta. Doveva
essere un lieve trauma cranico ma non ricordava davvero dove e quando avesse
potuto battere la testa.
« Sto bene, Greg.
Voglio solo andare a casa e togliermi questo schifo di dosso... » quasi grugnì in
risposta, battendo amichevolmente una mano sulla spalla dell’ispettore prima di
incamminarsi a passo lento (e un po’ malfermo) verso Sherlock.
Sherlock
che non la smetteva di guardarlo. Con un paio d’occhi fermi ma insicuri, lo
vedeva – lo vedeva sempre.
Si
avvicinò ma non sfiorò il detective. Posò una mano sulla testa di Hamish
sperando che sollevasse il volto dalla spalla di Sherlock – luogo in cui si era
nascosto – ma non se la prese troppo quando non lo fece. Notò le sue ginocchia
scorticate e sottili linee di sangue sulle piccole gambe magre e gli si strinse
il cuore. Anche le mani ed i gomiti dovevano avere lo stesso tipo di ferite ma
le teneva strette sul cappotto scuro del padre e John non poté vederle. In quel
momento, non volle nemmeno.
« Sei stato
bravissimo Hamish » mormorò,
posandogli un bacio sui capelli: « sei stato bravissimo e coraggioso. Sono
fiero di te » aggiunse dopo un
secondo bacio e facendone seguire un terzo.
Aveva
improvvisamente realizzato i segni, da quando aveva finalmente rivisto
Sherlock. Come se la capacità di analisi del detective lo avesse investito e
gli avesse aperto gli occhi.
La
porta che Hamish aveva detto di aver trovato già aperta, le impronte di mani
sul corrimano e le diverse serie di orme nella polvere. I segni c’erano e li
aveva visti, ma così come li aveva registrati li aveva anche ignorati. “Tu vedi
ma non osservi”, glielo diceva sempre. Pensare a quella frase lo fece solo
arrabbiare di più.
« John... » lo chiamò
Sherlock, la voce bassa data la vicinanza, ma il medico gli scoccò
un’occhiataccia da sopra la testa di Hamish.
« Ti ho chiamato » disse poi, il
tono calmo come se parlasse del tempo ma in realtà non lo era, affatto. « Ti ho chiamato e
non hai risposto. Per tutto il giorno... tutto il giorno... avresti capito, se
ci fossi stato tu. Io avrei saputo e mi sarei portato dietro la pistola. Tutto
il giorno... ho provato, Sherlock, davvero ho provato. Ma non lo so... non lo
so più... » disse,
distogliendo lo sguardo dai suoi occhi fin troppo chiari e fin troppo
consapevoli. « Puoi prenderti
cura di lui? » chiese poi, senza
aspettarsi risposte di nessun tipo da Sherlock (non ce ne furono).
Era
stanco. Non avrebbe voluto lasciare Hamish ma era davvero, davvero esausto.
Doveva pensare. Doveva recuperare la parte di sé che se ne stava andando da
sola alla deriva. Doveva lavarsi. Togliersi di dosso la polvere e la paura.
Vide
Holmes annuire, sistemando meglio Hamish fra le sue braccia. John annuì a sua
volta e lo oltrepassò in silenzio.
All’imbocco
della galleria, in piedi in un gessato grigio con cappotto annesso e con
l’immancabile ombrello al fianco, Mycroft lo osservava
camminare. John gli si avvicinò, lo sguardo alto ma vacillante, fermandosi di
fronte a lui.
« Posso chiedere un
passaggio per Baker Street? » chiese, il tono stanco che non cercò nemmeno di
modulare.
Vide
Mycroft annuire. « Qualsiasi cosa per mio cognato, dottor
Watson » gli disse,
accompagnandolo di persona alla macchina.
Era
il loro modo per ringraziarsi vicendevolmente.
Non
c’è rumore sottacqua. Non ci sono voci, parole, risa, pianti, sospiri, gemiti,
urla. Solo un vago eco indistinto, un mormorio sordo che accarezza l’orecchio.
Può
sentire il battito ritmico del proprio cuore. Il rumore di una bolla sulla
superficie esplodere a contatto con l’aria. Il suono dei propri pensieri, anche
se non è sicuro di quale sia e quali siano.
Se
doveva finire, sarebbe finita così. Abbandonato in un mondo in cui avrebbe
avuto tutto il tempo per piangersi addosso senza che nessuno lo sentisse. I
suoi suoni, le voci della tristezza e del rimpianto, sarebbero state circondate
dall’acqua ed in essa disciolte.
Non
apre gli occhi quando sente una mano appoggiarsi sul proprio petto, afferrando
la camicia. Non si sorprende del fatto che quella mano faccia forza e lo tiri
su, di nuovo in superficie, fuori da quel silenzio così rassicurante.
La
mano ha la carnagione pallida e le dita affusolate. La camicia bianca che
indossa è arrotolata fino ai gomiti. Si è tolto giacca e cappotto. Lo sta
guardando con lo sguardo di chi non sa come guardarti e aspetta un tuo segnale
per capire cosa fare. È in attesa.
John
respira di nuovo l’aria del bagno. Guarda Sherlock negli occhi. « Lasciami » dice. Non voleva
sembrare scorbutico.
Forse
è proprio ciò che ha fatto.
Sherlock
gli ubbidisce, allentando la presa. John sospira e si appoggia con la schiena
alla vasca e con la testa al muro dietro di essa.
Anche
se scivolasse ancora sotto la superficie dell’acqua, non sarebbe più in grado
di ritrovare lo stesso mondo di poco prima.
« Ho visto il
foglio sul tavolo... e l’anello » dice il detective, seduto a terra con le
spalle appoggiate al bordo della vasca, lo sguardo fisso sul pavimento sotto il
lavandino. « Non pensare che
te lo lascerò fare » pronuncia – e sa
di definitivo.
Il
cuore di John perde un battito. Possessività. Un altro degli aspetti di
Sherlock che amava e che non vedeva quasi mai.
« Non voglio farlo » gli risponde, ed
è sincero. Non aveva mai voluto farlo nemmeno quando aveva pensato di volerlo
fare davvero.
Sherlock
aggrotta le sopracciglia. « Allora perché? » chiede.
John
si guarda le mani, ora pulite dallo sporco e dal sangue. I palmi sono graffiati
e scorticati e bruciano in un modo debilitante a contatto con l’acqua.
« Perché ci sono
delle volte in cui mi fai arrabbiare così tanto » comincia John: « che l’unico modo
che ho per non crollare è pensare al potere che avrei minacciando di lasciarti.
Sono i cinque minuti in cui mi illudo che il vedermi andar via ti
distruggerebbe come distrusse me quando fosti tu a non esserci » gli rivela,
rimanendo in silenzio qualche istante per poi riprendere parola: « ma c’è Hamish, e
io ti amo. Ti ho amato conoscendoti e ti conosco proprio perché ti amo, dunque
riesco a prevedere almeno un po’ il tuo carattere imprevedibile. Ti amo, ma
ultimamente siamo piantati in una guerra di trincea che non lascia né vincitori
né vinti, solo feriti » dice, inclinando
il capo.
« Hamish » intuisce
Sherlock.
John
annuisce, anche se l’altro non può vederlo. « Non è stata curiosità Sherlock, non del
tutto. Era una fuga dimostrativa. Un dispetto per farci capire che lui ha
capito » dice.
« Lo so » ribatte Sherlock,
il volto basso: « me lo ha detto ».
Cala
un silenzio strano, nel bagno del 221B. Un silenzio leggero ma denso. Finché
non è Holmes ad interromperlo.
« Siamo cattivi
genitori, John? » domanda. Ed è
incredibile che Watson riesca a trovare le risposte a tutti i suoi dubbi solo
quando al suo fianco c’è Sherlock Holmes.
« No » gli risponde: « no, non siamo
cattivi genitori. Siamo... normali. Capita a tutti di litigare » gli spiega.
Perché
ci sono cose – poche – che Sherlock non sa e che John deve insegnargli. Anche
ora.
Ma
Sherlock non è convinto. « Non abbiamo mai
litigato così » afferma.
Ha
ragione, ma non dice niente – non ce n’è bisogno.
È
Sherlock a continuare il discorso: « ho capito la logica dietro il tuo
ragionamento di voler lavorare alla clinica, John » gli dice,
monocorde ma sincero: « ed è vero che
Hamish è un bambino leggermente
iperattivo, ma– ».
« No, Sherlock » lo interrompe il
medico.
« John– ».
« No » lo interrompe
ancora.
« Volevo solo dire
che– ».
« Cosa devo fare
per farti stare zitto? » domanda
retoricamente il medico in una risata lieve, facendo comparire un sorrisetto
anche sulle labbra del detective.
Il
primo in cinque mesi.
Solleva
una mano dall’acqua, andando a catturare uno dei riccioli neri. Se lo rigira
fra le dita, bagnandolo, saggiandone il cambio di consistenza nonostante le
ferite rendessero la sua mano un ammasso di graffi doloranti. Sherlock volta il
capo verso di lui, poi il resto del corpo e si sistema con le braccia sul bordo
della vasca e il mento appoggiato alle mani, lasciandolo fare.
John
passa i polpastrelli delle dita sulla fronte e sulle piccole rughe che il tempo
non ha risparmiato nemmeno a Sherlock. Passa con l’indice sul naso, spostandosi
sulle gote, accarezzando gli zigomi, la linea della mascella, il mento. Arriva
alle labbra. Le sfiora con il pollice, disegnandone i contorni.
C’erano
momenti in cui avrebbe avuto un’erezione, osservando quei lineamenti. Sfiorando
con le dita l’arcata sopraccigliare, i suoi zigomi, le sue palpebre chiuse.
Disegnando con l’indice il contorno delle sue labbra. Sentendo Sherlock fare
altrettanto a lui.
Ma
non è uno di quei momenti.
Sherlock
si avvicina, si incontrano a metà strada. John sente la mano destra del
detective appoggiarsi sulla sua guancia in una carezza impacciata ma
affettuosa, dolce.
Sherlock
lo tocca, lo sfiora, saggia ogni linea, ogni ruga del suo viso prima con le
dita, poi con le labbra. E John fa lo stesso, poggiando le sue dove riesce ad
arrivare, incontrando quelle di Sherlock molte volte. Come la prima volta.
La
prima volta che lo aveva baciato. La prima volta che Sherlock aveva baciato
lui. La prima volta in cui si erano baciati. La prima volta in cui avevano
fatto l’amore. La prima volta in cui gli aveva detto di amarlo. La prima – e fin’ora
unica – volta in cui Sherlock lo aveva detto a lui. La prima ed unica volta in
cui Sherlock gli aveva chiesto, nel modo tutto suo di porsi, di sposarlo. La
prima volta in cui avevano fatto pace dopo il primo litigio serio. La prima
alba vista dopo aver passato la prima notte in bianco cullando Hamish per non
farlo piangere.
Tutto
per riscoprirsi di nuovo.
Tutto
come la prima volta.
Il
modulo era andato distrutto. John era uscito dal bagno pulito ed in pigiama, si
era rimesso la fede al dito, aveva preso il foglio di carta e lo aveva bruciato
sul fornello. Sherlock, appoggiato allo stipite della porta con in mano
disinfettante e bendaggi, aveva aspettato che avesse finito prima di
sorridergli, indicargli la sedia e medicarlo.
Aveva
disinfettato ogni graffio e ferita, applicando cerotti o bende. Gli aveva anche
spalmato la pomata sul livido grosso come un melone che gli era spuntato sulla
spalla destra, così come aveva scoperto un bernoccolo molto doloroso sulla sua
nuca, probabilmente fonte del lieve trauma cranico che gli aveva provocato in pochissimo
tempo un mal di testa furioso.
Era
stato in guerra e ne era uscito meglio.
Ora,
steso sul letto nella luce soffusa dell’abat-jour, tutto sembra tornato al
proprio posto. Il peso dell’anello è dolce al suo dito, i passi al piano di
sopra sono quelli di Sherlock che è andato a controllare Hamish e sorride
quando li sente scendere le scale ed entrare prima in salotto, poi in camera.
Non
ha bisogno di esprimere nessun desiderio. Sherlock sale piano sul letto,
stendendosi dietro di lui, petto contro schiena, labbra contro nuca. Il suo
profumo è più rassicurante di mille parole e John intreccia le dita della sua
mano con quella di Sherlock, quando il detective fa passare un braccio intorno
alla sua vita e lo stringe a sé.
Casa,
finalmente. Alla fine.
« Come sta Hamish? » chiede, il tono
basso. Il mal di testa è peggiorato, nell’ultima ora, impedendogli di fare
qualsiasi cosa. Anche muovere troppo in fretta il capo.
« Bene » gli risponde
Sherlock: « mrs. Hudson mi ha aiutato a disinfettargli le ginocchia e i
gomiti. Non si è fatto niente, solo qualche escoriazione. Era terrorizzato ma
adesso lo spavento è passato ».
John
annuisce, stringendosi di più nell’abbraccio del marito (cosa che sente essere
molto apprezzata, a giudicare dal piccolo bacio che Sherlock gli lascia sulla
nuca). « È stato
bravissimo » dice poi: « anche se avrei
preferito che fosse scappato. Ha visto uccidere quell’uomo... ».
« Era un serial
killer. Hamish è abbastanza intelligente per capire il perché della sua morte » ribatte Sherlock,
la voce calma, il tono basso.
John
sospira. « Sì, sì... hai
ragione. Ma ha pur sempre sette anni. Mi piacerebbe che li avesse ancora per un
po’ » dice, ascoltando
in silenzio il battito del cuore di Sherlock contro la sua schiena, godendosi
il calore della sua presenza.
Il
detective non risponde, ma John non sente il bisogno particolare di continuare
a parlare. Ha solo voglia di rimanere così, stretto alla persona che ama, nella
casa che ama, pensando al figlio che ama, circondato dalla vita che ama. Aveva
sempre voluto solo questo, dalla vita, ed è felice che essa l’abbia finalmente
ripagato. Andava bene così.
« Ha preso da te » dice poi Sherlock
alle sue spalle.
« Mh? » chiede lui in un
mugugno assonnato.
« Hamish. Il suo
carattere. Buono, coraggioso, sorridente... ha preso da te » gli spiega,
parole leggere mormorate ad un passo dal sonno.
John
soffia fuori una risata. « Oh, no,
Sherlock... direi che ha preso molto di più da te » gli dice
sorridendo.
Sente
Sherlock sorridere a sua volta contro la pelle del proprio collo. « Ha preso qualcosa
da entrambi » ammette, per poi
aggiungere: « così siamo pari ».
Chiude
di nuovo gli occhi, sospirando piano. Il sonno è dietro l’angolo, lo sente
avvicinarsi, e lui non fa resistenza; troppe emozioni, troppa tensione, troppa
adrenalina per una notte sola. Troppo mal di testa. Troppa felicità.
Sta
già per regolarizzare il respiro quando sente di nuovo la voce di Sherlock: « sta arrivando » gli sussurra,
riportandolo nel mondo della veglia.
« Hamish? » chiede John.
Holmes
annuisce contro il suo collo. « È alla fine delle scale » mormora.
Ci
vogliono meno di due minuti per sentire la porta della camera da letto aprirsi
e poi richiudersi, e avvertire i passi leggeri di Hamish fare il giro del
letto. Quando riapre gli occhi, il piccolo è in piedi di fronte a lui, le
sopracciglia aggrottate e gli occhi lucidi sull’orlo delle lacrime.
Eccolo,
il suo bambino. I suoi sette anni ancora tutti lì: nel sogno di diventare
astrofisico solo dopo aver fatto il pirata, nella paura del buio, nel venire a
dormire nel loro letto dopo aver fatto un brutto sogno, nel pigiama con piccole
macchinine disegnate che Harry gli aveva regalato lo scorso Natale.
Nei
cuori suo e di Sherlock, probabilmente Hamish avrebbe avuto sempre sette anni.
Sarebbe stato per sempre il piccolo frugoletto che aveva afferrato il suo dito
con la mano, guardandolo con quegli enormi occhi azzurri. Sarebbe stato per
sempre il bambino che si infilava in silenzio a letto con loro cercando di non
svegliarli.
Gli
sorride, John, scostando la coperta. Hamish si arrampica sul letto e si
accoccola al suo petto, lasciando che il medico gli sistemi il lenzuolo sulle
spalle e lo abbracci stretto.
« Non riesci a
dormire? » chiede Sherlock,
issandosi sul gomito per poter vedere Hamish.
Il
bambino scuote il capo.
« Brutti sogni? » domanda allora
John.
Hamish
nega di nuovo con la testa.
« Allora cosa? » chiede Watson,
accarezzandogli i capelli scuri.
« Hai paura? » aggiunge
Sherlock.
Hamish
annuisce piano.
John
piega le labbra in un sorriso tenero, posandogli un bacio fra i capelli. « Non devi averne » gli dice: « anche io ho avuto
tanta paura, là sotto. Sai, zia Harry si divertiva a spaventarmi quando eravamo
bambini raccontandomi le leggende dei fantasmi della metropolitana. Non mi è
piaciuto andarci. Ma ora stiamo bene, siamo tutti qui e questo è l’importante » aggiunge con tono
gentile.
Sherlock
ridacchia alle sue spalle, ma John non se la prende, rispondendogli con un
sorrisetto.
« Non... divorziate
più? » chiede ancora il
bambino, gli occhi chiusi.
John
scuote la testa. « No, Hamish. Mai.
Non lascerò mai tuo padre. Così come non lascerò mai che se ne vada in giro da solo
a dare la caccia ai criminali » aggiunge.
Vede
con la coda dell’occhio Sherlock osservarlo stranito, capendo al volo l’allusione.
« Sai che lo facevo
anche prima di incontrarti, John Watson? » domanda allora, fingendo sufficienza.
« Prima di me ti
cacciavi semplicemente nei guai, Sherlock Holmes » ribatte fiero il medico.
Hamish
ride. I genitori sorridono, sollevati.
« Dormi Hamish » dice poi
Sherlock: « io e tuo padre
siamo qui ».
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1.
Nel fandom inglese Hamish chiama John "dad" (papà) e Sherlock "father"
(padre). Ora, la lingua italiana non ci concede una tale varietà di linguaggio,
se non per l'utilizzo del termine "babbo", che però a me non piace
per niente; così come non mi piace la traduzione di "father",
in quanto la ritengo un po' troppo formale. Ragion per cui qui Hamish chiamerà
sia John che Sherlock "papà" e io farò del mio meglio per farvi
capire a chi si riferisce in base al contesto ;D
2.
Tutte queste informazioni arrivano da un servizio di Voyager
sui fantasmi della Tube. Se Cercate su YouTube lo
trovate di sicuro. Consiglio di guardarlo, è interessante.
3.
Tutto quello che snocciola Sherlock è pura storia. Le tre fermate in questione sulla
Metropolitan Line furono
chiuse nel '39 per poter smaltire il traffico intenso della linea e furono
rimpiazzate da due fermate prima sulla Bakerloo Line, poi sulla Jubilee Line (le attuali Swiss Cottage e
St. John's Wood). Le fermate in sé e per sé esistono
ancora sulla Metropolitan e, ovviamente, è
assolutamente contro la Legge andarci senza autorizzazione ;D (Legge? Cos'è la
Legge? Si mangia?).
Inoltre
la fermata di Lord's venne rinominata così solo
cinque mesi prima della sua chiusura. Dal 1925 fu chiamata St. John's Wood e, ancora prima, St. John's
Wood Road. Da cui il titolo.
4.
Per chi non ci fosse stato: la Tube londinese provvede alla sicurezza dei suoi
avventori con una leggermente inquietante voce maschile pre-registrata che, ad
ogni fermata ed in ogni stazione, pronuncia un profondo "mind the
gap" atto a far notare che fra il treno e la banchina ci sono una cinquina
di centimetri di vuoto in cui il piede potrebbe poco gloriosamente rimanere
incastrato. Ormai la frase è diventata famosissima ed è utilizzata anche al di
fuori dell'Inghilterra.
5.
La stazione di Lord's (alias St. John's
Wood Road) è classificata come sub-surface, il che
vuol dire che non è completamente sotterranea: solo la banchina lo è, mentre i
binari verso sud corrono scoperti per un tratto. Per necessità di trama, ho
deciso di interrare la stazione un po' di più e far cominciare il pezzo
scoperto oltre la visuale della banchina. Chiamatela libertà artistica, se
volete ;D
6.
Io ho la convinzione artistica che John sia cresciuto senza suo padre, o per
meglio dire, che suo padre abbia lasciato la famiglia quando John era piccolo
(6/7 anni). Motivo per cui mi escono frasi del genere.