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Autore: Yoko Hogawa    10/08/2012    15 recensioni
Anche John aveva una paura, una di quelle che vengono dall’infanzia. L’aveva nascosta, sotterrata dentro di sé quando era diventato prima medico poi soldato, perché i medici e i soldati – soprattutto se sono medici e soldati – non hanno paura di niente. Come i veri uomini. Suo padre amava dirgli ciò che i veri uomini non fanno (evitando accuratamente di spiegargli cosa bisognasse fare per diventarlo, un vero uomo).
[Johnlock e Parentlock]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: Ehi, se davvero tutto ‘sto ben di Dio fosse mio, probabilmente sarei piegata sugli script della terza stagione con Steven Moffat e Mark Gatiss che mi parlano di citazioni e dettagli e pugni in faccia. Fatto sta che sono qui, dunque niente è mio (il mio compleanno è ad aprile, comunque, nel caso). E non vengo pagata per scrivere (tornare al punto 1 xD).

 

Note: Johnlock. Husbandlock. Parentlock, sulla scia di molte altre meravigliose fic che mi hanno preceduta ultimamente. No, non chiedete, non lo so “come”. Tumblr ha buona parte della colpa, comunque. Credo di avere anche un kink per la Tube.

Questo è il risultato di quando mi dico “scrivo qualcosa di fluff”   [#YouAreDoingItWrong].

Il cambio di tempo verbale fra inizio e fine è voluto (per la cronaca).

Tutte le note sono a fondo pagina, perché ci sono alcune precisazioni tecniche – che amo – che vanno fatte. È comunque una cosa senza pretese, in attesa di altra ispirazione (che penso sarà a capitoli).

Non sono convinta, ma fa lo stesso.

 

A chi si vuole cimentare, buona lettura

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St. John’s Wood Road

 

 

La superficie dell’acqua nella vasca da bagno è immobile attorno a lui.

Sfiora placida le punte dei pollici e degli indici delle sue mani, che ne emergono di qualche centimetro. Circonda silenziosa la base delle ginocchia piegate. Stacca dalla pelle gli abiti sommersi. I jeans neri, la camicia rossa a scozzese.

L’acqua è gelida, ghiacciata ad un livello tale che John fatica a sentirsi ancora le dita dei piedi come parte integrante del corpo. Ma c’è effettivamente poco che sente ancora suo, in quel momento, in quel corpo.

Non respira, John, o almeno non lo fa normalmente. Non lo fa per non increspare l’acqua che arriva a lambirgli dolcemente il mento (il tocco più dolce ricevuto da molto tempo). Trattiene il respiro per lunghi momenti, liberandolo in piccoli e brevi soffi innocui, respirando solo dal naso. Farlo gli offusca la vista, ma non ha intenzione di smettere. È l’unico modo che ha per impedire al proprio cuore di riprendere il battito pauroso che aveva sostenuto fino a circa mezz’ora prima. Probabilmente, la forza di quel cuore avrebbe fatto increspare l’acqua. E lui non voleva far increspare l’acqua.

Immobilità: se doveva finire, sarebbe finita così.

Non è trasparente, l’acqua. Ha assunto quel colore rosso opaco da quando si è immerso ed ha atteso paziente che il turbamento dovuto alla sua presenza svanisse lentamente (che l’acqua si abituasse a lui, alla sua intrusione, e tornasse tranquilla, placida, immobile). Il colore del sangue che non è troppo, ma nemmeno troppo poco.

Sangue suo. Sangue non suo. Sangue suo e non suo, mescolati insieme. Sangue di poca importanza (entrambi).

C’è odore di ruggine (l’odore del sangue). Di terra e di polvere (la sfumatura di nero nell’opaco del rosso). Di sapone (marginale) e di tè (immaginazione; la teiera abbandonata in cucina, una tazza mezza vuota rovesciata e schiantatasi sulle scale del secondo piano).

Il gesto disperato di un padre. Se doveva finire, voleva che lo ricordasse così: una tazza bianca a righe blu andata in frantumi sulle scale. Una metafora senza senso, ma poetica (forse, e forse solo per lui).

C’è un dolore sordo allo zigomo contuso. Un rivolo di sangue che gli scivola lungo la tempia e colora l’acqua in cui è immerso. Un taglio sulla fronte che causa la fuoriuscita di quel rivolo e che non smette di sanguinare. Graffi e contusioni alle mani che bruciano insistentemente. Non c’è un osso che senta integro, non un muscolo che non sia dolorante. Non un’anima, non più – l’aveva persa nel buio, negli angoli scuri nascosti nella luce del neon francamente accecante sopra la sua testa, che accecante non lo era mai stata (ipersensibilità alla luce: probabile lieve trauma cranico).

Silenzio. Pesante e racchiuso fra le quattro mura piastrellate di bianco. Rimbombi lontani di passi al piano di sopra, passi in salotto, passi in cucina, passi in avvicinamento. Li riconosceva (ovunque, sempre, per sempre).

Chiude gli occhi, scivola in basso. L’acqua si agita. La superficie trema ed ondeggia al suo movimento.

Non è colpa sua, non è colpa di Hamish, non è colpa di Sherlock, non è colpa di nessuno. Lui è un essere umano che dovrebbe far altro, nella vita. Una volta era un soldato – non un essere umano – e gli andava bene così.

È più facile affrontare i problemi quando puoi sparargli.

Chiude gli occhi mentre si immerge. Sente i passi sempre più vicini alla porta del bagno ma non gli importa.

Scivola nell’acqua finché non sparisce. Scivola nel silenzio, nel freddo, nel mondo ovattato sotto la superficie.

E prega che sia il più indolore possibile.

 

 

 

 

 

 

 

Era abbandonato su di una sedia davanti al tavolo della cucina da quelle che sembravano ore – e forse lo erano davvero.

I pantaloni grigi del pigiama, una maglietta bianca a mezze maniche, un maglioncino color vinaccia non abbottonato. I capelli spettinati erano quelli di chi si è concesso una doccia eterna, gli occhi fissi al pavimento quelli di chi vorrebbe smettere di pensare ma non può (non ora).

Sul tavolo, tre oggetti. Un foglio di carta, un anello d’oro, un cellulare.

Il cellulare era il suo. Era quello con cui aveva mandato un messaggio a Sherlock quattro ore prima al quale lui non aveva mai risposto. Un messaggio semplice: “torna a casa”. L’implorazione che aveva seguito il “mi dispiace”, il “la cena si raffredda”, il “qualunque cosa abbia fatto non era mia intenzione”, il “ti amo”. Tutte parole a senso unico.

L’anello era la fede. Quella che si era tolto dopo cinque anni e che non aveva ancora rimesso al dito.

Il documento, era un modulo prestampato che aveva avuto l’accortezza – e la disperazione sufficiente – di scaricare da Internet. Adesso i moduli per le richieste di divorzio li mettevano anche on-line. Come se non fosse già abbastanza imbarazzante firmarli. Ammettere davanti ad un giudice di avere fallito. Aggiungere al proprio stato civile la parola “divorziato”.

Sherlock dell’ultima parte non ne sapeva niente ma, a sua discolpa, poteva dire che erano tante le cose che Sherlock aveva smesso di ascoltare, nelle ultime ore.

Avevano litigato. Di nuovo. Succedeva spesso, ultimamente.

Quella mattina Sherlock si era svegliato di cattivo umore e John era troppo provato per starlo realmente a sentire con la dovuta pazienza. Pazienza che ormai aveva esaurito, perché erano cinque fottuti mesi che Sherlock trovava ogni momento buono per discutere del suo lavoro, del fatto che vivessero benissimo anche senza che lui andasse a lavorare come medico in un ambulatorio sciatto, del fatto che quel lavoro lo stesse allontanando dai casi e via dicendo, via dicendo, via dicendo. E John era stanco, davvero stanco di spiegargli ogni volta che lo faceva per stare più tempo con Hamish, perché il bambino non si meritava due genitori sempre a correre per Londra a dare la caccia ai criminali – ne bastava uno –, che mrs. Hudson ormai era invecchiata troppo per fare la babysitter e che lavorare in ambulatorio gli dava la possibilità di avere orari fissi ed uno stipendio da non disprezzare.

Ma Sherlock era sordo ad ogni spiegazione e John non aveva più voce da sprecare in capitolo.

E così era cominciata la guerra di trincea. Silenzi, occhiate, discussioni ad ogni ora del giorno e della notte. L’armonia di coppia in frantumi, il ritorno di vecchi amici sgraditi (la nicotina per Sherlock, un dolore fantasma alla gamba per John). Ed Hamish che sentiva, sentiva tutto, nascosto dietro le porte o direttamente dalla sua camera, nonostante lui e Sherlock cercassero di trattenersi dal discutere quando loro figlio era in casa (almeno su di una cosa erano d’accordo, a quanto sembrava). Ma non ci riuscivano. E la nave affondava. Il castello crollava. Metro dopo metro e pietra dopo pietra. Inesorabilmente.

Fino al litigio di quella mattina, in cui Sherlock aveva messo in discussione la loro famiglia. John sapeva benissimo che l’aveva fatto per rabbia, che aveva detto tutto senza minimamente pensarci, che nemmeno sapeva quantificare la gravità di quello che stava dicendo, ma il fatto stesso che fosse un ex-soldato orgoglioso e testardo – e che quelle parole lo avessero ferito molto più a fondo del consentito – lo aveva portato ad accendere il computer subito dopo che Sherlock aveva sbattuto la porta di casa e a scaricare il modulo che ora giaceva sul tavolo sotto al suo sguardo.

Lui amava Sherlock come lo aveva sempre amato. E amava Hamish, che biologicamente non era suo, come se suo lo fosse stato davvero. Non aveva mai messo in discussione quello, ciò che loro tre erano diventati, e Sherlock semplicemente non poteva permettersi di farlo in sua vece.

Nemmeno per rabbia. Nemmeno se non intendeva farlo sul serio (e John sapeva che era così, ma il perdono per quelle parole non riusciva proprio a trovarlo).

Sospirò, massaggiandosi gli occhi con la mano destra. In una briciola di speranza allungò la stessa mano sul cellulare, scorrendo la rubrica fino al numero di Sherlock, facendo partire la chiamata.

Come tutte le altre volte lungo il corso di quella giornata infinita, il telefono squillò a vuoto.

Chiuse la chiamata giusto in tempo per sentire dei passi lungo le scale, e la porta d’ingresso aprirsi.

Da quando Hamish era diventato abbastanza grande per dormire da solo, John gli aveva ceduto la sua vecchia camera al piano di sopra, che era diventata a tutti gli effetti il quartier generale del figlio (tranne quando doveva essere pulita, ovviamente, cosa a cui pensava John).

Con uno scatto veloce prese il modulo per il divorzio e lo voltò dalla parte bianca. Suo figlio era fin troppo intelligente ed accorto per non avere già capito la brutta aria che tirava fra i suoi genitori, non serviva una prova ulteriore di cosa stesse passando loro per la testa.

Con un passo leggero perfettamente udibile nel silenzio, Hamish Watson Holmes, sette anni appena compiuti, si affacciò alla porta aperta della cucina.

John, voltandosi, gli sorrise. Hamish era di qualche centimetro più alto rispetto ai bambini della sua età, aveva la pelle chiara ed era magro; una testa di capelli neri e lievemente mossi faceva da cornice ad un paio d’occhi di un azzurro disarmante, rendendo palese la sua discendenza genetica. Se non fosse bastata la sua spropositata intelligenza, ovviamente.

Era maledettamente uguale a suo padre. Così simile che guardarlo faceva quasi male.

« Ehi, non è ora che vai a dormire? » domandò John, suonando forse più stanco e sfibrato di quanto in realtà volesse dare a vedere.

Hamish, annuendo appena, entrò in cucina e gli si avvicinò. « Papà non è ancora tornato? » domandò.(1)

John scosse il capo. « Io e papà abbiamo avuto una piccola discussione questa mattina, mentre tu eri a scuola » cercò di spiegargli dolcemente: « probabilmente tornerà stanotte » disse.

A volte credeva che fosse inutile trattarlo ancora come un bambino. Hamish era davvero molto intelligente, così tanto che temeva che avesse già perso tutto ciò che gli rimaneva della sua infanzia... ma nonostante tutto era ancora un bambino – che giocava, e si divertiva, e faceva finta di essere il capitano di una nave pirata (tutto suo padre, sul serio) – e John non aveva semplicemente il coraggio di fargli ingoiare la pillola amara. Hamish capiva lo stesso. Hamish capiva sempre.

Capì anche quella volta. In silenzio.

John sorrise ancora. « Non ti preoccupare, si risolverà tutto. È solo un brutto periodo » gli disse, mezza verità e mezza bugia (cose che pensava realmente ma in cui non sperava totalmente).

Suo figlio annuì, allungandosi sulla punta dei piedi per posargli un bacio sulla guancia. « Vado a letto. Buonanotte » gli disse.

John annuì, spettinandolo in una carezza. « Buonanotte figliolo » lo salutò.

Lo guardò incamminarsi fuori dalla cucina, ma prima che potesse attraversare la porta si fermò. Si voltò di nuovo verso di lui, guardandolo con le sopracciglia aggrottate. « Papà? » chiamò.

« Sì? » rispose John, in ascolto.

« Ti voglio bene. E anche papà te ne vuole tanto, anche se non te lo dice spesso » gli disse.

John si chiese, guardando suo figlio in piedi a poca distanza da lui, come quelle semplici parole fossero in grado di mandarlo in brodo di giuggiole e sull’orlo delle lacrime contemporaneamente. Probabilmente era il suo essere padre – per quanto anti-convenzionalmente – a fargli quell’effetto (francamente debilitante).

Annuì al figlio, allargando il sorriso. « Lo so. Vi voglio bene anche io » gli rispose, un groppo in gola che nascose il meglio possibile.

Quando Hamish sparì e cominciò a salire le scale verso la sua camera, John chiuse gli occhi e deglutì. Non aveva la minima idea di cosa sarebbe successo, ma la cosa non gli piaceva a prescindere.

 

 

Lestrade si concesse uno sbadiglio ampio, di quelli che quando richiudi la bocca ti fanno male gli angoli delle labbra.

Si passò la mano destra sugli occhi, infilandosela poi fra i capelli nel tentativo di ritrovare se stesso – o qualunque cosa somigliasse alla forza di ritornare nel proprio ufficio – prese i due caffè che aveva appena preparato – uno con un cucchiaio di miele e l’altro con due cucchiaini di zucchero – e, facendo retro-front dal cucinino del commissariato, rientrò a passo strascicato oltre la porta a vetro con la scritta “D.I. Gregory Lestrade”.

« Caffè » biascicò ad uno slanciato Sherlock Holmes, ospite nel suo ufficio da quella stessa mattina, in piedi davanti ad un tabellone di sughero su cui erano stati attaccati fotografie e documenti riguardo all’ultimo caso in corso.

Come Greg aveva immaginato, non diede il minimo segno di averlo notato. Tranne per il fatto che si mise a parlare, anche se sapeva da fonti autorevoli (John) che era in grado di farlo anche senza che nessuno fosse effettivamente presente (dunque il dubbio che non lo avesse notato permaneva).

« C’è qualcosa che ci sfugge » constatò, aggrottando le sopracciglia infastidito, le dita delle mani unite appoggiate alle labbra.

« E buon anno nuovo » borbottò Lestrade sorseggiando il proprio caffè, abbandonato in modo indecente sulla sedia della propria scrivania. Erano ormai le undici e mezza di notte e dopo un’intera giornata passata ai ritmi senza respiro di Sherlock Holmes, cominciava a sentire la stanchezza.

Holmes lo fulminò con la coda dell’occhio, ritornando quasi subito al tabellone. « Hai evitato che la stampa diffondesse la notizia? » domandò.

Lestrade, le labbra ancora sul bordo della tazza, roteò gli occhi. « Procedura standard, certo » rispose.

« Mh... » mugugnò l’altro pensieroso: « dovrebbe essere arrabbiato. Dovrebbe esserlo, cerca l’attenzione mediatica, quella che noi non gli stiamo dando, e allora cosa sta aspettando? Se uccidesse qualcun altro avrei tutte le informazioni che mi servono! » esclamò il detective, incrociando le braccia al petto e tamburellando le dita sul proprio avambraccio.

Greg sospirò. « Sherlock, noi dovremmo evitare che uccida qualcun altro » lo redarguì.

Holmes gli rispose con una scrollata di spalle. « Sciocchezze » disse: « uccide in modo troppo discontinuo, troppo diverso, troppo pulito. O meglio, si sceglie posti sporchi che coprano le sue tracce. La metropolitana. Astuto, furbo, ma non abbastanza, se solo riuscissi a capire lo schema. Uno schema che sembra non esserci. Non esserci, no, e se non ci fosse? Ma non può non esserci, ci deve essere, deve avere uno schema. È un seriale, non un volgare psicotico... » pensò ad alta voce, cominciando a riferirsi più a se stesso che all’ispettore.

Greg sospirò, appoggiando la tazza alla scrivania. Aveva decisamente superato il limite giornaliero della sua pazienza. Ora avrebbe cominciato a fare domande.

« Sherlock, siediti » disse.

Il moro lo ignorò.

« Sherlock! » chiamò ancora.

Holmes lo ignorò di nuovo.

« Sherlock Holmes, dammi la tua attenzione o giuro che il killer della Metropolitana lo prenderò senza il tuo aiuto » minacciò.

Sherlock si espresse in un sogghigno. « Mi piacerebbe vederti provare » ribatté.

Touché. Ma non era ancora finita. Sfoderò l’arma che John (l’uomo che ci aveva prima convissuto, poi lo aveva sposato – figlio annesso. Santo subito.) gli aveva detto funzionare la maggior parte delle volte.

« Per favore » gli disse, voce ferma.

Vide Sherlock serrare le labbra in un moto di stizza. « Tu devi smetterla di parlare con John » borbottò, girandosi definitivamente in sua direzione prima di aprire bocca di nuovo: « due minuti, Lestrade. Dopodiché qualsiasi cosa tu mi voglia chiedere, cose che sono chiaramente scollegate dal caso in corso e sì, sappi che te lo si legge in faccia, io farò quello che mi riesce meglio, ovvero smettere di ascoltarti » avvertì, sedendosi e prendendo in mano solo in quel momento la sua tazza di caffè.

Greg non poté fare altro che annuire, accettando silenziosamente le condizioni.

Erano più di dieci anni che conosceva Sherlock Holmes e mai, mai era rimasto per più di un quarto d’ora nel suo ufficio. Sherlock Holmes era allergico a Scotland Yard. Immaginava che gli venisse l’orticaria anche solo alla vista dell’insegna all’ingresso. Motivo per cui c’era qualcosa di profondamente sbagliato nella sua presenza lì e aveva fondamentalmente il timore che – purtroppo – centrasse John.

Cercò le parole giuste con cui iniziare. « C’è qualcosa che non va? » domandò.

Approccio classico, ma confidava di portarlo sull’argomento pian piano, delicatamente.

Regola numero venti delle relazioni con sociopatici iperattivi ad alto QI: mai confidare, pianificare, supporre.

« Possiamo saltare la parte in cui prendi il giro largo per chiedermi se c’è qualche problema con John? » gli domandò Sherlock in risposta.

Lestrade si diede dell’idiota per averci provato e si arrese miseramente. « C’è qualcosa che non va con John? » chiese dunque.

« Non sono affari tuoi » rispose Holmes.

« Oh, andiamo, Sherlock! » esclamò Lestrade, mettendosi seduto meglio: « senza offesa, ma non voglio vederti nel mio ufficio in pianta stabile ogni volta che tu e John discutete ».

« Questa è la prima volta che lo faccio ».

« È anche la prima volta che il litigio sembra grave » insisté Greg.

Sherlock lo guardò, positivamente sorpreso. « Perspicace, Lestrade » ammise.

« Sì, beh, grazie » concesse l’ispettore: « non era così difficile ».

Il detective sospirò, prendendo un sorso di caffè dalla tazza. Lestrade non si perse l’espressione disgustata che riservò alla bevanda prima di abbandonarla sulla sua scrivania, ma evitò di commentare in favore dell’attesa.

Attesa che venne infine ripagata. « Io e John siamo in una sorta di... conflitto d’interessi » sputò quelle parole come se fossero un misto di succo di limone e acido muriatico: « ...che si protrae da un po’ » formulò.

« Da quanto, esattamente? » domandò Greg.

Sherlock evitò il suo sguardo inquisitore: « cinque mesi ».

Lo Yarder annuì brevemente con il capo. « E quale sarebbe l’oggetto di questo contendere? » domandò.

Sherlock schioccò le labbra, infastidito, ma rispose comunque: « non voglio che lui lavori » sputò fuori.

Lestrade dovette riallacciare per un secondo i fili di ciò che conosceva della coppia Watson-Holmes: « come medico intendi? ».

Sherlock annuì.

« Perché? » domandò allora Lestrade, sinceramente stranito da quella sua richiesta.

Sherlock lesse esattamente ciò che pensava, perché aggrottò la fronte in un’espressione snervata. « Perché dice che vuole restare di più con Hamish, che mrs. Hudson è troppo vecchia per fare la babysitter e che Hamish è lievemente iperattivo, a volte, situazione che la nostra padrona di casa potrebbe non continuare a tenere sotto controllo per molto. E lui ha deciso di punto in bianco di smettere di risolvere casi con me e  trovarsi un posto in una clinica medica francamente scadente e mediocre, in cui lavora finché Hamish non esce da scuola per poi rimanere a casa con lui. E si rifiuta di sentire le mie logiche e supportate ragioni per cui mrs. Hudson è perfettamente in grado di gestire nostro figlio per una decina di ore e non ci capita tutti i giorni di andare “in giro per la città a correre dietro ai delinquenti” come dice lui, citato fedelmente » si lamentò il detective nel discorso più lungo – per lo meno su qualcosa di personale – che Greg gli aveva mai sentito fare. Se non pensava alla stranezza del sentire Sherlock Holmes parlare da padre, ovviamente.

Stava per dirgli qualcosa, ma il detective riprese parola prima che potesse farlo: « sono mesi che si ostina a volerne parlare, e quando gli rispondo che per me la cosa è chiara quanto inaccettabile, e che non c’è davvero bisogno di sprecare parole per niente, lui perde le staffe. E comincia... » una pausa e un lungo sospiro, prima del silenzio.

Anche Greg sospirò a sua volta. Non aveva cuore di dirgli che due mesi erano troppi, per risolvere un litigio così banale, ed era esattamente in quel modo che fra lui e Cecile era cominciato ad andare tutto male. Prima dei tradimenti. Prima della separazione. Prima del divorzio.

L’ultima cosa che voleva era vedere Sherlock perdere l’unica persona che fosse riuscita a mettergli un anello al dito e, soprattutto, a non farglielo togliere più.

L’ispettore osservò di sottecchi la fede dorata all’anulare dell’altro, prima di ribattere: « hai mai pensato che la soluzione giusta sia effettivamente quella di parlare con John? » domandò.

Sherlock roteò gli occhi con fare incredulo. « Hai sentito anche una sola parola di quello che ti ho detto? » domandò.

«» disse Lestrade.

« Allora saprai che ci ho già provato » disse a denti stretti.

« Quello che ho sentito è che hai imposto la tua opinione senza realmente considerare la sua. E lui, che è orgoglioso e testardo tanto quanto te, per ripicca cerca di farti arrabbiare » gli spiegò, guardandolo dritto negli occhi e sostenendo lo sguardo decisamente alterato dell’altro.

Poi, con un breve sospiro, si strofinò di nuovo gli occhi con la mano. « Senti, Sherlock... tuo marito è l’ideale del santo. Cioè, suvvia, ti ha sposato. Solo Dio sa cosa voglia dire averti attorno 24 ore su 24. Ti conosce. Per questo motivo non posso credere che tu sia riuscito seriamente a farlo arrabbiare fino a questi livelli » gli disse sinceramente.

« Questa mattina l’ho accusato di non tenere abbastanza a me e ad Hamish » aggiunse Sherlock.

« Sei un pezzo di merda » fu il commento a caldo di Lestrade.

Holmes alzò il sopracciglio. « Grazie Lestrade, le tue perle di saggezza illuminano il mondo di sapienza » ironizzò amaramente.

« Non sto scherzando, Sherlock » lo interruppe l’altro: « non c’è uomo al mondo, e ripeto: al mondo, che tenga di più a te e a tuo figlio di John Watson ».

« Nostro figlio » specificò Sherlock.

« Non è questo il punto! » esclamò Greg, stizzito: « ti rendi almeno conto di cosa sei riuscito a dirgli? » domandò retoricamente, le mani sulla scrivania ed il busto piegato in avanti verso l’altro.

Sherlock mantenne il suo sguardo composto per un po’, ma poi capitolò e chiuse gli occhi in un sospiro breve. Annuì in sua direzione, quasi come in un’ammissione di colpa (non c’era niente di diverso, in effetti).

Lestrade, per l’ennesima volta, si strofinò gli occhi con le mani. Calò fra loro un silenzio pesante che fu il vibracall del cellulare di Sherlock ad interrompere.

Lo vide tirarlo fuori dalla tasca interna della giacca, osservare lo schermo e poi appoggiarlo fra loro sulla scrivania. Sul display, Greg poté leggere “incoming call from: JOHN”.

« Quante volte ti ha già chiamato, oggi? » domandò allora a Sherlock.

Quello rimase silente per qualche istante. « Senza contare gli SMS? » rispose poi.

Si trattenne dal ringhiare. « Non hai mai risposto? » chiese poi.

Sherlock negò con il capo.

« Pezzo di merda » soffiò lo Yarder.

« Ti stai ripetendo » rimbeccò Sherlock.

« Così lo impari meglio » borbottò Lestrade, osservando il cellulare vibrare contro il legno.

La chiamata terminò. E, come tutte le altre di quella giornata, non ebbe risposta.

Un altro silenzio profondo prese posto fra loro, entrambi indecisi se chiudere il discorso e tornare al caso del serial killer della Metropolitana – chiamato così perché amava uccidere le sue vittime nei condotti delle linee metropolitane – oppure rimanere semplicemente in silenzio senza niente di concreto da dirsi.

A risolvere l’enigma, fu la suoneria del cellulare di Lestrade.

Lo prese dalla tasca dei pantaloni e, osservando stranito il display, non seppe bene cosa fare. « Sherlock? » chiamò.

Il detective alzò di nuovo gli occhi su di lui.

Il poliziotto gli mostrò il telefono. « Perché John sta chiamando me? ».

 

 

La teiera fischiò sul fornello e John, staccandosi dal tavolo su cui si era appoggiato nell’attesa, si affrettò a spegnere il fuoco per non svegliare Hamish. Non c’era niente di meglio di un tè alle undici e venti di sera, soprattutto se doveva sedare il tumulto di ansia, dispiacere e rabbia compresso in un grumo in fondo al suo stomaco.

Spostò la teiera dalla fiamma e aggiunse le foglie di tè. Lasciò in infusione per tre minuti, aspettando pazientemente ed in silenzio, poi appoggiò il filtro in acciaio sopra la tazza e verso il contenuto della teiera.

Il solo odore dell’infuso ebbe l’effetto di riportare la sua mente ad una situazione di tranquillità. Aggiunse mezzo cucchiaino di zucchero e qualche goccia di limone – essenziale per l’Earl Grey – e senza nemmeno aspettare che si raffreddasse un po’ ne prese un sorso.

Il paradiso. Separa gli inglesi da tè e non ci sarebbe stata più religione.

Sentì tutta la tensione di quella sera scivolargli via dai muscoli e andare a depositarsi da qualche altra parte – nelle giunture delle ginocchia, sulle costole, nelle dita dei piedi. In posti in cui lo avrebbero lasciato in pace fino al mattino successivo, o comunque fino alla prossima discussione.

Probabilmente quella riguardante il divorzio che John era ancora indeciso se chiedere o meno.

Non voleva finire in tribunale. Non voleva nemmeno qualche riconoscimento di tipo monetario. Voleva solo chiedere a Sherlock di poter vedere Hamish, ogni tanto. Per quanta pena potesse fargli diventare una di quelle coppie del tipo “il prossimo fine settimana tocca a me tenerlo” oppure “io vado a prenderlo a scuola il martedì e il giovedì”.

Scosse il capo, deciso a non rovinarsi il tè con certi pensieri. Anello, foglio (girato) e cellulare trovavano ancora spazio sul tavolo della cucina, lasciati lì nella stessa posizione di un’ora prima, e probabilmente ci sarebbero rimasti ancora per un po’.

Sospirò di nuovo, soffiando piano sulla superficie ambrata della bevanda e puntando gli occhi al soffitto, in direzione della camera del figlio. In casa regnava il silenzio, dunque Hamish doveva essere veramente andato a dormire.

Sorrise. Almeno non aveva preso tutto da suo padre.

Come faceva altre volte – e per distrarsi da tutta quella maledetta faccenda – decise di andare di sopra.

Uscì in pianerottolo con passo leggero e, salendo le scale il più silenziosamente possibile, arrivò alla porta socchiusa della sua ex-camera da letto.

Sul corrimano della scala erano appoggiati alcuni vestiti, disordinati e stropicciati, uniti ad un paio di calzini appallottolati sotto di essi. Ad occhio, nella semi oscurità, John contò due paia di pantaloni, una maglietta a mezze maniche ed una camicia e, sbuffando, scosse piano la testa. Roba da lavare. Quante volte doveva ripetere a quel ragazzino di portarla nel cesto della biancheria invece di ammucchiarla sul corrimano? Non ascoltava mai. Come il suo dannato padre.

Si appuntò mentalmente di prenderla quando sarebbe sceso. Ultima volta che lo faceva (se lo diceva sempre ma continuava a farlo comunque).

Tenendo la tazza di tè con la sinistra ed aprendo lentamente la porta con la destra, John si appoggiò con la spalla allo stipite ed osservò sorridendo il groviglio di coperte nella stanza buia. Hamish aveva da sempre l’abitudine di dormire con gli scuri aperti e le coperte fin sopra la testa, anche se John non era proprio sicuro di come riuscisse a respirare.

Sorrise dolcemente. Lui e Sherlock avevano preso l’abitudine, le prime volte in cui Hamish era in camera da solo, di salire le scale in silenzio a notte fonda e guardarlo dormire. Loro lo chiamavano “controllare che fosse tutto a posto”, ma John ci andava solo per osservare il figlio ed ogni volta si ritrovava a ringraziare mentalmente Sherlock, appoggiato allo stipite opposto al suo, di aver reso parte anche lui della vita del piccolo Hamish. Anzi, di averlo reso parte di quella vita e basta. Di avere, inavvertitamente o meno, realizzato il suo desiderio inconscio di essere padre.

Hamish non era suo ma lui non avrebbe potuto mai amarlo meno di quanto già lo amava.

E il ricordo di uno Sherlock che gli sorrideva nel silenzio – come al solito completamente consapevole di cosa stesse pensando – ora gli faceva stringere dolorosamente il cuore.

Chiuse gli occhi, scostando di nuovo gli occhi sul letto.

Ultimamente Hamish aveva la passione per la Tube. Aveva cercato su Internet – con il loro permesso, perché John era abbastanza contrario al fatto che a sette anni cominciasse già ad usare il computer tutto il giorno – la storia della sua costruzione, lo sviluppo progettuale di tutte le linee e le varie modifiche alle tratte, rimanendo talmente assorto da precipitare in un mondo tutto suo (di nuovo tutto suo padre).

Ne era talmente rapito, che Mycroft per Natale gli aveva regalato una vecchia mappa dei primi del novecento, ingiallita dal tempo e dalla polvere, con lo schema di tutta la linea (molto più contenuto di quello di oggi). Hamish l’aveva fatta incorniciare e l’aveva attaccata al muro, posizionandogli di fianco una mappa attuale.

Un’altra delle cose che John non aveva mai capito appieno. Così come Sherlock non capiva il – o meglio, non era contento del – perché Hamish fosse così fissato con le stelle. Una volta aveva persino annunciato la sua intenzione di voler studiare Astrofisica all’università e Sherlock si era quasi strozzato con il tè. John aveva riso per ore dopo che il detective lo aveva guardato sconvolto dicendogli “le stelle, John?” come se fosse una cosa grave.

Gli mancava. Gli mancava troppo per essere quantificabile. Cinque mesi prima andava tutto bene ed era bastata una decisione, un cambiamento per distruggere la bolla di felicità in cui John si era sentito protetto per più di sette anni.

Rivoleva tutto indietro ma non aveva la minima intenzione di scusarsi. Aveva smesso di chiedere perdono per cose che non aveva nemmeno fatto o si sentiva in diritto di fare. Lasciare Hamish a mrs, Hudson, per quanto la donna stesse con lui molto volentieri, era ingiusto quanto fare finta di non notare che loro figlio fosse fin troppo esuberante, a volte.

Non voleva abbandonare Sherlock ed il suo (loro) lavoro, era questo che Sherlock non capiva. Lo avrebbe comunque aiutato a casa, nei suoi ragionamenti lunghi ed intricati, lodandolo e facendo domande stupide con risposte ovvie come faceva sempre. Solo, non lo avrebbe fatto correndo per Londra.

Ma questo Sherlock non lo voleva capire. E allora lui non si sarebbe preso il disturbo di spiegarglielo.

Sentendo di nuovo un’ormai abituale fiotto di rabbia espandersi dal petto al resto del corpo, prese un profondo respiro e tentò di calmarsi. Forse sarebbe stato ingiusto svegliare Hamish... ma era uno di quei momenti in cui la vicinanza di suo figlio faceva meglio di qualsiasi altra cosa al mondo.

Anche quella del marito, in realtà, ma di lui non vi era traccia.

« Hamish? » azzardò sussurrando, facendo un passo dentro la camera.

Non arrivò risposta, né il cumulo di coperte si mosse.

John sorrise appena. Sonno pesante. Riprovò.

« Hamish? » chiamò a voce un poco più alta, ma ancora nessuna risposta.

Facendo attenzione si sedette sul materasso. Appoggiò una mano dove, secondo calcoli molto approssimativi, doveva trovarsi la spalla del figlio e lo scosse con delicatezza.

E da subito qualcosa gli sembrò completamente sbagliato. Ciò che stava toccando era troppo morbido e... da quando Hamish era così piccolo?

Aggrottando le sopracciglia scostò il lembo superiore della coperta... per trovarci sotto un’altra coperta.

Arrotolata, perfettamente formata per somigliare ad un corpo umano rannicchiato, ma era comunque una dannata coperta. Il pensiero che si formò nella sua mente non aveva nemmeno bisogno di avere un nome o una finalità.

Semplicemente, il suo cuore si fermò per poi andare in tachicardia istantanea; una mano invisibile gli strinse lo stomaco e gli congelò il respiro nei polmoni.

Era scappato. Era scappato? No, non poteva essere vero.

Con uno scatto improbabile colpì violentemente l’interruttore del lampadario di fianco alla porta, reprimendo un verso d’orrore quando, strappando la coperta via dal letto, vide quello che nel buio aveva già visto.

Era scappato.

« Hamish... » sussurrò con un filo di voce, il respiro accelerato ed il cuore in aritmia. Lo sentiva rallentare quasi fino a fermarsi per poi riprendere a battere violentemente contro la cassa toracica, saltare un battito per guadagnarne un altro poco dopo, raddoppiando quelli normali. Sapeva riconoscere un attacco di panico e nulla avrebbe potuto convincerlo che non gliene stesse arrivando uno in quel preciso istante.

« Hamish... S-Sherlock... » sussurrò di nuovo, la voce flebile; « SHERLOCK! » gridò poi, girandosi in fretta verso le scale.

Ma Sherlock al piano inferiore non c’era. Ed Hamish, in camera sua, non c’era. Era da solo e suo figlio era fuori di notte, a Londra, in mezzo a tutti i criminali che lui e Sherlock inseguivano nelle loro indagini. Un bambino di sette anni da solo di notte a Londra. Da solo. Di notte.

Persino i suoi pensieri erano aritmici, in loop sulle stesse quattro informazioni: no Sherlock, no Hamish, di notte, da solo.

E lui poteva fare solo una cosa.

Scattò all’improvviso precipitandosi giù dalle scale, lasciando cadere la tazza di tè che si infranse sui gradini. Si tolse la giacca a mezza via, liberandosi della maglia ancora prima di entrare in cucina e recuperare il cellulare. Spinse il tasto di chiamata rapida collegato al numero di Sherlock e, mentre lo sentiva squillare contro l’orecchio, corse in camera da letto.

« Andiamo, rispondi, questa è una di quelle importanti... » borbottò mentre si toglieva anche i pantaloni del pigiama e recuperava quelli usati quel giorno, infilandoseli con una mano sola. « Andiamo Sherlock, maledizione! Rispondi! » imprecò a denti stretti, aprendo la cassettiera e recuperando una camicia a caso (rossa a scozzese).

« Cazzo, Sherlock! » imprecò rabbioso quando capì che era inutile continuare a chiamare, chiudendo l’unico tentativo che avrebbe usato per avvertirlo di ciò che stava succedendo.

Quando lo avrebbe rivisto non solo gli avrebbe fatto firmare i documenti del divorzio con il sangue, ma gli avrebbe anche spaccato il naso a suon di pugni e gli avrebbe fatto sputare uno per uno tutti i denti a forza di calci in bocca. Avrebbe potuto ucciderlo, in quel momento, e non se ne sarebbe pentito nell’immediato.

Preso dal panico e dalla rabbia, digitò sul telefono l’unico altro numero che sapeva a memoria. Tenne stretto il cellulare con la spalla mentre si abbottonava la camicia e i polsini, infilandosi le scarpe senza perdere tempo ad indossare i calzini. Finalmente, la sua seconda possibilità rispose.

« Pronto? ».

« Greg, mi devi aiutare, non riesco a contattare Sherlock » cominciò, allacciandosi la scarpa.

Un attimo di silenzio si sentì dall’altra parte, ma John non aveva tempo di chiedersi cosa significasse. « Greg! » ruggì frettoloso.

« Sì, ci sono » disse semplicemente l’altro, come cadendo dalle nuvole (o semplicemente sorpreso dal tono appena usato). « John, cosa sta– ».

« Hamish è scappato » lo interruppe John, senza dare il tempo all’altro di rispondere: « ho provato a chiamare Sherlock ma quel maledetto idiota ha deciso di ignorarmi. Rintraccialo, per favore, se lo chiami tu risponderà, ovunque cazzo sia! » ringhiò furioso, terminando di allacciarsi le scarpe e fiondandosi in salotto per agguantare una torcia elettrica.

« Va bene, va bene, ma ora stai calmo! » tentò di dire Lestrade. Pessima scelta di parole.

John lo interruppe di nuovo: « ti ho appena detto che non so dove sia mio figlio e tu mi dici di stare calmo?! » sbottò inviperito.

« Sì, scusa, hai ragione. Non era questo che volevo dirti, devi ascolt– ».

« Limitati a quello che ti ho chiesto e chiama Sherlock! » lo interruppe di nuovo John, dirigendosi all’ingresso in quattro falcate per recuperare il giubbotto nero: « digli che sto andando a cercare Hamish e di non farsi rivedere se ci tiene alla pelle, perché appena mi capita sotto tiro gli apro la succlavia a mani nude. Ho ucciso per molto meno! » gridò, chiudendo il telefono e fiondandosi come un fulmine giù per le scale.

Fuori dalla porta, con il freddo mite di fine primavera a colpirgli le tempie già sudate, camminando veloce in una direzione a caso, cercò il terzo e unico numero in rubrica che sapeva sarebbe stato realmente efficace.

« Mycroft? Scusa l’ora tarda ma ho bisogno di aiuto ».

 

 

Quando John riattaccò, Lestrade doveva avere un’espressione così disagiata da lasciare senza parole persino Sherlock Holmes. John e Sherlock avevano litigato e il secondo non aveva risposto ad una telefonata del primo che aveva appena trasformato la serata da un pozzo di noia in un vero inferno. O almeno, lo sarebbe diventato una volta che Lestrade avesse detto a Sherlock l’oggetto di quella conversazione telefonica.

Ma Sherlock era Sherlock, e a Greg non servì dirglielo. Glielo lesse da qualche movimento: dalle sopracciglia aggrottate, dal colletto della camicia che si era tormentato per tutto il tempo in cui era stato al telefono o forse, semplicemente, dagli occhi spiritati che sapeva di avere in quel momento.

« Cos’è successo? » domandò il consulting detective, tirando indietro le spalle e raddrizzando inconsapevolmente la schiena.

Lestrade, ancora alla ricerca della voce e del modo con cui comunicargli la notizia senza provocare nell’altro pericolose reazioni di panico e/o rabbia – non esattamente in questo ordine – riuscì solamente a dire « Hamish ».

La mascella di Sherlock si indurì e lui scattò in piedi, strisciando la sedia sul pavimento. Greg lo vide cercare inutilmente di mantenere un contegno ormai andato per altri lidi. « Cos’ha fatto? » domandò – pretese di sapere – poi.

L’ispettore dovette deglutire, prima di parlare: « John dice che è scappato... » cominciò, ma non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che Sherlock era già fuori dalla porta del suo ufficio, cappotto sul braccio e cellulare alla mano.

Lestrade non poté far altro che seguirlo.

« Hai un’auto? » gli domandò Sherlock mentre copriva a veloci falcate il corridoio del piano, diretto alle scale (impensabile aspettare l’ascensore quando si ha fretta).

« Sì, nei parcheggi sotterranei » rispose Greg, ritrovando improvvisamente la presenza di spirito dello Yarder tutto d’un pezzo. Lo vide spingere violentemente il maniglione anti-panico delle scale d’emergenza, cominciando a scenderle con passo veloce mentre cercava un numero in rubrica e si premeva con forza il cellulare contro l’orecchio.

Mai a Lestrade era capitato di vedere Sherlock così agitato. Per quanto intrattabile fosse a livello caratteriale, in realtà anche il minore di casa Holmes aveva in sé un cuore – un’umanità molto particolare, ma pur sempre un’anima come tutti gli altri.

Lavorare con Sherlock Holmes faceva sì che si apprendesse l’importanza dei dettagli, ed era proprio attraverso i dettagli che si poteva realmente capire una persona come Sherlock. Per esempio, in quel momento l’agitazione era padrona della maggior parte della sua mente, glielo dicevano le nocche sbiancate della mano che teneva il cellulare.

« Dannazione! » sbottò il moro alla fine della scalinata, aprendo la porta che dava sul parcheggio interrato; a quel punto Greg gli passò davanti, sbloccando a distanza l’antifurto di una Wolkswagen grigia.

« John? » domandò per conferma mentre prendeva posto sul sedile del guidatore e Sherlock sbatteva di malagrazia lo sportello del passeggero.

« Il telefono è occupato! » esclamò iracondo, cominciando subito a digitare un messaggio che però cancellò. Buttò il cellulare sul portaoggetti di fronte a lui mentre Lestrade faceva rumorosamente manovra – la gomma degli pneumatici fece attrito sul pavimento e provocò acuti stridii – ed usciva dal posteggio.

« La metropolitana » esordì improvvisamente Sherlock, le mani unite con la punta delle dita appoggiate alle labbra.

« Cosa? » domandò Greg, stranito.

« La metropolitana. Hamish è alla metropolitana » specificò il detective con un groppo in gola difficilmente rintracciabile nelle note della sua voce. « Ultimamente ha la passione per la Tube. Non può essere andato da nessun’altra parte ». Lanciò un’occhiata rapidissima al proprio orologio da polso: « quindici minuti alla mezzanotte. Orario in cui le linee vengono chiuse e gli addetti alle riparazioni esplorano i binari a treni fermi. Di giorno non potrebbe farlo, ma di notte è facile per un bambino nascondersi sulle banchine e aspettare la chiusura, soprattutto se si parla di Hamish » disse velocemente, gli occhi che scorrevano febbrili dal cellulare alla strada davanti a loro.

L’ispettore non faticò a credergli. « In che punto della linea, e di quale linea? » domandò allora, cercando di avere un qualche punto di riferimento per sapere dove dirigersi.

Il silenzio pensieroso di Sherlock riempì l’abitacolo. « Mi serve Mycroft » sentenziò poi: « ma lo avrà già chiamato John. So che lo ha fatto. Mycroft è l’unico che può rintracciare Hamish o almeno sapere dove si è diretto, e John lo sa. Mycroft darà a John informazioni che poi passerà anche a me » predisse.

Tempo qualche secondo, ed il suo cellulare suonò. Questa volta rispose subito.

« Dove? » domandò a quello che non poteva essere altri che suo fratello.

« Stazione della Metropolitana di Baker Street. È salito sulla Jubilee Line in direzione Stanmore con il penultimo treno. Non so se e dov’è sceso, però. Ha evitato le telecamere » disse Mycroft direttamente, evitando convenevoli come i saluti.

« Bene » disse Sherlock: « e John? » domandò poi.

Greg notò una punta d’ansia, in quella domanda, ma preferì tenersi i suoi commenti per sé.

« Lo ha seguito » gli disse il fratello maggiore: « stava scendendo le scale della stazione per prendere l’ultimo treno quando ho perso il contatto con lui ».

Sherlock fece un meccanico cenno del capo, probabilmente un ringraziamento anche se, ovviamente, il fratello non poté vederlo. « Appena lo trovate chiamami, manderò qualcuno » aggiunse.

Tuttavia sembrò non esserci bisogno di ulteriori parole, dato che sia lui che Mycroft chiusero la comunicazione contemporaneamente.

« Jubilee line » disse poi Sherlock  a Lestrade, ormai in uscita dalla strada principale di Westminster: « St. John’s Wood. Cominceremo da lì » decretò; Greg annuì, aumentando la velocità.

« Se la caverà, vedrai » disse subito lo Yarder: « tu e John gli avete insegnato tutto. Starà bene. Lo ritroveremo sano e salvo » cercò di fargli (farsi?) coraggio.

Sherlock strinse le labbra, gli occhi fissi sulla Londra che sfilava veloce fuori dal finestrino. « Lo so » rispose, apparentemente calmo: « non è lui che mi preoccupa ».

 

 

Aspettando impazientemente il treno in arrivo, John tentò di rallentare il battito del proprio cuore impazzito e di fare il punto della situazione; di ricordarsi particolari e dettagli, frasi dette o comportamenti strani, ma Hamish aveva preso talmente tanto da suo padre da essere un mostro della recitazione, quando voleva ottenere o nascondere qualcosa alla loro attenzione. Erano tante le cose di cui si accorgeva solo Sherlock ma a cui doveva porre rimedio John. Non se ne era mai lamentato. La loro famiglia funzionava semplicemente così.

Ma ora era da solo, Sherlock chissà dove a fare chissà cosa, ed improvvisamente quei dettagli che di solito riusciva a capire solo Sherlock era costretto ad intuirli di per sé.

Fece mente locale. Mycroft gli aveva confermato che Hamish aveva preso la metropolitana, dunque doveva per forza avere a che fare con la sua recente passione. Mappe nuove, mappe vecchie. Cosa c’è di diverso, di sbagliato, di strano, che non va? Pensa John, pensa. Pensa. Ti dicono sempre che vedi ma non osservi, è arrivato il momento di richiamare alla mente ciò che osservi ma di solito non ricordi.

L’ultima volta che Hamish aveva usato il suo laptop (Gesù, quant’era uguale a suo padre...) aveva lasciata aperta la pagina di ricerca. Un sito che mostrava vecchie foto in bianco e nero di fermate della metropolitana londinese in disuso.

Le aveva segnate, si rese conto poi. Aveva disegnato a mano una cartina uguale identica a quella che Mycroft gli aveva regalato – quella dei primi dei novecento – a cui aveva aggiunto anche le più recenti linee e indicato ogni fermata. John l’aveva vista, una volta, quella cartina: un disegno impressionante ed una maestria di precisione spaziale da far impallidire chiunque, considerata l’età (ma considerando il lignaggio Holmes, ormai non si stupiva più di niente).

Con gli occhi chiusi, l’ululato di un treno ancora lontano e il canticchiare dell’unica altra persona sulla banchina insieme a lui, John cercò di richiamare alla mente quell’immagine.

Aveva diviso i colori, Hamish, cerchiando di verde le fermate attive e di rosso quelle in disuso. Aveva poi usato il blu per quelle murate e dunque inaccessibili.

Aprì gli occhi di scatto, girandosi verso il muro alle sue spalle. Una cartina dell’Underground prendeva un abbondante pezzo di parete, intrappolata dietro ad una lastra di plexiglass; linee e linee di diversi colori che si intrecciavano e sovrapponevano, come tanti fili elettrici di un immenso circuito grande come tutta la città.

Cercò di sovrapporre la mappa che aveva davanti agli occhi con quella disegnata da Hamish. Righe perfette si sovrapposero, nella sua mente, a quelle già segnate, anche se alcune zone del disegno di Hamish erano per lui impossibili da ricordare. Non aveva la stessa mente degli Holmes, quindi la sua capacità di imprimersi nella mente delle informazioni visive era limitata.

Ciò che riuscì a richiamare alla mente, però, fu sufficiente.

Ci sono cose di cui si ha paura. Quando si è adulti riguarda più che altro affetti e cose intangibili: la paura di perdere qualcuno di caro, la paura di perdere il lavoro, la paura di non riuscire a portare avanti ciò che ci si è prefissati di fare nella vita, la paura che possa succedere qualcosa di grave e che quel qualcosa possa non avere soluzione.

Ma ci sono altre paure, quelle che si possono toccare con mano, e sono per lo più cose di cui siamo venuti a conoscenza da bambini: la paura dei ragni, dei serpenti, dell’altezza, del buio, del temporale. Oggettivamente si impara che sì, non ha senso temere tutte queste cose, perché si possono affrontare facilmente. Oppure, semplicemente, perché ormai si è adulti e quelle non prendono più il nome di paure, ma vengono chiamate “fobie”; etichettate come un disturbo psicopatologico lieve  – il modo degli adulti per non mettersi in ridicolo. (Preferiscono dire di essere acluofobici piuttosto che ammettere di avere semplicemente paura del buio. Come se non fosse normale, avere paura di qualcosa che per definizione non puoi vedere).

Anche John aveva una paura, una di quelle che vengono dall’infanzia. L’aveva nascosta, sotterrata dentro di sé quando era diventato prima medico poi soldato, perché i medici e i soldati – soprattutto se sono medici e soldati – non hanno paura di niente. Come i veri uomini. Suo padre amava dirgli ciò che i veri uomini non fanno (evitando accuratamente di spiegargli cosa bisognasse fare per diventarlo, un vero uomo).

Quando era piccolo Harriet, prima di dormire, era solita spaventarlo raccontandogli delle storie sui fantasmi della metropolitana di Londra. All’epoca John aveva cinque anni e voleva tanto incontrare Peter Pan, e questo faceva di lui una mente troppo malleabile e pura per poter rendersi conto dell’effettiva presa in giro della sorella maggiore.

Gli diceva sempre che la Underground era uno dei posti più infestati della Gran Bretagna, perché per scavarla sotto terra erano stati distrutti molti cimiteri antichi e chi vi era sepolto era stato disturbato, oppure affermava che la gente morta lì sotto non trovasse la via per uscire dai tunnel e vi rimanesse intrappolata in eterno sottoforma di spirito.

Persino in quel momento, a più di quarant’anni e duecento chilometri di distanza, John poteva ricordare i brividi gelidi lungo la schiena e gli incubi che seguivano quei racconti.

Le urla di donne e bambini a Bethnal Green, sulla Central Line. Il fantasma urlante di Farringdon. Il treno dei morti nel vecchio tunnel murato che collegava il London Hospital con Whitechapel. Il fantasma dell’operaio con la lampada tilly in un tunnel di non ricordava quale linea. La donna senza volto vestita di bianco. Il fantasma dell’attore accoltellato. Il fantasma riflesso sui finestrini dei treni sulla Bakerloo Line.(2) E tutte quelle altre favole sulle vecchie stazioni abbandonate, di orme nella polvere e spifferi gelidi sul collo, di sassi spostati e sussurri nel silenzio, di eco di bombardamenti di quando quelle fermate erano state usate come rifugi durante la guerra.

A causa di quel ricordo, sovrapporre il tratto a matita di Hamish alla mappa della rete fu terribilmente più semplice. Per la prima volta, le intenzioni di suo figlio gli furono chiare come se fosse stato Sherlock a spiegargliele.

Vide nettamente alcuni dei cerchi rossi del disegno di Hamish combaciare e sovrapporsi a tratti ora vuoti delle linee colorate sulla mappa.

Stazioni in disuso. Tante, troppe. Ma solo tre erano sulla Jubilee Line, solo tre fra Baker Street e Finchley Road, solo tre possibilmente raggiungibili da un bambino fin troppo curioso e sconsiderato con una passione per vecchie fermate molto probabilmente chiuse al pubblico ed inutilizzate da decenni.

Per un istante solo, mentre il treno passava e rallentava sul binario dietro di lui e l’altoparlante annunciava l’ultima corsa e la conseguente chiusura della stazione, John pregò con tutto se stesso un Dio che aveva perso in guerra che il figlio fosse stato graziato con qualche stilla in più di buon senso rispetto al padre, e che dunque Hamish si fosse limitato a fuggire vicino a casa. Sperò che l’urgenza di tornare prima del sorgere del sole, nella speranza che il suo trucchetto non fosse stato scoperto, lo avesse spinto a rimanere vicino a casa e che dunque la fermata prescelta dal figlio fosse St. John’s Wood, quella immediatamente successiva a Baker Street.

Senza pensarci due volte si infilò sul treno, attendendo impaziente che il convoglio lo portasse più vicino a suo figlio.

 

 

Tre vittime in ventidue giorni. Due ragazze ed un ragazzo fra i 20 ed i 24 anni. Per l’esattezza 22, 20 e 24 anni.

Nessun particolare in comune l’uno con l’altro. Non si conoscevano, non frequentavano la stessa università – il ragazzo lavorava, non studiava – non avevano sport, interessi, amici o luoghi di ritrovo comuni. Abitavano in tre parti diverse della città. Nessun particolare fisico che potesse far pensare ad un fetish particolare dell’assassino. L’unica cosa di veramente uguale in ogni delitto era il modus operandi.

Per questo era stato chiamato il “Killer della Metropolitana”. Abbordava le sue vittime sulle banchine della Tube (mai sulla stessa linea o due volte nella stessa stazione, per ora), saliva sul convoglio con loro e le seguiva nella stazione di arrivo, dove attendeva la fine della fila per sorprenderle con un panno intriso di cloroformio e trascinarle giù dalla banchina, nei cunicoli. Lì le stuprava ancora addormentate, togliendo solo la parte inferiore degli abiti, tappava loro la bocca con del nastro adesivo e le uccideva con un coltello: pugnalate in numero crescente a seconda della successione delle vittime, un macabro sistema per enumerarle (una pugnalata alla prima vittima, due alla seconda e tre alla terza). Se erano fortunate, colpiva un punto vitale e morivano subito. Se non lo erano, l’assassino pugnalava a caso e le lasciava morire per dissanguamento mentre dormivano. Secondo gli ultimi rapporti del coroner, il giovane si era addirittura svegliato, prima di morire dissanguato.

Aveva tutta l’aria di essere un caso immensamente interessante, per questo lo aveva accettato. Per questo lo portava avanti. Per questo non tornava a casa.

Non era per John. Non era perché non volesse stare vicino ad Hamish. Non era per nessuna di quelle cose. John sapeva benissimo cosa volesse dire per lui lavorare su di un caso, la priorità che aveva su tutto il resto. Lo sapeva. Non stava fuggendo.

Arricciando il naso in una smorfia al proprio riflesso sul finestrino, Sherlock tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto per l’ennesima volta. E, per l’ennesima volta, le sue dita volarono inconsciamente a digitare il numero di John.

Non avrebbe risposto e lo sapeva. Il suo cellulare non prendeva. Oltre a quello, probabilmente John non avrebbe risposto e basta. Troppo arrabbiato, e amareggiato, e deluso dal suo comportamento – una volta di troppo, forse. A conti fatti, Sherlock non si ricordava nemmeno quando avessero cominciato. Quando tutto aveva cominciato ad essere più stretto, al 221B, e lui si era ritrovato con il bisogno psicofisico di passare più tempo possibile fuori da quell’appartamento (lontano da John).

Guardò di nuovo lo schermo del proprio telefono.

Cos’era andato storto?

« Se guardi quel telefono ancora per un po’ lo consumerai » lo apostrofò Lestrade, la voce bassa nel silenzio dell’abitacolo. Sherlock, sospirando, se lo rimise in tasca.

« Eviterò di dirti quanto sia illogico consumare un telefono solo con lo sguardo » gli rispose il detective.

« Ed io eviterò di perdere tempo dicendoti che è un modo di dire » ribatté sagace Lestrade.

« Lo hai appena fatto » disse subito Sherlock (sempre l’ultima parola).

L’ispettore sospirò con un sorrisetto sulle labbra. Sorrisetto che scomparve poco dopo.

« Sei preoccupato per Hamish? » domandò, il tono serio.

Sherlock si accorse della variazione nella voce, dunque evitò di sbuffare o dar segno di non apprezzare del tutto la conversazione. John gli ripeteva spesso che, a volte, la preoccupazione della gente nei nostri confronti è semplicemente un segno di affetto, dunque rispondere è cortesia.

« No » disse dunque, sincero.

Lestrade si accigliò. « No? » domandò sorpreso.

« No » ripeté Sherlock.

Un altro sguardo accigliato. « Sherlock, è tuo figlio... ha sette anni, come fai a non essere preoccupato? » chiese scandalizzato.

Holmes sospirò profondamente. « Sa cavarsela da solo. E poi John lo sta cercando » disse, come se solo quel particolare potesse contribuire a farlo stare più tranquillo.

Cosa che effettivamente faceva.

Lo Yarder scosse piano il capo, incredulo. « Io starei morendo d’ansia, se fosse mio figlio. Non potrei nemmeno pensare di saperlo di notte in giro da solo, a Londra, con un assassino seriale in libertà » gli disse.

« Potenzialmente tutti sono assassini. Non vedo perché dovrei fare di tutta l’erba un fascio. E poi il Killer delle Metropolitane è un narcisista, adora cacciare in pieno giorno circondato dalla gente. La probabilità che sia in giro stanotte è scarsa, e se consideriamo quella che sia nello stesso posto e nello stesso momento di Hamish e che scelga lui come vittima, cambiando tra l’altro il target dei suoi obiettivi, le possibilità si fanno remote » sciorinò il moro, tormentandosi inconsciamente con il pollice la fede all’anulare sinistro.

Lestrade lo ascoltò comprensivo, non abbandonando però il discorso: « allora cos’è che ti disturba? ».

« La remota ma esistente possibilità che tutto questo possa effettivamente succedere » rispose, pensieroso.

Un silenzio pensieroso li avvolse per qualche istante, probabilmente usato dall’altro per capire il filo logico dei suoi pensieri. Non ci riuscì, data la frase che seguì: « è un po’ un controsenso » disse Lestrade.

« Solo per te » gli rispose Sherlock, nemmeno parlassero del tempo.

Ma Greg non era Ispettore per niente, per quanto Sherlock potesse sminuire la sua intelligenza. Come John aveva fiuto, e ormai conosceva il sociopatico ad alta funzionalità da talmente tanti anni che, pur non essendo il diletto consorte, sapeva leggere segni che solo John era effettivamente in grado di vedere.

Segni d’ansia come, appunto, la continua tortura che quella fede d’oro stava subendo.

« Vedrai, lo troveremo » gli disse infatti.

Sherlock sospirò, socchiudendo gli occhi. « Non serve, l’ho già trovato » gli rispose.

« Cosa? » domandò sorpreso il poliziotto al suo fianco.

Holmes si girò a guardarlo: « so già dov’è. Da Natale ha la passione per la metropolitana, tanto che Mycroft gli ha regalato una vecchia mappa dei primi del ‘900. Ne ha disegnata una copia identica che ha aggiornato con i nuovi tunnel e ha cerchiato di rosso tutte le fermate chiuse o in disuso. Inoltre, avendo preso molto da John, è improbabile che si sia allontanato troppo da casa, soprattutto se è uscito senza dire niente a suo padre – che ovviamente non lo avrebbe lasciato uscire e, anzi, si sarebbe arrabbiato. Questo riduce le possibilità alle linee che passano da Baker Street, ovvero la Bakerloo, la Circle, la Hammersmith & City, la Jubilee e la Metropolitan. Mycroft mi ha confermato il fatto che è salito sul penultimo treno della Jubilee, il che non dice niente di nuovo se non per un fatto: nel 1939 tre fermate della Metropolitan fra Baker Street e Finchley Road vennero chiuse e due di loro rimpiazzate sulla Jubilee dalla fermata di St. John’s Wood. Queste tre fermate erano Lord’s, Marlborough Road e Swiss Cottage. Ora, sia Swiss Cottage che Lord’s potrebbero essere raggiungibili dalla Jubilee tramite qualche sottopassaggio o tunnel esterno, ma sono sicuro al 90% che Hamish cercherà di accedere a Lord’s » spiegò velocemente, snocciolando nozioni storiche che non era da tutti sapere – ma lui era Sherlock Holmes, no?(3)

« Come accidenti... ? » cominciò a domandare Lestrade, ma Sherlock lo interruppe.
« Conosco a memoria l’intera linea » disse: « ...e ho ascoltato Hamish mentre ne parlava » aggiunse subito dopo.

Nonostante fosse ancora agitato per la situazione e meravigliato – sì, non ci faceva mai l’abitudine – dalle abilità mnemoniche del detective, Lestrade trovò comunque il tempo per concedersi un sorrisetto.

« Sai, devo dire che all’inizio ero preoccupato, quando tu e John avete deciso di tenere Hamish » gli disse, gli occhi puntati sulla strada.

Sherlock alzò un sopracciglio, guardandolo con la coda dell’occhio. « Motivazione? » domandò, serio.

Greg fece spallucce, prima di rispondere: « ammettilo Sherlock, oggettivamente; non sei esattamente il tipo di persona che la gente comune vedrebbe adatta a fare il padre ...o il marito » gli disse, il tono però niente affatto accusatorio, come se stesse facendo una constatazione a livello confidenziale.

Per questo non se la prese. Per questo, e anche perché una frase del genere se l’era sentita ripetere molte volte.

D’istinto, posò gli occhi sulla fede. Non se la toglieva da cinque anni e nemmeno lui, in realtà, avrebbe scommesso tanto su di sé. Non in quel frangente. Non in quella nebbia indistinta che era per lui il sentimentalismo umano.

« Avrei tenuto Hamish in ogni caso » cominciò poi Sherlock, coprendo con la mano destra la sinistra: « è mio figlio, ne riconosco la responsabilità. John ha deciso da solo di rimanere al mio – nostro – fianco » fece una pausa nel ricordarsi quel giorno: John che teneva in braccio un pargolo di appena un mese avvolto in una tutina azzurra e annuiva in sua direzione, sorridendogli. Le cose di lui che aveva accettato e continuava ad accettare. Il “grazie” che gli sussurrò all’orecchio tre anni più tardi, al capezzale del lettino di Hamish, febbricitante a causa di un’influenza stagionale. La sua decisione di rendere quell’uomo legalmente parte di quella famiglia di cui era già la colonna portante senza nemmeno rendersene conto.

« È per questo che io e John abbiamo deciso di unirci civilmente. Probabilmente John è più padre di quanto lo sia io. Ha il diritto di poter prendere decisioni riguardo ad Hamish senza incontrare nessun ostacolo burocratico » aggiunse, usando tecnicismi per esprimere a parole sue quanto in realtà ci tenesse.

Se non fosse stato per John, non ci sarebbe stato niente. Se non era John, non poteva essere nessun altro. Ormai questo lo aveva capito da molto, molto tempo.

Allora per quale motivo avevano litigato, esattamente?

Era già perso nei propri pensieri quando Lestrade richiamò la sua attenzione: « sei un padre ed un marito migliore di quello che credi, Sherlock » gli disse – sincero, palesemente sincero. « Devi solo tentare di tenere la bocca chiusa, a volte, e magari ogni tanto chiedere scusa » aggiunse l’ispettore, svoltando a destra in una via laterale.

Holmes non rispose, puntando di nuovo gli occhi sulla strada. Forse non aveva tutti i torti.

 

 

John non aspettò che le porte del vagone si aprissero del tutto e che la ormai famigliare voce pre-registrata gli ricordasse di fare attenzione al vuoto.(4)

Non appena ebbe via libera si gettò come un fulmine verso l’uscita, percorrendo i corridoi e salendo i gradini due a due. Era noto che le stazioni della Metropolitana rimanevano custodite, la notte, e la sua irrinunciabile speranza era che l’addetto controllore fosse riuscito a vedere ciò che alle telecamere di sicurezza (dunque a Mycroft) era sfuggito.

Arrivò in cima alle scale con il fiatone e, girando velocemente la testa a destra e a sinistra con un principio di panico imminente, incollò gli occhi alla figura in divisa più vicina, un uomo di bell’aspetto sulla cinquantina già in procinto di proclamare la chiusura della stazione dopo l’uscita degli ultimi passeggeri. Senza nemmeno pensarci sopra, si precipitò verso di lui.

« Scusi! » urlò l’ex soldato da lontano, evitando di correre in sua direzione solo a causa della poca distanza che li separava: « scusi! » ripeté, esclamando.

Quello, adocchiandolo, fece un cenno d’assenso in sua direzione. « Mi dica » disse tranquillo, non sorprendendosi troppo del modo trafelato in cui John lo avvicinò.

« Mi chiedevo se avesse visto passare un bambino da queste parti. Circa... » fece per guardarsi l’orologio da polso ma, nella fretta di uscire, non lo aveva indossato. Ritentò una volta individuato un orologio a muro su di una parete non troppo distante: « circa quindici minuti fa. Alto più o meno così – indicò un punto una decina di centimetri sopra al proprio fianco – magro, capelli neri, occhi azzurri. Ha sette anni ma ne dimostra almeno dieci » lo descrisse sommariamente, non riuscendo a capire se ciò che minacciava di fargli esplodere il cuore fosse speranza o reverenziale terrore.

La guardia dovette pensarci un minuto, ma probabilmente la scarsa vastità della stazione e l’orario non proprio frequentato contribuirono al miracolo.

« Ah, sì, certo che l’ho visto » disse, annuendo con il suo mento prominente: « pantaloncini marroni e polo nera a maniche lunghe. L’ho incrociato sul binario all’arrivo del treno precedente. L’ho fermato perché era da solo e gli ho chiesto dove fossero i suoi genitori; mi ha detto che lui e suo padre si erano separati per sbaglio e che il genitore lo stava aspettando all’uscita della stazione » gli rispose, a quanto pare fin troppo gioviale per farsi qualche domanda a proposito di un perfetto estraneo che fa delle domande riguardo ad un bambino.

John serrò la mascella in un fiotto d’ira misto ad esasperazione. Nonostante avesse tentato in tutti i modi di evitare che Hamish imparasse l’arte della manipolazione che tanto riusciva bene al padre, a quanto pare il bambino era abbastanza bravo da scampare ai controlli di gente pagata per controllare. Anche se non doveva essere difficile, pensò, infinocchiare l’uomo che aveva davanti in quel momento.

Una volta ritrovato avrebbero fatto quattro chiacchiere. Poi avrebbe ucciso Sherlock con il cavatappi.

« Sì, sì, è lui... sa dirmi dov’è andato una volta fuori? » chiese allora John, tagliando corto il discorso.

Solo in quel momento la guardia cominciò palesemente a nutrire qualche sospetto. « Perché lo vuole sapere? » domandò.

Si trattenne dall’urlare. « Perché sono io il padre » sputò fuori, sottolineando con la voce il pronome personale.

Probabilmente qualche brandello di buon senso doveva essere presente all’interno della scatola cranica del controllore, perché Watson poté vedere dalla faccia che fece la consapevolezza di essere stato fregato da un bambino. « Lui aveva detto... » borbottò, stranito.

« È scappato. Sa dirmi dov’è andato? » ripeté velocemente John, ormai al limite della sua (quella sera esigua) pazienza.

Quello negò con il capo. « Mi dispiace ma è uscito da solo, non l’ho seguito... » mormorò, pronto a ricevere chissà quale insulto dal medico.

Cosa che John, semplicemente, non fece. Si limitò ad annuire meccanicamente, ringraziando e scattando verso l’uscita.

Solo quando fu praticamente alle porte sentì il controllore chiamarlo a gran voce: « senta, non so se le è utile, ma il bambino mi ha chiesto di una vecchia fermata della Metropolitan Line! » esclamò.

John si girò di scatto, ascoltandolo con attenzione.

Quello, vedendolo attento, continuò a voce alta: « mi ha domandato di una fermata chiamata “St. John’s Wood Road”, ci ho messo un po’ per capire che intendeva Lord’s. Mi ha chiesto anche che fine avesse fatto l’edificio per accedervi e io gli ho detto che è stato trasformato in un albergo, ora. Di tutta la stazione rimane solo un’entrata di servizio in Lodge Road » gli disse, annuendo in accompagnamento al discorso.

Fu il momento in cui John perse del tutto il controllo di se stesso. Troppo stressato, troppo in ansia per comportarsi da persona civile con quello stupido imbecille.

« E lei glielo ha detto?! » gridò, facendo risuonare la propria voce nella stazione ormai vuota.

La guardia sobbalzò, sorpresa della reazione. « Credevo fosse solo curioso... » tentò di giustificarsi.

Inutilmente. John ci vedeva rosso. « Quanti bambini incontra che le chiedono come si entra in vecchie stazioni in disuso della metropolitana?! Non ha pensato che stesse cercando di andarci?! » sbottò.

Quello sembrò totalmente perso nella realizzazione di cosa avesse potenzialmente fatto, ma prima che potesse realizzarlo del tutto John prese nuovamente parola: « mi dica come ci si arriva » ordinò, la voce dura del soldato che era un tempo e che, da qualche parte sotto le vesti dell’uomo di famiglia, ancora viveva.

L’uomo sembrò riscuotersi, pallido in volto: « all’uscita della stazione vada a destra, poi all’incrocio a sinistra su Wellington Road. Percorra tutto l’ospedale fino al Lord’s Cricket Ground. Una volta arrivato vedrà il Danubius Hotel, Lodge Road e dietro di esso e l’entrata di emergenza è sulla destra appena imboccata la via » gli disse, non facendo in tempo ad aggiungere null’altro.

John era già sparito.

 

Seguì correndo a perdifiato le istruzioni ricevute, bruciando il rosso al semaforo pedonale e rischiando di farsi investire. Sentì il cellulare suonare nella tasca dei pantaloni ma non rispose, ignorando persino la torcia attaccata alla cintura che gli batteva dolorosamente sulla gamba ad ogni falcata. Corse lungo tutta la struttura ospedaliera – non aveva la minima idea di quali dei tanti ospedali di Londra fosse ma non gliene importò più di tanto – ignorando anche il dolore sordo dei muscoli ed il pungere dei polmoni a causa dell’aria fredda della notte respirata troppo in fretta e nel modo sbagliato. Già a trecento metri dall’incrocio poté vedere l’insegna dell’hotel. Non si fermò e attraversò di nuovo la strada con il rosso, incespicando sul marciapiede ma riuscendo miracolosamente a mantenere l’equilibrio. Fece il giro della struttura in pochi secondi e, nonostante la semi oscurità di Lodge Road, riuscì a trovare l’entrata di servizio.

Aveva immaginato che fosse chiusa, magari a chiave. Magari con una catena ed un lucchetto. Magari entrambe.

Non vi era traccia di catena e lucchetto ma la porta era socchiusa e la maniglia completamente abbassata, con evidenti segni di scassinatura.
Nel riprendere fiato, ringhiò. Se quell’idiota di Sherlock Holmes aveva veramente avuto il fegato di insegnare a loro figlio come scassinare le serrature gliel’avrebbe fatta pagare amaramente (ancora).

Con un profondo respiro staccò dalla cintura la torcia, accendendola ed aprendo la porta d’acciaio davanti a lui. Rimanendo poi in piedi appena oltre essa, la torcia puntata verso il basso, esitò.

Il fascio di luce della lampadina illuminava una porzione mediocre di una scala d’acciaio immersa nel buio. Le pareti piastrellate di bianco erano piene di graffiti, oltre i corrimani della scala, ma l’aria odorava di polvere e chiuso. Era immersa nel silenzio, notò John quando l’unica cosa che sentì nelle orecchie fu il battito del proprio cuore, ed il solo pensiero di cominciare a scendere quei gradini, e quindi di spezzare la quiete con il suono metallico delle sue scarpe contro la il metallo, bastò per fargli serrare la mascella con forza.

Non gli piaceva. L’idea di scendere nelle profondità della terra, in un tunnel di pietra e cemento abbandonato forse da anni – se non da decenni –, circondato dall’oscurità e con l’ausilio di una sola torcia gli chiuse lo stomaco, mandandogli brevi e pungenti brividi lungo la schiena. Sentì la pelle d’oca sulle braccia al solo pensiero.

Non aveva paura, no. Lui era stato un soldato, aveva combattuto in guerra, aveva ucciso della gente. Non aveva esitato a farlo anche quando in guerra non c’era più stato – quando era entrato a piè pari in un altro tipo di guerra. Era un uomo, un marito ed un padre e non era più così sciocco e suggestionabile da lasciarsi spaventare dal buio (totale), dai fantasmi (che non esistono), dalla superstizione (insensata) e dalle storielle con cui Harry aveva deciso di rendere terrificanti ed insonni molte notti della sua infanzia (riuscendoci).

Ma l’inconscio contro cui doveva lottare era forte, resistente. Rispondeva con i calci quando lui tentava di incatenarlo alla ragione. La sua mente giocava scherzi strani dettati dalla suggestione.

Un movimento nell’ombra al limitare del fascio di luce. Il luccicare modesto di un paio d’occhi subito dopo la curva a destra che le scale facevano quindici gradini più in basso. Mani viscide e rachitiche che si stendevano nel buio dietro di lui, tentando di afferrargli i capelli, il giubbotto, la cintura, l’orlo dei pantaloni.

Pelle d’oca, brividi, la poco gradita sensazione di avere qualcosa di invisibile che preme dietro la nuca. L’imminente istinto di girarsi di scatto e l’inquietudine imbarazzante di non volerlo fare. Ragione contro sentimento contro dovere contro paure infantili mai superate.

Ma c’era Hamish, là sotto. Vedeva impronte di scarpe nella polvere depositata sui gradini, zone pulite sul corrimano della ringhiera. Quasi poteva immaginarselo scendere quella stessa scala con un sorriso, torcia alla mano, impaziente di esplorare i cunicoli e le vecchie piattaforme e agli anfratti e le scale d’emergenza e i tunnel. Nel buio e nel silenzio. Da solo.

Trattenne il fiato al pensiero, troppo inquieto anche solo per sbattere gli occhi. La testa ed il cuore gli dicevano “scendi, non fare il bambino” mentre l’istinto urlava “corri” indicandogli la porta alle sue spalle.

Hamish era là sotto. Suo figlio. Una delle cose più belle della sua vita. Una cosa bella che era diventata la sua stessa vita.

Non poteva lasciarlo. Non poteva e basta. Lui era suo padre, suo tutore, suo insegnante, suo mentore. Almeno finché avesse potuto e anche dopo, sempre, per tutta la vita finché avesse avuto bisogno di lui – e sperava che non smettesse mai, di avere bisogno di lui.

Annuì a se stesso. Il suo primo passo provocò un flebile sibilo metallico che risuonò sulle pareti come l’urlo di uno spettro. Cercò di ignorarlo con tutto se stesso.

Discese le scale lentamente, concentrandosi sulle tracce che la sua mente poteva elaborare in modo razionale. Impronte, più che altro. Provò ad assimilare e mettere in pratica il metodo che usava Sherlock durante i suoi casi, ma anche solo il fatto che non vedesse altro che impronte di scarpe e mani non gli permetteva di applicare quel metodo in modo completo.

Svoltò la curva con attenzione, posizionandosi nell’angolo buio del muro e puntando la torcia verso il basso. Non vide altro che gradini di ferro ed impronte – e mani nel buio, movimenti repentini, indistinte ombre striscianti percepite con la coda dell’occhio. Ancora la sensazione di essere seguito, osservato, deriso, sfiorato.

Si girò di scattò verso la scala appena discesa e, nell’improvviso timore che qualcosa spuntasse fuori dal buio che non aveva ancora esplorato, si girò di nuovo verso la fine della rampa.

Rendendosi conto che niente si era realmente mosso, prese un breve respiro fra i denti, accorgendosi solo in quel momento di avere trattenuto il fiato.

Calmati, John, si disse. Calmati o il tuo cuore non ce la farà.

Scese a passo leggero ma svelto gli ultimi gradini, appoggiando i piedi su quella che doveva essere la vecchia banchina d’attesa dei treni. Notò che non era piastrellata, dunque era solo pietra.

Facendo bene attenzione di tenersi la scala appena percorsa alle spalle – la prudenza da soldato era una radice impossibile da sradicare, soprattutto in momenti di tensione ed allerta – puntò la torcia intorno a sé a centottanta gradi.

Vide un collage di binari, muri di pietra, sassi, oscurità e pavimentazione. Flash di un muro dalle piastrelle rotte e scrostate. Fitta oscurità che inghiottiva i tunnel da una parte e dall’altra(5). Aria densa e odorante di polvere ed umidità. Aria che si attaccava ai vestiti ed alla pelle, viscosa, densa, soffocante. Figure sinuose osservarlo nell’allungarsi delle ombre, insetti grandi come arance nascondersi dove non avrebbero potuto essere visti, zampe di ragno ritirarsi nelle crepe e nelle fenditure dei vecchi mattoni gocciolanti d’umidità. Immaginò quelle zampe solleticargli il collo e si portò d’istinto la mano destra a toccarsi la nuca.

Buio. Silenzio. Solo il fascio di una torcia a separarlo dall’assenza totale di luce. Si chiese quanto fossero cariche le pile. Si chiese da quanto tempo non le cambiavano. Si domandò quel’era stato l’ultimo blackout in cui avevano avuto bisogno di usare la torcia e si ricordò Hamish urlare dal piano superiore la sua paura per il temporale, lui e Sherlock che subito lo avevano raggiunto nel tentativo di calmare il suo pianto. Hamish era piccolo. C’era la possibilità che si scaricassero le pile.

La cosa non lo confortò.

Guardandosi per bene attorno tornò a seguire l’unica cosa che poteva dargli un indizio del passaggio del figlio: le impronte nella polvere. Puntò di nuovo il fascio di luce a terra.

Erano confuse, ora che il terreno si era fatto più incerto e frastagliato. Hamish doveva essere tornato indietro per un qualche metro prima di proseguire, dato che le impronte sembravano di due serie. Allungando la portata della torcia, scoprì che una discreta parte della banchina era crollata, poco più avanti, e si poteva evitare la frana solo passando di fianco al muro, accanto ad un cartellone di plexiglass con dietro una vecchia mappa risalente a prima della guerra.

Notò impronte di mani sul vetro e, annuendo a se stesso, attraversò con attenzione. Oltre quello, percorrendo la banchina fino in fondo, le impronte scendevano lungo i cinque gradini in pietra e sparivano sui binari.

A quel punto, circondato da muri e da buio dopo essere del tutto entrato nel tunnel, si mise di nuovo in ascolto. Pregò per un passo, nonostante il pensiero di sentirlo davvero lo spaventasse a morte. Sperò di sentire qualcuno muoversi, qualche forma di vita, la consapevolezza che Hamish c’era davvero, in quel posto, nonostante le impronte viste poco prima sulla scala e sulla banchina non lasciassero molto alla fantasia.

Ma non sentì niente. Alla sua preghiera mentale rispose solo il silenzio.

Un silenzio pressante, assoluto. I rumori della superficie – auto, passanti, la vita che a Londra andava avanti tutti i giorni – sembravano non scalfire minimamente quel luogo. Era davvero in un posto abbandonato da tutto e da tutti ed un altro, lungo brivido freddo gli corse lungo la schiena a quella constatazione.

Il suo istinto era diviso a metà fra il continuare e scappare. Continuava a dirgli di abbandonare tutto. Il cuore sapeva che non poteva. La mente cominciava a vacillare sotto il peso dei ricordi e della paura che non riusciva a togliersi dalle vene.

Vedeva mostri negli angoli bui, fantasmi senza volto osservarlo senza essere visti; sentiva passi inesistenti sul tetto della galleria, rimbombare sulle grosse pietre, correre sulla banchina opposta con l’eco a vibrare nell’aria polverosa e stantia. Percepiva cose che non esistevano. Ma questo non voleva dire che gli facessero meno paura.

Non ci pensò due volte a fare un passo avanti e a mobilitarsi lungo i binari in direzione nord – un delle due, a questo punto. Se Hamish era là sotto sarebbe rimasto per cercarlo.

 

 

« Non risponde » borbottò Sherlock, seccato, riattaccando il telefono dopo avere (infine) deciso di richiamare John. « Suona ma non risponde » specificò, muovendo ritmicamente un piede contro il tappetino.

“Mi sembra lecito” avrebbe voluto rispondergli Lestrade, ma dubitava fortemente che con Hamish disperso il medico facesse il prezioso e non rispondesse volutamente alle telefonate di Sherlock. Probabilmente non poteva semplicemente rispondere.

E lo sapeva anche Sherlock. Era ovvio che lo sapesse anche lui. Fece solo finta di ignorarlo. Per lamentarsi (perché gli sembrava giusto fare almeno quello).

Lestrade si sentì in dovere di sottolineare l’ovvio, giusto per tenere occupata la mente iperattiva del sociopatico seduto al suo fianco: « probabilmente non può rispondere » gli disse.

Quello roteò gli occhi. « Lo so » ribatté piccato, sbuffando.

Fu nei cinque minuti successivi che Lestrade arrivò finalmente alla fermata indicata da Sherlock, parcheggiando sul ciglio esattamente davanti all’entrata mentre Holmes scendeva e percorreva in poche falcate la distanza che lo separava dall’auto alla saracinesca che sbarrava l’entrata. Batté qualche volta con i pugni sul metallo, sperando di attirare l’attenzione di qualcuno.

Lui non era preoccupato. Il fatto che Hamish fosse scappato non era una cosa grave, anche lui lo aveva fatto da piccolo (salvo che non si era fatto scoprire, ma aveva genitori meno attenti di come poteva esserlo John, doveva ammetterlo). Non era affatto arrabbiato con il piccolo. Forse John lo sarebbe stato. Forse avrebbe urlato. Non ne poteva più di sentirlo urlare, ma avrebbe urlato, lo sapeva. Ma poi gli sarebbe passata. Era una di quelle situazioni in cui “Hamish si merita una punizione, Sherlock, non mi interessa se pensi che sia una cosa normale alla sua età, so anche io che lo è ma non deve farlo, è così che si crescono i figli”.

Non lo aveva mai detto con vera cattiveria, John. Era solo che a Sherlock non veniva molto bene di fare il padre.

Smise di battere sulle inferiate solo quando Lestrade si avvicinò a lui e gli mise una mano sulla spalla, facendolo desistere silenziosamente. Stavano per rientrare in macchina e provare all’ufficio centrale quando, da dietro le sbarre di ferro, la porta automatica si aprì e ne spuntò fuori un cinquant’enne paffuto dai capelli brizzolati. « Vi ho visti dalle telecamere di sicurezza » disse, indicando con il mento una telecamera piazzata nell’angolo del cornicione: « si può sapere cosa volete? Siete ubriachi per caso? » disse l’uomo, chiuso in una divisa da controllore, con una smorfia da duro.

Sherlock aprì la bocca per sfoggiare il meglio del suo linguaggio inappropriato, ma Lestrade lo anticipò appena in tempo: « Detective Inspector Lestrade, Scotland Yard » si presentò, mostrando il tesserino ed il distintivo: « lui è il signor Sherlock Holmes, un detective privato. Possiamo farle qualche domanda? » chiese, il tono fermo e monocorde del poliziotto.

Sherlock soffiò fra i denti un “Consulting Detective” al suo fianco, ma venne ignorato.

Non appena Lestrade ebbe mostrato grado e qualifica, la guardia abbandonò la sua maschera da duro e si affrettò a recuperare un mazzo di chiavi dal cinturone, aprendo la saracinesca per poterli osservare direttamente. Sherlock non aspettò che si presentasse, portando le mani dietro la schiena e parlando velocemente.

« Con il penultimo treno diretto verso Stanmore dovrebbe essere passato un bambino per questa stazione. Sette anni ma ne dimostra dieci, alto circa un metro e trentacinque, capelli neri, occhi azzurri, magro, carnagione chiara, straordinariamente intelligente » lo disse con una punta d’orgoglio che non poté fare a meno di nascondere « lo ha per caso visto? » domandò poi, assottigliando gli occhi e rendendo lo sguardo con cui stava oltrepassando il custode più tagliente del solito.

Quello, dopo averlo ascoltato, aggrottò le sopracciglia in un’espressione dubbiosa e si umettò le labbra. « Perché lo vuole sapere? »  domandò a Sherlock, che non seppe trattenere uno sbuffo peripatetico.

« Sono il padre » si degnò di rispondergli, senza aggiungere un “non le pare ovvio?” che avrebbe sicuramente indisposto Lestrade.

Videro entrambi il momento esatto in cui l’uomo raddrizzò le spalle, sospettoso. « Mi dispiace, signor Holmes, ma il vero padre del bambino mi ha chiesto la stessa cosa meno di mezz’ora fa. Non credo di poter rispondere alla sua richiesta » disse.

Sherlock serrò la mascella mentre Lestrade si massaggiò gli occhi con una mano. « Ha due padri » sibilò il detective, senza riuscire a trattenersi oltre: « cosa che avrebbe almeno dovuto prendere in considerazione prima di dare per scontato il fatto che io non lo fossi solo perché sono arrivato cronologicamente dopo. Soprattutto perché se veramente ha visto il bambino, ma considerando il suo alquanto scarso livello intellettivo stento a credere che se lo sia effettivamente ricordato, si renderà perfettamente conto che somiglio più io al piccolo rispetto alla persona che precedentemente le ha chiesto informazioni presentandosi come il padre, nonostante anch’essa sia di indubbio bell’aspetto. Questo avrebbe dovuto fargli nascere almeno un sospetto, non trova? E no, non faccia sforzi: sì, io sono il padre biologico, mio marito è quello acquisito. Ora, devo procurarmi i certificati di nascita e di unione civile per avere una risposta possibilmente sensata o possiamo procedere e smettere di perdere tempo? » domandò, parlando in fretta e attaccando le lettere una all’altra.

Il custode, borbottando qualche scusa non si sa bene rivolta a chi, spiegò ai due ciò che gli aveva chiesto Hamish. Stava anche per dare loro alcune indicazioni ma Sherlock alzò la mano, interrompendolo. « So dov’è » tagliò corto, incamminandosi a passo svelto in direzione dell’incrocio.

Lestrade, scusandosi di malavoglia, lo seguì.

 

 

Obiettivamente non si ricordava se stava camminando dentro quel tunnel da un paio di minuti o da mezz’ora. Non sapeva se aveva fatto duecento metri o due chilometri. Ad un certo punto aveva optato per tenere sempre la torcia fissa in avanti, illuminando solo i binari e qualche metro di galleria dritto per dritto, perché spostare sempre la luce da destra a sinistra aveva cominciato a fargli sospettare persino della propria ombra.

Aveva creduto fin troppe volte di vedere occhi in quell’attimo in cui, spostando la torcia, uno spazio (in realtà uguale a tutto il resto tranne che per la sua suggestione) si illuminava per due decimi di secondo. Le ombre allungate di pezzi di alluminio abbandonato sembravano artigli sulle pareti, una radice pendente da una crepa aveva assunto le sembianze di tentacoli pronti a soffocarlo, il suo stesso respiro sembrava un lamento e sentiva freddo, poi caldo, poi brividi, poi il sudore scenderli lungo le tempie, sulla gola e giù fino in mezzo alle scapole.

Momenti di paura che cercava disperatamente di fermare usando la tempra del soldato. Ma la paura che occasionalmente aveva provato in guerra, al buio mai totale delle tende da campo con il rimbombo delle esplosioni non poi così lontane, era diversa dall’inquietudine gelida che provava in quel momento, dalla sensazione costante di qualcuno che lo seguiva, dal terrore che lo assaliva al pensiero che se fosse morto lì sotto, per un motivo o per l’altro, nessuno lo sarebbe mai venuto a cercare. Nessuno lo avrebbe mai trovato. O almeno, non prima di diventare un ammasso di ossa sporche con qualche brandello di carne ancora penzolante. Mangiato dai topi e dagli scarafaggi (e solo Dio sa da cos’altro).

Ma il suo rimpianto più grande, ed il suo terrore più radicato, era che quella fine potesse farla Hamish. Era trovare suo figlio... boh, steso a terra per aver sbattuto la testa sui binari inciampando nel buio. Morto di paura perché la torcia si era scaricata e non sapeva più ritornare indietro. In un posto dove non si può aspettare il mattino perché diventi tutto più luminoso, perché nelle profondità della terra la luce del sole non arriva e dunque il mattino nemmeno esiste. Oscurità senza fine, questo era.

John rabbrividì, costringendosi a camminare perché fermarsi lo avrebbe spaventato ancora di più.

Fermo sei un bersaglio, fermo sei una preda facile. Fermo è immobilità, è debolezza: la senti arrivare ma il tempo di reazione è troppo breve, un secondo per pensare a muoversi e un altro secondo per farlo davvero e da qualche parte lì in mezzo la cosa arriva e ti prende e ti trascina nel buio e ti sbrana con gusto. La “cosa” è il buio. Di te lascia solo le ossa se sei fortunato abbastanza.

Avrebbe chiuso gli occhi per togliersi quel pensiero dalla testa con più facilità se non avesse avuto timore persino a sbattere le palpebre (che succedesse qualcosa durante quel decimo di secondo non gli era dato saperlo, dopotutto).

Pensò ad urlare il nome di Hamish. A chiamarlo in qualche modo. Ma la sua irrazionale paura del nulla formulò in fretta scenari un cui la sua voce risvegliava fantasmi dormienti che non volevano essere disturbati. E già vide forme traslucide senza volto volare contro di lui con le mani tese e l’intenzione si rubargli il cuore, o l’anima, o gli occhi, o i sentimenti, o i ricordi, o la vita. Hamish. Sherlock. NO.

Dacci un taglio John Watson, dacci un maledetto taglio. Ti stai suggestionando da solo. È solo una fottuta galleria.

Continuava a ripeterselo ma la “fottuta galleria” non lo spaventava di meno.

Continuò con il suo passo – ed il respiro centellinato, e i movimenti minimi ed il più leggeri possibile – finché non udì distintamente un suono in lontananza, ampliato dall’alta volta del tunnel.

Trattenne rumorosamente il respiro, mettendosi una mano davanti alla bocca per impedirsi di fare rumore espirando ed inspirando aria, impedendosi al contempo di entrare in iperventilazione. La seconda cosa che fece fu quella di far aderire la parte luminosa della torcia alla gamba in modo da rimanere completamente nascosto nel buio e rendersi invisibile. Combattuto fra mettersi di schiena al muro o semplicemente restare lì, evitò la prima cosa quando la consapevolezza di essere rimasto in piedi nell’oscurità senza protezione gli inchiodò le gambe al suolo e gli impedì di qualsiasi intenzione di movimento.

Il tunnel, ora, era immerso nel più completo silenzio e nella più completa oscurità.

Avrebbe potuto attaccarlo qualsiasi cosa.

Del rumore che aveva sentito non vi era più traccia.

Prenderlo alle spalle e portarselo via senza problemi.

Non una goccia d’acqua, non uno spiffero di vento, non un sasso, uno squittio.

Arrivargli davanti e respirargli addosso senza che John potesse anche solo accorgersene.

Una speranza, una voce, la luce di un’altra torcia. Un’altra presenza vera, tangibile. Hamish.
Scivolargli dal basso sulle caviglie, dentro i pantaloni come tentacoli umidi e freddi, arrivare fino all’arteria femorale ed entrargli nella carne, arrampicarsi nei vasi sanguigni per arrivare al cuore e stritolarglielo dall’interno.

Era fottuto.

Sentì di nuovo quel rumore.

All’inizio non ne fu sicuro; il battito impazzito del proprio cuore gli rimbombava nelle orecchie a causa del silenzio – tanto che pensava che il suo battere furioso sulla cassa toracica potesse sentirsi anche da fuori – ma quando accadde per la terza volta, e nell’agitazione riuscì a riconoscere rumore di sassi che venivano calpestati, assottigliò gli occhi per scrutare nel buio.

Non seppe bene dire quanto distante, ma la flebile luce di una piccola torcia a led illuminava i contorni di un corpo piccolo e longilineo. Figura che non avrebbe mancato mai di riconoscere.

Liberò la propria fonte di luce da ciò che la bloccava, puntandola verso la figura: era abbastanza vicino da essere illuminato e quando la torcia gli rivelò essere Hamish, la vita che stava perdendo passo dopo passo in quell’incubo di brutti sogni infantili gli ritornò in corpo in un fiotto caldo.

In quel momento, non poté fare a meno di chiamarlo. « Hamish! » esclamò, il tono non troppo duro né sollevato, almeno per lui.

Forse per il piccolo non fu lo stesso. Quel richiamo doveva essere sembrato arrabbiato perché, girandosi di scatto in sua direzione, l’unica cosa che riuscì a fare fu di mettersi a correre dalla parte opposta, scappando da John al massimo della velocità consentitagli dalle sue gambe corte e dal terreno tutt’altro che favorevole.

La reazione di John fu di puro istinto. Semplicemente, si mise a correre a sua volta.

Dovette spingere di nuovo i suoi muscoli a compiere un sacrificio, soprattutto quelli della gamba “lesa” che per effetto puramente psicosomatico ora sentiva pesante e dolorante, nonostante si stesse convincendo con insistenza che non era vero. Mise il piede in fallo rischiando di cadere, o peggio, di slogarsi una caviglia circa un paio di volte ma alla fine, sudato e seguendo i pochi frammenti di immagini che la sua torcia ballerina gli forniva durante la corsa, riuscì ad afferrare Hamish per un polso e strattonarlo in sua direzione per fermarlo.

Il bambino, palesemente colto sul fatto e con il timore che l’avesse combinata troppo grossa per scamparla, ebbe la reazione istintiva di mettersi in posizione di difesa, con le braccia incrociate davanti al volto e il viso girato verso il basso, gli occhi serrati, aspettando di essere colpito.

John non seppe quantificare quanto quella reazione di Hamish gli fece male.

Ansimò pesantemente, osservandolo in silenzio per qualche istante prima di prendere parola: « Hamish Watson-Holmes, non ho alzato le mani su di te per sette anni e non ho intenzione di cominciare ora » gli disse.

Il piccolo, abbassando lentamente le braccia, lo guardò. « Non sei arrabbiato? » sussurrò, la voce tremante, le lacrime agli angoli degli occhi.

« Sì che sono arrabbiato » gli rispose John, lasciandogli andare il gomito e chinandosi sulle ginocchia: « certo che sono arrabbiato. E appena arriveremo a casa ti prenderai una bella sgridata. Ma ora come ora sono sollevato, perché mi hai messo addosso una paura tremenda... » ridusse la sua frase a qualcosa di molto simile ad un rantolo, perché la sua gola si rifiutò di collaborare oltre e si chiuse. « Non lo fare mai più, Hamish. Mai più... » sussurrò, tirando a sé il figlio in una stretta che sapeva più d’urgenza che di sollievo.

Hamish però rimase rigido nel suo abbraccio. In silenzio, aspettò che John se ne accorgesse e lo guardasse negli occhi, la luce della torcia in mezzo a loro per illuminare i loro visi. « Cosa c’è? » domandò l’uomo, aggrottando le sopracciglia.

Il bambino sembrò indeciso ma non scostò mai gli occhi dai suoi. John rivedeva tanto, troppo di Sherlock negli atteggiamenti di suo figlio – loro figlio – ed era la prova costante che se anche Holmes non era mai stato davvero un padre modello, aveva comunque lasciato traccia di sé in Hamish.

« Tu e papà state pensando di lasciarvi? » domandò infine il bambino.

John sussultò. Gli si strinse il cuore. Fece quello che un padre fa per proteggere il figlio dalle sue stesse indecisioni: mentire.

« No... no, Hamish » gli rispose, scuotendo la testa: « io e tuo padre stiamo passando un periodo difficile ma non abbiamo mai pensato di– ».

Venne interrotto: « c’è un foglio sul tavolo della cucina con scritto “richiesta di divorzio consensuale” » lo interruppe Hamish: « l’ho visto mentre facevi la doccia... papà, so cos’è un divorzio, lo dicono in TV » gli disse, la voce rotta da un pianto imminente a cui stava resistendo stoicamente.

Doveva fare qualcosa. Anche se quel “qualcosa” significava ammettere di avergli mentito.

Sospirò, posando le mani sulle sue spalle. « Hamish... tuo padre non ne sa niente. Ci ho pensato solo io. Ero arrabbiato e... » si bloccò; i meccanismi di coppia erano cose che un bambino di sette anni non poteva ancora capire, lo sapeva bene (anche lui a sette anni non aveva capito(6)): « ...non ho intenzione di lasciare tuo padre, va bene? È solo che mi ha fatto tanto arrabbiare questa mattina e io non ci ho pensato come avrei dovuto. Ti ricordi cosa ho detto che bisogna fare prima di fare qualsiasi cosa, vero? » domandò, sorridendo.

« Pensarci due volte » rispose prontamente Hamish, John annuì.

« E tu ci hai pensato prima di scappare di casa? » rincarò la dose il medico, osservandolo in tralice.

« Ma papà, hai visto questo posto? » cominciò il bambino, completamente dimentico del rimprovero e delle parole di poco prima: « è fenomenale! Lo sapevi che la Tube ha più di quaranta fermate in disuso, compresi addirittura alcuni tunnel e passaggi murati? La vecchia fermata di City Road dev’essere di sicuro la più bella, è stata chiusa nel 1922 e non l’hanno utilizzata nemmeno come rifugio anti bomba durante la guerra! » esclamò, allegro, guardandosi intorno con occhi sognanti.

Così maledettamente uguale a suo padre che John aveva voglia di mettersi a piangere – probabilmente dalla disperazione. « Sì, sì, ho visto, ma la Transport for London non si merita una serratura scassinata » disse.

« Non l’ho aperta io! » si difese il figlio: « era già così quando sono arrivato! ».

John lo guardò con la tipica espressione da HamishWatsonHolmes-non-dire-bugie-solo-per-salvarti-all’ultimo-minuto.

« È la verità! » continuò il piccolo.

John annuì distrattamente, rimettendosi in piedi: « ve bene, ma adesso andiamo a casa; anche tuo padre e Greg ti stanno cercando e saranno preoccupati » gli disse, spolverandosi i pantaloni con la mano libera dalla torcia.

« Anche zio Greg? » domandò Hamish, John annuì senza specificare perché fosse stato costretto a telefonare a Lestrade. Prese per mano Hamish e puntò la torcia in avanti con tutta l’intenzione di tornare da dove era venuto.

Non fece in tempo.

Fu in quel momento che il fascio di luce illuminò qualcosa.

Qualcosa che sembrava troppo reale, troppo vera per essere solo frutto della sua immaginazione.

Il cuore gli balzò in gola con un battito violento mentre riconosceva la sagoma di un cadavere riverso a faccia in giù, le mani bianche ed i capelli castani imbrattati di sangue.

Trattenne a stento un’imprecazione mentre stringeva a sé Hamish, sperando che non avesse visto. Ma sentiva il corpo del figlio tremare contro la sua gamba e seppe che la sua speranza era vana.

« P-Papà... » pigolò il bambino, occhi spalancati fissi nel buio nonostante John avesse spostato il fascio di luce dal corpo – e stesse tentando con tutto se stesso di fermare i battiti impazziti del cuore che gli sfondavano il petto e gli facevano tremare le mani. Portò la mano destra fra i capelli di Hamish, intrecciando le dita con quei fili neri e tenendo suo figlio stretto a sé nel più rassicurante abbraccio che poteva dargli in quel momento.

« Shhht, tranquillo Hamish, tranquillo. Non è niente... non è... » ma la sua voce tremava e dovette fermarsi, e deglutire, e convincersi che continuare a dirsi “lo sapevo che sarebbe successo” non sarebbe servito a niente.

Avrebbe dovuto avvicinarsi al corpo, probabilmente. Assicurarsi che fosse davvero un corpo e che non fosse un essere umano in lotta fra la vita e la morte. Ma aveva Hamish con sé, accanto a sé, e non aveva assolutamente intenzione né di lasciarlo da solo nel buio né di farlo avvicinare ad un cadavere. Era il figlio dell’unico consulting detective al mondo ma questo non voleva dire che dovesse seguire le orme del padre così presto.

Rimase nell’indecisione per un tempo fin troppo breve e nessuna delle opzioni che la propria mente aveva dipinto fu la risposta.

Ancora fermamente ancorato alla sua gamba, la piccola torcia a led persa chissà dove fra i sassi attorno ai binari, Hamish sussultò e gli tirò la camicia indicando un punto poco più avanti, la voce fievole e spezzata. John alzò lo sguardo lentamente.

L’ultimo spicchio di luce della sua torcia, al limitare massimo della sua portata (che doveva essere dieci o dodici metri più avanti) illuminava fievolmente un paio di scarpe da ginnastica e la sagoma di quello che doveva essere un ragazzo – ma non si vedeva chiaramente. Se ne stava fermo immobile, probabilmente ad osservarli, e se si concentrava bene John poteva sentire il rumore del suo respiro tranquillo e pacato.

A Watson non servì avvicinarsi, per capire che le suole delle scarpe erano sporche di polvere e sangue. Non dovette alzare la luce verso l’alto per vedere le mani e la maglietta schizzate di sangue. Poteva sentirne la puzza.

In guerra, e poi con Sherlock, di assassini ne aveva visti tanti. Aveva sufficiente esperienza per capire che in una stanza in cui ci sono tre persone ed un cadavere, solitamente l’assassino è quello più calmo ed i testimoni sono sempre scomodi.

All’improvviso, tutta la paura che aveva provato qualche minuto prima tornò a pesargli addosso sottoforma di tensione. La persona dall’altro capo della luce non si muoveva, ma ne aveva intenzione, John ne era ormai certo. Per questo motivo non tentò nemmeno di parlargli, di provare a se stesso di sbagliarsi, perché al diavolo, se sbaglio e lui è innocente non andrà peggio.

Il brutto, era che il suo istinto raramente sbagliava.

Hamish strinse con più forza le mani sulla sua camicia e lo sentì ansimare e respirare velocemente. Attacco di panico. Non ci era abituato – Cristo Santo, aveva sette anni, non doveva esserci abituato! – ma l’unica cosa che John riuscì a fare in quel momento fu di stringerlo a sé ancora di più.

Voleva dire ad Hamish di prendergli la mano e tenersi pronto a correre, perché sarebbero fuggiti. Si era appena reso conto con orrore che non aveva con sé la famigliare scomodità della pistola fra la cintola e la schiena – da quando c’era Hamish sia John che Sherlock avevano limitato il loro uso delle armi ai casi di estrema necessità – e dunque non aveva niente con cui difendersi dalla distanza in caso di un attacco. Avrebbe anche voluto dirgli di essere coraggioso ma regnava un silenzio talmente profondo, talmente pressante, e vuoto, e totale, che solo il pensiero di parlare faceva rumore già di per sé.

Pregò, in uno di quei secondi di immobile terrore, di sentire i confortanti passi di Sherlock in lontananza nella galleria. Nello stesso istante, rendendosi conto che non erano in uno di quei film d’avventura e nessuno, tantomeno Sherlock, sarebbe venuto a salvarli all’ultimo momento, mentalmente gli chiese scusa.

Gli chiese scusa per il litigio, per come si era comportato, per tutto. Gli chiese scusa perché con lui c’era Hamish, in quel momento, ed era spaventato, e non sapeva se sarebbe riuscito a proteggerlo, o a farlo fuggire. Gli chiese scusa perché si sentiva un padre immeritevole di tanta fortuna. Gli promise che avrebbe fatto del suo meglio per far tornare Hamish da lui (almeno lui).

Non ebbe effettivamente bisogno di vedere il coltello riverberare di luce sinistra, nella mano del giovane davanti a loro.

« Al mio tre, girati e corri. Non lasciare mai la mia mano » sussurrò, talmente piano che nemmeno lui sentì le proprie parole, ma Hamish annuì contro il suo braccio, stringendo la presa sulla mano di John, che fece lo stesso su quella del figlio.

« Uno ».

La mano dell’uomo silenzioso si mosse, a disagio.

« Due ».

John posizionò il pollice sull’interruttore della torcia mentre leggeva nella tensione dei muscoli dell’assassino la sua imminente decisione di scattare in corsa.

« Tre » disse.

Spense la torcia.

 

 

C’erano talmente poche probabilità che John ed Hamish incontrassero il killer della Metropolitana da non costituire nemmeno una possibilità reale.

La Underground contava 382 stazioni servite dai treni e 19 completamente abbandonate, il che portava il numero di stazioni possibili a 401. Sapevano che non colpiva mai nello stesso punto e aveva già ucciso tre persone, dunque il numero scendeva a 399. Una, la possibilità positiva di trovare il killer. Formula classica del calcolo della probabilità di Laplace: La probabilità di un evento A è data dal rapporto fra il numero dei casi favorevoli ad A ed il numero dei casi possibili. John aveva una possibilità su 399 di incontrare il serial killer con una probabilità dello 0,0025%.

Troppo bassa. Persino per John, che aveva abbracciato le altrettanto basse possibilità di sopravvivere in mezzo al deserto con un buco nella spalla e l’arteria succlavia colpita, il tutto in quei dieci minuti in cui la perdita massiccia di sangue non lo aveva ucciso.

Eppure Sherlock non era tranquillo.

Non aveva mai creduto all’istinto, né ai presentimenti. Troppo imperfetti, troppo astratti, solo colpi di fortuna, solo coincidenze.

Ma continuava a non essere tranquillo. Era questo ciò che lo stava facendo correre lungo Wellington Road, ampliando la falcata così tanto che nemmeno Lestrade riusciva a stargli dietro. Questo lo portava a seguire velocemente l’unica pista che aveva, sperando che fosse quella giusta e che avrebbe potuto rivedere sia John che Hamish prima di perdere il controllo sulla propria mente e cominciare a prepararsi al peggio. Lo faceva sempre (era uno dei suoi sistemi di protezione automatici).

Arrivò all’incrocio con St. John’s Wood Road, guardando fisso l’hotel dall’altra parte della strada. Greg lo raggiunse ansante, appoggiandosi alle ginocchia con le mani per poter recuperare il fiato.

Sherlock sembrava non avere nemmeno faticato per arrivare lì, nonostante avesse corso un’intera via in poco meno di qualche minuto. Osservava frenetico ogni angolo dell’incrocio e dell’edificio, del traffico, del semaforo, delle aiuole, dei cancelli, dei muretti e delle vie traverse per capire da qualche parte fosse andato John, o Hamish; cercando qualunque cosa potesse dargli un indizio, un segno del loro passaggio (una speranza concreta).

Come capitava spesso quando era in ansia per qualcosa, la sua mente cominciò ad andare in overdose mentre la sua capacità di calcolo scendeva a livelli insufficienti per filtrare l’eccessivo carico d’informazioni.

Chiuse gli occhi, fermo in mezzo al marciapiede, respirando piano. Era quasi l’una di notte.

« Possiamo chiedere alla reception dell’hotel » disse poi Greg – non capì la situazione in cui versava, raramente Sherlock stesso concedeva agli altri di farlo. Fu comunque una buona idea.

Non annuì, né parlò, ma scattò non appena il semaforo pedonale divenne verde e si diresse verso l’entrata ormai chiuse dell’hotel.

Holmes rimase indietro di qualche passo mentre Lestrade bussava sul vetro, facendosi aprire da una ragazza seduta dietro alla reception. Coprirono la distanza dall’entrata al bancone della hall in pochi passi.

« Detective Inspector Lestrade, Scotland Yard » si presentò ancora Greg, mostrando tesserino e distintivo.

Sherlock rimase in ascolto per tutto il tempo, pensando a tutto e niente, sperando senza ammetterlo.

 

 

Correvano alla cieca lungo il tunnel buio, cercando di adeguarsi entrambi alla velocità dell’altro, ma non era facile.

John aveva le gambe lunghe e la resistenza di un adulto, Hamish le gambe corte ed il fiato corto di un bambino. Il medico tentava disperatamente di correre lungo una linea retta, usando i binari come riferimento per non sbandare, ma poteva affidarsi solamente all’udito e a ciò che sentiva sotto i suoi piedi e senza vista era difficilissimo non uscire dalla traiettoria ideale che li avrebbe tenuti in salvo da improvvisi scontri con pareti o chissà cos’altro. Capitava spesso che mettesse un piede in fallo su di un’asse di legno spostata o spezzata, che montasse sopra la rotaia di ferro e scivolasse, che perdesse l’equilibrio a causa di un sasso o dell’orientamento praticamente assente che aveva nel buio profondo. L’unica cosa che non lasciava era la mano di Hamish, che stringeva convulsamente senza nemmeno pensare di fargli del male, e tramite quella stretta lo sorreggeva tutte le volte che perdeva l’equilibrio e lo rialzava di peso quando cadeva. Lo incitava a correre con esclamazioni veloci in mezzo ai rumori dei loro passi sulla ghiaia e sul legno, perché sentiva altri rumori, altri passi dietro di loro che gli dicevano fin troppo bene di essere seguiti. Flash veloci e scomposti di luce arrivavano da dietro di loro, illuminando le loro schiene ed il cammino che stavano facendo solamente a tratti, non facendo altro che confondere John sempre di più Le loro ombre erano prima lunghe, poi corte, poi spezzate, poi sottili ed ogni volta spaventose. Il cuore gli batteva in petto violento e velocissimo, aritmico, facendogli mancare il respiro che già difficilmente aveva ritrovato poco prima. Sentiva Hamish al suo fianco piangere ed ansimare, stanco e provato dalla corsa, ma sapeva che se si fossero fermati, sarebbe stata la fine.

« Resisti! » urlò al bambino, tirando la sua piccola mano: « resisti Hamish! » ripeté, aumentando di poco la corsa nonostante cominciasse a sentire la milza pungere ed i polmoni bruciare a causa dell’aria umida e della polvere che aveva sicuramente inalato dopo tutto il tempo passato là sotto. Ancora non c’era possibilità di capire quanta strada avessero fatto e da quanto tempo stessero correndo, ma non aveva comunque intenzione di scoprirlo. Sarebbe arrivato più avanti possibile e se Hamish fosse crollato, se si fosse stancato e le sue piccole gambe non avessero più sopportato il ritmo frenetico della corsa, lo avrebbe preso in braccio e avrebbe fatto più del suo possibile.

Finché non si rivelarono tutti pensieri inutili. Finché non inciampò definitivamente, cadendo in avanti e battendo la spalla sul binario, scorticandosi i palmi delle mani con i sassi e portando Hamish giù con se. Fece di tutto per proteggerlo dalla caduta con il proprio corpo, ma lo sentì atterrare sulla ghiaia a sua volta.

Rimase a terra per un secondo, uno soltanto. Un attimo in cui recuperò il fiato con una boccata d’aria profonda che portò nella sua gola più pulviscolo che altro. Sentì di nuovo i passi, la corsa dietro di loro, l’uomo armato avvicinarsi in fretta, e l’unica cosa che poté fare, che pensò di fare, fu di coprire il corpo del figlio con il proprio, intrappolandolo sotto di sé.

Hamish urlò. L’uomo gli fu addosso. Vide la luce sparire, caduta da qualche parte, il buio ritornare impietoso. Il freddo della lama di striscio contro la testa. Bruciore sulla tempia, liquido caldo (sangue). La mano sinistra dell’uomo sulla propria schiena, appoggiata aperta sulle scapole, che lo teneva fermo sopra ad Hamish. John si reggeva con le mani per non schiacciare completamente il figlio sotto di sé. Attorno a lui c’era solo silenzio perché le orecchie si erano rifiutate di ascoltare oltre il momento in cui avrebbe fallito sia come padre che come uomo.

Il momento in cui la vita avrebbe concluso quello che aveva cominciato in Afghanistan.

Il momento in cui sarebbe stato ucciso.

Forse fu il suo istinto di sopravvivenza, o l’istinto del soldato assopito dentro di sé. Si ancorò a terra con il braccio destro, usando il dominante sinistro per sferzare due forti gomitate all’indietro che andarono a segno. A livello dello stomaco le prime, al volto le successive due. Quando lo sentì lasciare la presa sulla propria schiena si voltò di scatto, usando la forza della torsione per sferrargli un pugno alla cieca a braccio inerme, che lo colpì miracolosamente alla testa e lo fece cadere a terra.

Subito si sollevò in piedi, afferrando Hamish per la camicia e facendo rialzare anche lui.

E la vide. In lontananza, una linea blu che spezzava l’oscurità in modo del tutto naturale e anche del tutto insperato. Quasi inaspettato. Ci mise qualche secondo per capire che era l’uscita, che la galleria non correva completamente nel sottosuolo. Che era uno scorcio di Londra, quello che si vedeva là in fondo.

« Corri Hamish » sussurrò, riscoprendosi più affaticato e dolorante di quello che sperava di essere: « corri e cerca aiuto, salvati. CORRI! » gridò, spingendo il figlio verso la notte esterna al tunnel.

« No, papà! » gridò il figlio, terrorizzato al solo pensiero di lasciarlo. Troppo piccolo per avere il sangue freddo dei Watson e l’impassibilità degli Holmes.

« HAMISH VAI! » sbottò John, disperato, sentendo grugnire l’aggressore dietro di sé, segno che stava per riprendersi, e per attaccare, e avrebbe attaccato l’anello debole, avrebbe attaccato Hamish.

Lo spinse di nuovo e solo allora lo sentì alzarsi e correre via. Ne fu sollevato.

Si girò verso il buio giusto in tempo per sentire un braccio prenderlo direttamente il volto e sbatterlo a terra di nuovo. Combattere nel buio era come prendere a pugni un ignoto animale enorme che poteva colpirlo da tutte le direzioni contemporaneamente senza che lui avesse avuto né il tempo, né la possibilità di proteggersi.

Tentò di tirare qualche calcio, ma colpì solamente l’aria. Sentì la lama del coltello sibilare vicino al suo orecchio, dei movimenti alla sua destra, e allora tentò di tirare un pugno in quella direzione, ma lo colpì solamente di striscio prendendo solo vestiti. Temeva che si sarebbe messo a correre verso l’uscita per intercettare Hamish. Temeva di non avere più la forza per rialzarsi e rincorrerlo per fermarlo.

Ancora una volta sull’orlo della paura.

Poi, una luce fendette di nuovo il buio. Una luce tremolante ma sufficientemente ferma. John riuscì perfettamente a vedere l’uomo torreggiare su di lui – gli occhi piccoli e neri, la bocca distorta in un sorriso sanguinante, la mano alzata con il pugnale in procinto di abbassarsi, il fisico magro ma atletico, i capelli corti e neri.

Hamish, in piedi a qualche metro di distanza, stava tenendo la torcia per lui. Per mostrargli dove colpire.

Senza pensarci due volte alzò di nuovo il piede e lo colpì all’inguine, dirigendo il calcio al volto quando quello si inginocchiò a causa del dolore, rompendogli il naso.

Ma l’altro non si arrese. Ringhiò di frustrazione con la luce negli occhi, infastidito sia da essa che dal sangue che sgorgava copioso dal suo naso rotto, e cercò ancora una volta di calare il coltello su di lui.

Tre colpi di pistola lacerarono il silenzio, rimbombando violenti sulle basse volte della galleria, facendogli fischiare fastidiosamente le orecchie.

Vide l’uomo davanti a sé cadere di lato, inerme, colpito in pieno.

Sentì la voce di Hamish chiamare “papà” in modo ovattato, come se fosse lontano chilometri. Sentì anche la voce di Sherlock gridare il suo nome e quello di Hamish, ma non riuscì a capire se fosse reale o meno. Si sentiva come se stesse galleggiando in acqua e quella impedisse a qualsiasi suono di arrivargli in modo decente e comprensibile. Sapeva benissimo che era una conseguenza del colpo di proiettile al chiuso, favorito da tutto il rimbombo e l’eco che i muri arcuati della galleria creavano naturalmente, e sapeva anche che sarebbe passato ma un altro tipo di spossatezza si impadronì di lui, impedendogli di alzarsi e rimettersi in piedi. Si sentiva la camicia fradicia di sudore e il lato destro del viso sporco di sangue – che fosse suo o no non faceva differenza. Vedeva, senza nemmeno impegnarsi, fasci di luce danzanti sulla volta sopra di lui. Non si mosse.

Mi mangeranno, pensò distrattamente: i mostri che vivono nell’ombra delle cose. I mostri che vivono nei cuori della gente. I mostri proiettati da una luce troppo forte. Si nutriranno di me banchettando sghignazzanti.

Si chiese se fossero i sintomi di una perdita massiccia di sangue, o di una commozione cerebrale. Non lo seppe con certezza ma il mondo sembrava troppo distante nonostante ne sentisse la consistenza sotto di sé. Chiuse gli occhi pensando ma sì, lasciamo fare ai mostri ciò che vogliono.

Poi si sentì scuotere per le spalle. La realtà tornò solida mentre qualcuno chiamava il suo nome, inginocchiato di fianco a lui.

« John! John, mi senti!? » vide Lestrade esclamare, molti fasci di torce puntati in loro direzione mentre uno stormo di uomini in completo nero marciava verso la galleria, posizionando lampade alogene ogni due metri che illuminarono l’ambiente a giorno. Poteva quasi vedere il nome “Mycroft Holmes” tatuato sulle loro nuche di fianco ad un codice a barre e ad un numero di serie.

Annuì distrattamente a Lestrade, chiudendo gli occhi a causa della luce improvvisa dopo una lunga permanenza nel buio. « Hamish... dov’è Hamish? » biascicò, cercando di farsi forza sulle braccia ed alzarsi da terra.

Greg provò ad impedirglielo ma non ci fu verso. « Va tutto bene, sta bene, è con Sherlock » gli rispose.

Quando fu in piedi, in un equilibrio abbastanza stabile, e alzò lo sguardo, la figura alta a scura di Sherlock lo stava osservando con uno sguardo palesemente preoccupato ed ansioso, tenendo in braccio Hamish che aveva seppellito e nascosto il volto nell’incavo fra spalla e collo del detective.

Non seppe rispondergli con un sorriso come faceva di solito. Non ne fu in grado. Quella di Sherlock con in braccio Hamish era – ed era sempre stata – una delle immagini più belle su cui potesse posare gli occhi, resa inusuale dallo stesso Sherlock che raramente dimostrava la sua paternità così apertamente (aveva altri modi, altri metodi, tutti suoi, tutti da decifrare e da capire ma ugualmente dolci e unici, per essere padre), ma non trovò in sé la forza, o la voglia, di reagire a quella vista.

« John, dovresti andare in ospedale e farti visitare » sentì dire a Lestrade al suo fianco, il medico scosse il capo.
Nausea, un capogiro. Chiuse gli occhi per farlo passare in fretta. Doveva essere un lieve trauma cranico ma non ricordava davvero dove e quando avesse potuto battere la testa.

« Sto bene, Greg. Voglio solo andare a casa e togliermi questo schifo di dosso... » quasi grugnì in risposta, battendo amichevolmente una mano sulla spalla dell’ispettore prima di incamminarsi a passo lento (e un po’ malfermo) verso Sherlock.

Sherlock che non la smetteva di guardarlo. Con un paio d’occhi fermi ma insicuri, lo vedeva – lo vedeva sempre.

Si avvicinò ma non sfiorò il detective. Posò una mano sulla testa di Hamish sperando che sollevasse il volto dalla spalla di Sherlock – luogo in cui si era nascosto – ma non se la prese troppo quando non lo fece. Notò le sue ginocchia scorticate e sottili linee di sangue sulle piccole gambe magre e gli si strinse il cuore. Anche le mani ed i gomiti dovevano avere lo stesso tipo di ferite ma le teneva strette sul cappotto scuro del padre e John non poté vederle. In quel momento, non volle nemmeno.

« Sei stato bravissimo Hamish » mormorò, posandogli un bacio sui capelli: « sei stato bravissimo e coraggioso. Sono fiero di te » aggiunse dopo un secondo bacio e facendone seguire un terzo.

Aveva improvvisamente realizzato i segni, da quando aveva finalmente rivisto Sherlock. Come se la capacità di analisi del detective lo avesse investito e gli avesse aperto gli occhi.

La porta che Hamish aveva detto di aver trovato già aperta, le impronte di mani sul corrimano e le diverse serie di orme nella polvere. I segni c’erano e li aveva visti, ma così come li aveva registrati li aveva anche ignorati. “Tu vedi ma non osservi”, glielo diceva sempre. Pensare a quella frase lo fece solo arrabbiare di più.

« John... » lo chiamò Sherlock, la voce bassa data la vicinanza, ma il medico gli scoccò un’occhiataccia da sopra la testa di Hamish.

« Ti ho chiamato » disse poi, il tono calmo come se parlasse del tempo ma in realtà non lo era, affatto. « Ti ho chiamato e non hai risposto. Per tutto il giorno... tutto il giorno... avresti capito, se ci fossi stato tu. Io avrei saputo e mi sarei portato dietro la pistola. Tutto il giorno... ho provato, Sherlock, davvero ho provato. Ma non lo so... non lo so più... » disse, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi fin troppo chiari e fin troppo consapevoli. « Puoi prenderti cura di lui? » chiese poi, senza aspettarsi risposte di nessun tipo da Sherlock (non ce ne furono).

Era stanco. Non avrebbe voluto lasciare Hamish ma era davvero, davvero esausto. Doveva pensare. Doveva recuperare la parte di sé che se ne stava andando da sola alla deriva. Doveva lavarsi. Togliersi di dosso la polvere e la paura.

Vide Holmes annuire, sistemando meglio Hamish fra le sue braccia. John annuì a sua volta e lo oltrepassò in silenzio.

All’imbocco della galleria, in piedi in un gessato grigio con cappotto annesso e con l’immancabile ombrello al fianco, Mycroft lo osservava camminare. John gli si avvicinò, lo sguardo alto ma vacillante, fermandosi di fronte a lui.

« Posso chiedere un passaggio per Baker Street? » chiese, il tono stanco che non cercò nemmeno di modulare.

Vide Mycroft annuire. « Qualsiasi cosa per mio cognato, dottor Watson » gli disse, accompagnandolo di persona alla macchina.

Era il loro modo per ringraziarsi vicendevolmente.

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è rumore sottacqua. Non ci sono voci, parole, risa, pianti, sospiri, gemiti, urla. Solo un vago eco indistinto, un mormorio sordo che accarezza l’orecchio.

Può sentire il battito ritmico del proprio cuore. Il rumore di una bolla sulla superficie esplodere a contatto con l’aria. Il suono dei propri pensieri, anche se non è sicuro di quale sia e quali siano.

Se doveva finire, sarebbe finita così. Abbandonato in un mondo in cui avrebbe avuto tutto il tempo per piangersi addosso senza che nessuno lo sentisse. I suoi suoni, le voci della tristezza e del rimpianto, sarebbero state circondate dall’acqua ed in essa disciolte.

Non apre gli occhi quando sente una mano appoggiarsi sul proprio petto, afferrando la camicia. Non si sorprende del fatto che quella mano faccia forza e lo tiri su, di nuovo in superficie, fuori da quel silenzio così rassicurante.

La mano ha la carnagione pallida e le dita affusolate. La camicia bianca che indossa è arrotolata fino ai gomiti. Si è tolto giacca e cappotto. Lo sta guardando con lo sguardo di chi non sa come guardarti e aspetta un tuo segnale per capire cosa fare. È in attesa.

John respira di nuovo l’aria del bagno. Guarda Sherlock negli occhi. « Lasciami » dice. Non voleva sembrare scorbutico.

Forse è proprio ciò che ha fatto.

Sherlock gli ubbidisce, allentando la presa. John sospira e si appoggia con la schiena alla vasca e con la testa al muro dietro di essa.

Anche se scivolasse ancora sotto la superficie dell’acqua, non sarebbe più in grado di ritrovare lo stesso mondo di poco prima.

« Ho visto il foglio sul tavolo... e l’anello » dice il detective, seduto a terra con le spalle appoggiate al bordo della vasca, lo sguardo fisso sul pavimento sotto il lavandino. « Non pensare che te lo lascerò fare » pronuncia – e sa di definitivo.

Il cuore di John perde un battito. Possessività. Un altro degli aspetti di Sherlock che amava e che non vedeva quasi mai.

« Non voglio farlo » gli risponde, ed è sincero. Non aveva mai voluto farlo nemmeno quando aveva pensato di volerlo fare davvero.

Sherlock aggrotta le sopracciglia. « Allora perché? » chiede.

John si guarda le mani, ora pulite dallo sporco e dal sangue. I palmi sono graffiati e scorticati e bruciano in un modo debilitante a contatto con l’acqua.

« Perché ci sono delle volte in cui mi fai arrabbiare così tanto » comincia John: « che l’unico modo che ho per non crollare è pensare al potere che avrei minacciando di lasciarti. Sono i cinque minuti in cui mi illudo che il vedermi andar via ti distruggerebbe come distrusse me quando fosti tu a non esserci » gli rivela, rimanendo in silenzio qualche istante per poi riprendere parola: « ma c’è Hamish, e io ti amo. Ti ho amato conoscendoti e ti conosco proprio perché ti amo, dunque riesco a prevedere almeno un po’ il tuo carattere imprevedibile. Ti amo, ma ultimamente siamo piantati in una guerra di trincea che non lascia né vincitori né vinti, solo feriti » dice, inclinando il capo.

« Hamish » intuisce Sherlock.

John annuisce, anche se l’altro non può vederlo. « Non è stata curiosità Sherlock, non del tutto. Era una fuga dimostrativa. Un dispetto per farci capire che lui ha capito » dice.

« Lo so » ribatte Sherlock, il volto basso: « me lo ha detto ».

Cala un silenzio strano, nel bagno del 221B. Un silenzio leggero ma denso. Finché non è Holmes ad interromperlo.

« Siamo cattivi genitori, John? » domanda. Ed è incredibile che Watson riesca a trovare le risposte a tutti i suoi dubbi solo quando al suo fianco c’è Sherlock Holmes.

« No » gli risponde: « no, non siamo cattivi genitori. Siamo... normali. Capita a tutti di litigare » gli spiega.

Perché ci sono cose – poche – che Sherlock non sa e che John deve insegnargli. Anche ora.

Ma Sherlock non è convinto. « Non abbiamo mai litigato così » afferma.

Ha ragione, ma non dice niente – non ce n’è bisogno.

È Sherlock a continuare il discorso: « ho capito la logica dietro il tuo ragionamento di voler lavorare alla clinica, John » gli dice, monocorde ma sincero: « ed è vero che Hamish è un bambino leggermente iperattivo, ma– ».

« No, Sherlock » lo interrompe il medico.

« John– ».

« No » lo interrompe ancora.

« Volevo solo dire che– ».

« Cosa devo fare per farti stare zitto? » domanda retoricamente il medico in una risata lieve, facendo comparire un sorrisetto anche sulle labbra del detective.

Il primo in cinque mesi.

Solleva una mano dall’acqua, andando a catturare uno dei riccioli neri. Se lo rigira fra le dita, bagnandolo, saggiandone il cambio di consistenza nonostante le ferite rendessero la sua mano un ammasso di graffi doloranti. Sherlock volta il capo verso di lui, poi il resto del corpo e si sistema con le braccia sul bordo della vasca e il mento appoggiato alle mani, lasciandolo fare.

John passa i polpastrelli delle dita sulla fronte e sulle piccole rughe che il tempo non ha risparmiato nemmeno a Sherlock. Passa con l’indice sul naso, spostandosi sulle gote, accarezzando gli zigomi, la linea della mascella, il mento. Arriva alle labbra. Le sfiora con il pollice, disegnandone i contorni.

C’erano momenti in cui avrebbe avuto un’erezione, osservando quei lineamenti. Sfiorando con le dita l’arcata sopraccigliare, i suoi zigomi, le sue palpebre chiuse. Disegnando con l’indice il contorno delle sue labbra. Sentendo Sherlock fare altrettanto a lui.

Ma non è uno di quei momenti.

Sherlock si avvicina, si incontrano a metà strada. John sente la mano destra del detective appoggiarsi sulla sua guancia in una carezza impacciata ma affettuosa, dolce.

Sherlock lo tocca, lo sfiora, saggia ogni linea, ogni ruga del suo viso prima con le dita, poi con le labbra. E John fa lo stesso, poggiando le sue dove riesce ad arrivare, incontrando quelle di Sherlock molte volte. Come la prima volta.

La prima volta che lo aveva baciato. La prima volta che Sherlock aveva baciato lui. La prima volta in cui si erano baciati. La prima volta in cui avevano fatto l’amore. La prima volta in cui gli aveva detto di amarlo. La prima – e fin’ora unica – volta in cui Sherlock lo aveva detto a lui. La prima ed unica volta in cui Sherlock gli aveva chiesto, nel modo tutto suo di porsi, di sposarlo. La prima volta in cui avevano fatto pace dopo il primo litigio serio. La prima alba vista dopo aver passato la prima notte in bianco cullando Hamish per non farlo piangere.

Tutto per riscoprirsi di nuovo.

Tutto come la prima volta.

 

 

Il modulo era andato distrutto. John era uscito dal bagno pulito ed in pigiama, si era rimesso la fede al dito, aveva preso il foglio di carta e lo aveva bruciato sul fornello. Sherlock, appoggiato allo stipite della porta con in mano disinfettante e bendaggi, aveva aspettato che avesse finito prima di sorridergli, indicargli la sedia e medicarlo.

Aveva disinfettato ogni graffio e ferita, applicando cerotti o bende. Gli aveva anche spalmato la pomata sul livido grosso come un melone che gli era spuntato sulla spalla destra, così come aveva scoperto un bernoccolo molto doloroso sulla sua nuca, probabilmente fonte del lieve trauma cranico che gli aveva provocato in pochissimo tempo un mal di testa furioso.

Era stato in guerra e ne era uscito meglio.

Ora, steso sul letto nella luce soffusa dell’abat-jour, tutto sembra tornato al proprio posto. Il peso dell’anello è dolce al suo dito, i passi al piano di sopra sono quelli di Sherlock che è andato a controllare Hamish e sorride quando li sente scendere le scale ed entrare prima in salotto, poi in camera.

Non ha bisogno di esprimere nessun desiderio. Sherlock sale piano sul letto, stendendosi dietro di lui, petto contro schiena, labbra contro nuca. Il suo profumo è più rassicurante di mille parole e John intreccia le dita della sua mano con quella di Sherlock, quando il detective fa passare un braccio intorno alla sua vita e lo stringe a sé.

Casa, finalmente. Alla fine.

« Come sta Hamish? » chiede, il tono basso. Il mal di testa è peggiorato, nell’ultima ora, impedendogli di fare qualsiasi cosa. Anche muovere troppo in fretta il capo.

« Bene » gli risponde Sherlock: « mrs. Hudson mi ha aiutato a disinfettargli le ginocchia e i gomiti. Non si è fatto niente, solo qualche escoriazione. Era terrorizzato ma adesso lo spavento è passato ».

John annuisce, stringendosi di più nell’abbraccio del marito (cosa che sente essere molto apprezzata, a giudicare dal piccolo bacio che Sherlock gli lascia sulla nuca). « È stato bravissimo » dice poi: « anche se avrei preferito che fosse scappato. Ha visto uccidere quell’uomo... ».

« Era un serial killer. Hamish è abbastanza intelligente per capire il perché della sua morte » ribatte Sherlock, la voce calma, il tono basso.

John sospira. « Sì, sì... hai ragione. Ma ha pur sempre sette anni. Mi piacerebbe che li avesse ancora per un po’ » dice, ascoltando in silenzio il battito del cuore di Sherlock contro la sua schiena, godendosi il calore della sua presenza.

Il detective non risponde, ma John non sente il bisogno particolare di continuare a parlare. Ha solo voglia di rimanere così, stretto alla persona che ama, nella casa che ama, pensando al figlio che ama, circondato dalla vita che ama. Aveva sempre voluto solo questo, dalla vita, ed è felice che essa l’abbia finalmente ripagato. Andava bene così.

« Ha preso da te » dice poi Sherlock alle sue spalle.

« Mh? » chiede lui in un mugugno assonnato.

« Hamish. Il suo carattere. Buono, coraggioso, sorridente... ha preso da te » gli spiega, parole leggere mormorate ad un passo dal sonno.

John soffia fuori una risata. « Oh, no, Sherlock... direi che ha preso molto di più da te » gli dice sorridendo.

Sente Sherlock sorridere a sua volta contro la pelle del proprio collo. « Ha preso qualcosa da entrambi » ammette, per poi aggiungere: « così siamo pari ».

Chiude di nuovo gli occhi, sospirando piano. Il sonno è dietro l’angolo, lo sente avvicinarsi, e lui non fa resistenza; troppe emozioni, troppa tensione, troppa adrenalina per una notte sola. Troppo mal di testa. Troppa felicità.

Sta già per regolarizzare il respiro quando sente di nuovo la voce di Sherlock: « sta arrivando » gli sussurra, riportandolo nel mondo della veglia.

« Hamish? » chiede John.

Holmes annuisce contro il suo collo. « È alla fine delle scale » mormora.

Ci vogliono meno di due minuti per sentire la porta della camera da letto aprirsi e poi richiudersi, e avvertire i passi leggeri di Hamish fare il giro del letto. Quando riapre gli occhi, il piccolo è in piedi di fronte a lui, le sopracciglia aggrottate e gli occhi lucidi sull’orlo delle lacrime.

Eccolo, il suo bambino. I suoi sette anni ancora tutti lì: nel sogno di diventare astrofisico solo dopo aver fatto il pirata, nella paura del buio, nel venire a dormire nel loro letto dopo aver fatto un brutto sogno, nel pigiama con piccole macchinine disegnate che Harry gli aveva regalato lo scorso Natale.

Nei cuori suo e di Sherlock, probabilmente Hamish avrebbe avuto sempre sette anni. Sarebbe stato per sempre il piccolo frugoletto che aveva afferrato il suo dito con la mano, guardandolo con quegli enormi occhi azzurri. Sarebbe stato per sempre il bambino che si infilava in silenzio a letto con loro cercando di non svegliarli.

Gli sorride, John, scostando la coperta. Hamish si arrampica sul letto e si accoccola al suo petto, lasciando che il medico gli sistemi il lenzuolo sulle spalle e lo abbracci stretto.

« Non riesci a dormire? » chiede Sherlock, issandosi sul gomito per poter vedere Hamish.

Il bambino scuote il capo.

« Brutti sogni? » domanda allora John.

Hamish nega di nuovo con la testa.

« Allora cosa? » chiede Watson, accarezzandogli i capelli scuri.

« Hai paura? » aggiunge Sherlock.

Hamish annuisce piano.

John piega le labbra in un sorriso tenero, posandogli un bacio fra i capelli. « Non devi averne » gli dice: « anche io ho avuto tanta paura, là sotto. Sai, zia Harry si divertiva a spaventarmi quando eravamo bambini raccontandomi le leggende dei fantasmi della metropolitana. Non mi è piaciuto andarci. Ma ora stiamo bene, siamo tutti qui e questo è l’importante » aggiunge con tono gentile.

Sherlock ridacchia alle sue spalle, ma John non se la prende, rispondendogli con un sorrisetto.

« Non... divorziate più? » chiede ancora il bambino, gli occhi chiusi.

John scuote la testa. « No, Hamish. Mai. Non lascerò mai tuo padre. Così come non lascerò mai che se ne vada in giro da solo a dare la caccia ai criminali » aggiunge.

Vede con la coda dell’occhio Sherlock osservarlo stranito, capendo al volo l’allusione. « Sai che lo facevo anche prima di incontrarti, John Watson? » domanda allora, fingendo sufficienza.

« Prima di me ti cacciavi semplicemente nei guai, Sherlock Holmes » ribatte fiero il medico.

Hamish ride. I genitori sorridono, sollevati.

« Dormi Hamish » dice poi Sherlock: « io e tuo padre siamo qui ».

 

 

 

 

 

 

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1. Nel fandom inglese Hamish chiama John "dad" (papà) e Sherlock "father" (padre). Ora, la lingua italiana non ci concede una tale varietà di linguaggio, se non per l'utilizzo del termine "babbo", che però a me non piace per niente; così come non mi piace la traduzione di "father", in quanto la ritengo un po' troppo formale. Ragion per cui qui Hamish chiamerà sia John che Sherlock "papà" e io farò del mio meglio per farvi capire a chi si riferisce in base al contesto ;D

 

2. Tutte queste informazioni arrivano da un servizio di Voyager sui fantasmi della Tube. Se Cercate su YouTube lo trovate di sicuro. Consiglio di guardarlo, è interessante.

 

3. Tutto quello che snocciola Sherlock è pura storia. Le tre fermate in questione sulla Metropolitan Line furono chiuse nel '39 per poter smaltire il traffico intenso della linea e furono rimpiazzate da due fermate prima sulla Bakerloo Line, poi sulla Jubilee Line (le attuali Swiss Cottage e St. John's Wood). Le fermate in sé e per sé esistono ancora sulla Metropolitan e, ovviamente, è assolutamente contro la Legge andarci senza autorizzazione ;D (Legge? Cos'è la Legge? Si mangia?).

Inoltre la fermata di Lord's venne rinominata così solo cinque mesi prima della sua chiusura. Dal 1925 fu chiamata St. John's Wood e, ancora prima, St. John's Wood Road. Da cui il titolo.

 

4. Per chi non ci fosse stato: la Tube londinese provvede alla sicurezza dei suoi avventori con una leggermente inquietante voce maschile pre-registrata che, ad ogni fermata ed in ogni stazione, pronuncia un profondo "mind the gap" atto a far notare che fra il treno e la banchina ci sono una cinquina di centimetri di vuoto in cui il piede potrebbe poco gloriosamente rimanere incastrato. Ormai la frase è diventata famosissima ed è utilizzata anche al di fuori dell'Inghilterra.

 

5. La stazione di Lord's (alias St. John's Wood Road) è classificata come sub-surface, il che vuol dire che non è completamente sotterranea: solo la banchina lo è, mentre i binari verso sud corrono scoperti per un tratto. Per necessità di trama, ho deciso di interrare la stazione un po' di più e far cominciare il pezzo scoperto oltre la visuale della banchina. Chiamatela libertà artistica, se volete ;D

 

6. Io ho la convinzione artistica che John sia cresciuto senza suo padre, o per meglio dire, che suo padre abbia lasciato la famiglia quando John era piccolo (6/7 anni). Motivo per cui mi escono frasi del genere.

   
 
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