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Autore: xBooBenny    10/08/2012    2 recensioni
«Non sono venuta solo per questo, però.» Mi guardò. Continuai. Il treno prese ancora ad aumentare velocità, ormai correvo.
«Ti amo anch’io!» lo urlai quasi, per il troppo rumore.
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Una piccola storiella scritta l'anno scorso, spero vi piaccia! c:
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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'Cause I Love You
 


“E tu cosa provi veramente? Lo ami?”
 

Quella domanda mi spiazzò. Cosa provavo veramente per lui? Sentivo di volergli bene, ovviamente; era il mio migliore amico dopotutto, da 12 anni ormai. Ricordo ancora quel giorno, quando io, 4 anni appena compiuti, ero li, seduta sull’erba del cortile dell’asilo del quartiere dove vivevo, pronta per mangiare. Si, a 4 anni ero già in grado di organizzarmi in certe cose. Le maestre lasciavano sempre noi bambini all’esterno per qualche minuto per un piccolo break, per giocare e per mangiare anche se molto spesso i più chiassosi si dimenticavano di farlo. Effettivamente non era molto prudente lasciare dei bambini dai 3 ai 6 anni da soli ma per me non era un problema.                                                                    
Era una bella giornata di primavera, quindi potevo tranquillamente stare seduta sull’erba fresca. Presi la mia merendina dallo zainetto ma prima di addentarla, da bambina educata quale ero, mi alzai per andare a buttare la carta che la conteneva nel cestino. Il cortile era equamente diviso in età, e il cestino era vicino ai banchetti riservati a quelli dell’ultimo anno, ovvero ai bambini di 6 anni. C’è n’era un gruppetto proprio li vicino ma ovviamente non ci feci caso; ero solo una bimba!

Buttata la carta, avvicinai lentamente la merendina alla bocca ma non feci in tempo che un bambino, correndo, mi urtò e la mia adorata merendina cadde per terra. Il bello è che quel tipetto non si fermò neanche per scusarsi!
All’inizio rimasi li ferma a guardare la mia merendina, con gli occhi pieni di lacrime, poi strinsi i pugnetti e scoppiai a piangere definitivamente. Piansi così forte che a un certo punto mi si avvicinò un bambino, poco più alto di me, con uno di quei contenitori di plastica contenenti dei biscotti al cocco.             
«Prendili.» mi disse semplicemente. Io alzai lo sguardo verso di lui, poi verso i biscotti, e poi ancora verso di lui. «Quello è Patrick Scott, non chiede mai scusa quando fa le cose! E’ così antipatico!» disse ancora, incrociando le braccia magre e sbuffando un po’ . Io intanto smisi di piangere, e lo guardavo. Era così buffo, quel bambino. Aveva i capelli rossi, tutti spettinati, e tante lentiggini sul viso pallido. Gli occhi erano un po’ piccoli e il nasino era perfetto. Appena finì di dire quella frase mi guardò e si accorse che non avevo preso ancora niente. «Guarda che se non li vuoi me li riprendo.» Feci di no con la testa scuotendo i miei codini e timidamente presi un biscotto. Lo portai alla bocca e, assaggiandolo, mi resi conto che erano buoni. Sorrisi ed evidentemente il bambino se ne accorse. «Li ha fatti la mia mamma. Sono buoni vero?», questa volta mossi la testa per un si, ma con molta energia. Non ero di molte parole!                                                                                                                           
«Io vado, tieniti tutti i biscotti.» detto questo di allontanò velocemente.

 
Tutto però iniziò il giorno dopo quando, durante il solito break, mi avvicinai con coraggio ai banchetti di quelli di sei anni con un contenitore di plastica, lo stesso che mi aveva lasciato il giorno precedente il rossiccio. Mi guardai in giro, quando scorsi una testolina rossa  che spuntava tra tante testoline marroni. Sicura, mi diressi verso quella testolina e appoggiai il contenitore sul banchetto di legno.
«Tieni, e grazie per ieri.». Detto questo, persa tutta la sicurezza che avevo, corsi via dentro l’edificio. Mi fermai a riprendere fiato, facendo calmare il mio cuoricino che, vuoi la corsa, vuoi l’emozione, batteva all’impazzata. Poi, mi sedetti a un tavolino e, adocchiati dei fogli e dei pastelli buttati a caso, incominciai a disegnare. Mi piaceva molto, adoravo trascinare le matite colorate su quel foglio bianco, così da esprimere al meglio quello che sentivo. Rimasi, però, sola solo per una decina di minuti perché si venne a sedere vicino a me un bambino.
«Che bello!» disse allegramente. Alzai lo sguardo dal foglio e lo guardai. Riconobbi la testolina rossa e scorsi sul viso un sorriso radioso. Vicino a se aveva ancora il contenitore, mezzo vuoto. Si accorse che guardavo il contenitore e subito mi disse che erano davvero buoni.«Grazie, li ho fatti io con la mia mamma.» arrossì un po’. Poi lui prese il suo contenitore, aprì il coperchio e lo mise al centro, tra noi due. «Mangiamoli insieme. Ah, io sono Adam.»
 
Da quel giorno fummo inseparabili.
Ora, a 16 anni, ancora piccola, non porto più le codine, ma ho una grande chioma riccia castana che arriva a metà schiena.
La domanda di Kate mi aveva fatto porre tante, troppe domande sui miei sentimenti. Cosa provavo davvero per il mio migliore amico, quel 18enne rossiccio e con le lentiggini, che da quel giorno all’asilo non mi ha più lasciata, diventando il mio solo amico e unico sostenitore per la mia carriera di cantante, anche se ero ancora un adolescente presa da crisi ormonali. Lui questa fase l’aveva già superata e quando insisteva sul mio futuro, si giustificava dicendo che lui era più grande e che se avesse avuto un amico della sua età che gli avesse consigliato di abbandonare tutto per diventare un grande skater, lui lo avrebbe ascoltato. Infatti, la tavola da skate, per Adam, era più di una semplice asse di legno: era come un fratellino più piccolo da accudire, «proprio come te», diceva sempre. Ma io non potevo aiutarlo dandogli dei consigli, perché quando lui aveva 16 anni io ne avevo solo 13 - io e Adam abbiamo 2 anni di differenza solo per metà anno, essendo io nata a maggio e lui a novembre, ma per i restanti 6 mesi la differenza è di ben 3 anni. Quando gli dicevo questo, lui quasi non mi ascoltava e ripeteva quanto avessi una voce stupenda. Adam era l’unico che sapeva di questo mio talento nascosto, a parte la mia famiglia. Dopotutto, non avevo molti amici. Parlavamo spesso di questo, e io ripetevo in continuazione che era colpa del mio aspetto. Non mi piacevo, avevo un naso grosso e i fianchi larghi, ma Adam si infuriava e mi ripeteva che non era per niente vero e che io ero bellissima. Per farmelo capire, per il mio 16° compleanno, fece un video con tutte mie foto con sottofondo la canzone “Fuckin’ Perfect” di Pink, cantata da me però. Suonava molto strano, ma l’effetto era carino.
Ora però non ci parlavamo da qualche settimana, a causa della sua troppa apprensione nei miei confronti e per la mia testardaggine totale in alcune situazioni. Abbiamo litigato, sono volate troppe parole, la maggior parte non volute, ma taglienti come una lama. Ci si potrebbe aspettare che la “conversazione” sia finita nei peggiore dei modi, e da un certo punto di vista potrebbe pure essere così. Non so come ci siamo arrivati, ma Adam praticamente mi ha urlato in faccia che mi ama. Ma amore vero, quello fatto di passione e fiducia reciproca, non l’amore che prova un fratello verso la sorellina, o un ragazzo verso la sua migliore amica. Poi da li niente, ne una parola, ne uno sguardo. Andò semplicemente via, lasciandomi da sola.                               
Dal canto mio, volevo riallacciare qualcosa con lui, anche se effettivamente non potevo presentarmi da lui dicendo: «Non ti amo, rimaniamo migliori amici?»  ma allo stesso modo non volevo perderlo. Era l’unica persona di cui mi fidavo veramente. Ero quindi convinta, fino a qualche giorno fa, che io provavo verso di lui solo amicizia, vera amicizia, ma ero consapevole che tra di noi non sarebbe mai più stato come prima. Ma da quando Kate mi ha fatto quella domanda, i dubbi hanno incominciato a pervadere la mia testa.  «Lo ami?» , questa è la parte più difficile. Come potevo uscire da quell’arcano?
 
Alcuni giorni dopo, mentre passeggiavo, non mi resi conto di essere arrivata alla rampa comunale, un luogo dove tutti gli skater della zona andavano. Li Adam ci passava la maggior parte della sua giornata, allenandosi. Decisi di vedere se lui fosse li, giusto un paio di minuti, senza farmi vedere. Così, quatta quatta, mi nascosi dietro un albero, precisamente dietro l’albero dove adoravamo stare noi due al riparo dal sole, e guardai. Controllai le varie rampe, fino a quando non lo vidi seduto sul divanetto , nella zona relax della rampa. Gli skater erano una grande gruppo di ragazzi di varie fasce d’età, e Adam li considerava come una seconda famiglia. Nella zona relax c’era, oltre al divanetto, anche un piccolo fornello e un tostapane, senza dimenticare il piccolo frigobar. Adam era li seduto che guardava il vuoto, non un’espressione pensierosa. Quanta voglia di andargli incontro e abbracciarlo! Mi mancavano i suoi gesti di affetto. Sapeva sempre quando ne avevo voglia, e io altrettanto. Il nostro rapporto era uno di quelli dove basta solo uno sguardo per capirsi. Peccato che ora, guardandolo negli occhi, non vedevo che’ tristezza. Ad un certo punto da dietro una rampa, sbucò una ragazza, una biondona di prima categoria, liscissima, con un pantaloncino mini e un top talmente piccolo che metteva in risalto il grande seno. Ai piedi aveva delle vecchie converse ed in mano due bibite ghiacciate. Si  avvicinò al divanetto e diede ad Adam una delle due bibite. Lui la prese, e la ringraziò, si scambiarono alcune parole e quella poi si sedette, ma non sul divanetto, ma sulle gambe di Adam! Continuai a guardarli per qualche minuto: ridevano e parlavano tranquillamente, e Adam non sembrava neanche più tanto triste. Me ne andai, più arrabbiata che mai e con una grande morsa alla bocca dello stomaco. Camminai velocemente, per cercare di sbollirmi un po’ ma proprio non mi passava. Chi era? Non l’avevo mai vista.  E non mi sembrava neanche tanto sportiva da usare uno skate. E poi cosa c’entrava Adam con quella specie di “lucciola”?  Mi fermai. Non è che ero gelosa?
No dai, non lo ero mai stata.
 
Ne parlai ancora con Kate e lei di tutto punto mi rise in faccia. Mi offesi: mi mancava giusto quello! Dopo che si calmò, mi chiese scusa e disse semplicemente che avevo risposto alla sua domanda. Alzai un sopracciglio, senza capire, e squillò il telefono, e Kate andò a rispondere. Cercai di ascoltare ma capii solo “stazione”, “treno”, “20 minuti”, poi ci fu un silenzio da parte sua, rotto ogni tanto da un “capisco”, evidentemente perché il suo interlocutore le stava spiegando qualcosa. Quando attaccò, la sua faccia era tra il disperato e il triste. Non capivo assolutamente perché mi guardava così e allora le chiesi spiegazioni. «Adam.»
«Adam cosa?» incominciai a preoccuparmi. Kate si sedette di fronte a me. «Era la sua mamma. Mi ha spiegato che un paio di giorni fa, a casa è arrivata una lettera, proveniente dalla New York University, per Adam. Li c’era la conferma che Adam è stato accettato a quella università.»
Un balzo al cuore.
«Ma Adam non è mai voluto andare all’università. Almeno non così lontano.»
«Si ma a quanto pare Adam ha cambiato idea e grazie ad alcune conoscenze è riuscito ad entrare li. Patty mi ha detto che parte oggi.»
Altro balzo al cuore.
«Oggi? Come oggi?»
«Si. Tra 20 minuti.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi ritornò quella strana sensazione.
«Benny, tu sei innamorata.»
La guardai.
Innamorata? La strana sensazione, le lacrime, la rabbia. La paura di perderlo per sempre, di non vederlo più.
Innamorata? Si, lo ero.
Guardai Kate e le sorrisi. Lei ricambiò. «Vai.»
 
Detto fatto, corsi fuori in direzione della stazione. Avevo 15 minuti scarsi a disposizione, e la distanza era più o meno di 10 minuti. Dovevo correre più forte che potevo, dovevo fermarlo. Lui non voleva partire, non voleva lasciare tutto e tutti, non voleva lasciare la sua rampa, la sua seconda famiglia, ma voleva lasciare me. Non potevo permettergli di rovinare tutto per colpa mia. Sulla via mi ostacolavano tutti, cani, persone, macchine, ma niente mi fece rallentare. Finalmente arrivai alla stazione, corsi ancora di più, e chiesi informazioni. “Binario 7. Si sbrighi, partirà fra pochi minuti.” Un’ultima corsa e scorsi il binario 7; fortunatamente il treno ancora non era partito. Arrivai subito al binario e incominciai a guardare nei finestrini alla ricerca di Adam, quando vidi un’inconfondibile testa rossa spuntare tra tante teste marroni. Adoravo i suoi capelli anche per questo: Adam si poteva sempre trovare. Urlai il suo nome, più volte, e si girò; era sorpreso di vedermi. Si avvicinò velocemente a un finestrino ma il treno si mosse. Stava partendo! Adam cacciò la sua testa rossa dal finestrino e io mi avvinai, cercando di rimanere al passo con il treno.
«Che ci fai qui?»
«Sono venuta per scusarmi.»
«Non c’è n’è bisogno.»
«Come no? Stai lasciando tutto per me e io non voglio essere la causa di tutto ciò. Tu non vuoi andare a New York, e tanto meno a quell’università di secchioni.»
Non rispose, il treno stava piano piano aumentando la velocità.
«Non sono venuta solo per questo, però.» Mi guardò. Continuai. Il treno prese ancora ad aumentare velocità, ormai correvo.
«Ti amo anch’io!» lo urlai quasi, per il troppo rumore.
Adam era ancora più sorpreso. Gli tesi la mano e lui la prese, ma purtroppo il treno prese definitivamente velocità e ci staccammo. Non mi resi conto però che nello staccarci mi era scivolato in mano uno dei suoi braccialetti, ma non uno qualsiasi: era un braccialetto con scritto su “Adam”, un mio piccolo regalo per il suo 8° compleanno. Lo feci io stessa con uno di quei giochi per bambini che mi venne regalato per il mio onomastico. Ad Adam piacque così tanto che promise di non toglierselo mai e che lo avrebbe sempre portato con se. E così fu.
 Guardai il treno allontanarsi e mi infilai il suo braccialetto al polso destro, scoppiando a piangere.
Lo avevo perso, e lui avevo abbandonato tutto a causa mia. Decisi di andarmene subito, rimanere li ero troppo doloroso.
Feci una decina di passi, quando mi suonò il cellulare. Era Adam! Risposi subito. «Ti sta bene.»
«Cosa?» non capivo in che modo dovevo interpretare quello che mi aveva appena detto.
«Effettivamente, cosa non ti sta bene.». Ero ancora più confusa.
«Adam, io…»
«Forse però dovresti metterlo al braccio sinistro, risalta di più.»
Mi bloccai. Come poteva mai sapere che…
Mi girai subito. Spalancai la bocca. T-shirt, camicia a quadri viola, jeans nero, valigia gialla, capelli rossi e lentiggini. Chiusi il telefono e senza neanche pensarci gli corsi incontro. Lui mi prese e ci abbracciammo fortissimo, quasi cercando di rimediare a tutti gli abbracci non dati.
Piansi ancora, come al solito, ma di felicità. Adam si staccò. Da quanto tempo non lo guardavo negli occhi, in quei piccoli ma bellissimi occhi verdi.
«Non piangere. Se lo fai, mi uccidi.»
Ci guardammo ancora, poi mi accarezzò una guancia dolcemente e ci avvicinammo sempre di più. Poi la distanza venne definitivamente eliminata quando le nostre labbra si toccarono in un lungo e meraviglioso bacio, il primo della nostra bellissima storia d’amore.


  
ANGOLO DELL'AUTRICE
'Giorno a tutti! c:
Questa è la prima storia che pubblico che non sia una Fan Fiction. L'ho scritta circa un anno fa, e infatti il mio stle è un po' variato, l'ho riletta e mi è balzata in testa l'idea malsana di pubblicarla. Ora, non so se abbia fatto un errore, sta a voi farmelo sapere, magari con qualche recensione :3

Il ragazzo, Adam, è ispirato a una persona che è stata molto importante per me nel periodo della stesura di questa storiella. Ok, non so perchè l'ho detto lol

Vi saluto, e grazie a chiunque recensisca questo obbrobio (?) :3

Baci,
-Benny xx


  
  
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