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Autore: Lue    10/08/2012    5 recensioni
E gli sbagli si pagano. John stava pagando al momento, sudato nel suo abito nero, con una fede al dito. Stava pagando con l’immagine degli occhi di Sherlock stampati indelebili nella sua mente e nel suo cuore, stava pagando col pensiero di lui, solo, in una casa vuota che non avrebbe mai più visto il furore delle loro litigate, avvertito il tepore delle loro risate, ma semplicemente ospitato il peso dell’assenza di John e del dolore di Sherlock. Come aveva potuto pensare di potercela fare, di nuovo, senza di lui? E come aveva potuto pensare che Sherlock, abbandonato, non sarebbe crollato?
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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COME MORNING LIGHT


Ricordo le lacrime rigarti il volto
quando ti ho detto che non ti avrei mai lasciato,
quando tutte quelle ombre avevano quasi ucciso la tua luce.
Ricordo che mi hai detto “Non lasciarmi solo”,
Ma stanotte è tutto finito e chiuso e passato.
 
Chiudi gli occhi,
Il sole sta tramontando.
Starai bene,
Nessuno può ferirti ora.
Vieni, luce del giorno.
Io e te saremo sani e salvi.
 
Non osare guardare fuori dalla tua finestra,
tesoro, ogni cosa è in fiamme.
La guerra fuori dalla nostra porta continua a imperversare.
Aggrappati a questa melodia,
anche quando la musica se ne sarà andata.

[Taylor Swift & The Civil War – “Safe and sound”]

“Aspettami qui”.
Così gli aveva detto Mycroft. E Sherlock aveva aspettato. Era rimasto a tamburellare con le dita sulla familiare tappezzeria del muro, seguendo i disegni coi polpastrelli, per un sacco di tempo. Era stufo e Mycroft non scendeva al piano di sotto. Quante cose doveva dire ancora a John? Certo, Sherlock era stato via tre anni, ma Mycroft avrebbe solo dovuto spiegare come c’era riuscito! Questione di pochi minuti!
E se Mycroft – si ritrovò a pensare con una punta di fastidio – avesse riferito a John tutto quello che Sherlock aveva fatto in quei tre anni? Sherlock voleva raccontarglielo di persona! E vedere l’espressione ammirata sul viso di John! No, non aveva assolutamente senso aspettare, si disse Sherlock, e si decise a salire i primi gradini che portavano al piano di sopra, alla casa che era stata – e che sarebbe stata di nuovo – sua e di John.
Non fece in tempo a salire il terzo gradino che Mycroft apparve in cima alle scale, fermandolo con un cenno. Quando gli fu a pochi centimetri di distanza sospirò.
“È meglio che tu non salga, Sherlock”.
Lui scosse la testa con un gesto stizzito.
“Non dire stupidaggini, certo che posso salire”.
“Sherlock…”, Mycroft cercò di fermarlo, ma lui lo ignorò e lo sorpassò deciso, superando gli scalini a due a due, con ampie falcate.
John era a piedi nudi, sprofondato nella sua solita poltrona. Non alzò lo sguardo quando Sherlock entrò nella stanza.
A Sherlock batteva il cuore, fortissimo, non c’era tempo per pensare a spiegazioni scientifiche per quello strano fenomeno.
“John”, sorrise piano.
Quello, per tutta risposta, serrò le labbra e chiuse gli occhi. Inspirò profondamente.
A Sherlock si insinuò, leggero, il dubbio che qualcosa non andasse.
“John?”, ripeté.
Lui riaprì gli occhi, ma li tenne fissi davanti a sé, senza degnare Sherlock di uno sguardo.
“Fuori da casa mia”, sussurrò.
“Cosa?”, domandò Sherlock spiazzato, certo di aver capito male.
“Ho detto… Fuori da casa mia”.
Rimasero in silenzio, immobili.
“Hai capito?”, la voce di John tremava, “Vattene, ora”.
“No”, disse Sherlock, sorpreso, “Perché dovrei andarmene?”.
John scoppiò in una risatina che non aveva nulla di divertente.
“Perché mi hai ingannato, forse? Perché hai reso gli ultimi tre anni i peggiori della mia vita? Sei solo uno stronzo, Sherlock, un maledettissimo stronzo egoista”, sputò con amarezza, “Quindi fuori da casa mia”.
Per un paio di secondi Sherlock rimase in silenzio, sconcertato e confuso, poi si diresse verso la poltrona di John e gli si piazzò davanti.
“Non è casa tua, è anche casa mia, è ancora casa mia, Mycroft ha pagato la mia parte di affitto per tutti e tre questi anni. Quindi”, continuò con ovvietà, “Non puoi chiedermi di andarmene”.
John annuì.
“Perfetto, allora. Benissimo. Me ne vado io”.
Si alzò, ignorando totalmente Sherlock, e si infilò le scarpe. Fece per andare verso la porta quando la voce di Sherlock lo raggiunse.
“John”, c’era una nota ferita nel suo tono, “Non puoi… non puoi andartene”.
“E perché no? Tu l’hai fatto. Senza troppi problemi”.
Se ne andò senza voltarsi.
 
Sherlock rimase immobile, nel mezzo della stanza. Non si era mosso quando John si era alzato, quando se n’era andato. Aveva una tremenda voglia di piangere, la stessa che aveva provato sul tetto, una lontana mattina di tre anni prima. Si sentiva solo, in un modo completamente nuovo e doloroso. La solitudine aveva sempre fatto parte della sua vita: da piccolo non aveva mai avuto amici, come tutti i ragazzini della sua età e poi, cresciuto, non aveva sentito il bisogno di farsene. C’era abituato. Era abituato a parlare da solo, interrogarsi e rispondersi, mettere sempre alla prova la propria intelligenza. Era stato solo, si era sentito solo, ma non gli aveva mai fatto davvero male. Poi era arrivato John, che non era certo un essere umano dall’intelletto fuori dall’ordinario, era un qualcuno di perfettamente normale che era precipitato nella sua vita. E Sherlock, semplicemente, gli aveva permesso di rimanerci. John era diventato il suo amico. Suo. E amico. L’unico, in effetti.
Sherlock aveva pensato molto a lui negli ultimi tre anni, aveva parlato con lui (anche se John non era propriamente lì), aveva ricevuto mensilmente informazioni su di lui da Lux, Pit e altri senzatetto, e aveva programmato perfettamente il giorno del suo ritorno: John sarebbe stato felice e ammirato, gli avrebbe chiesto tutto di come aveva eluso la morte, avrebbero parlato fino a tardi e alla fine John si sarebbe appisolato sul divano, come sempre.
Sherlock detestava quando le cose non andavano come previsto. Non c’era abituato.
E ora John se n’era andato e gli aveva detto che era uno stronzo.
Si accoccolò per terra, davanti alla poltrona di John, stringendosi le ginocchia al petto. Sherlock se la ricordava quella sensazione, sapeva a cosa avrebbe portato. Era un senso di vuoto, come se stesse precipitando giù, giù, giù. Prima gli capitava abbastanza spesso, quando non lavorava per tempi troppo lunghi: entrava in uno stato di apatia profonda e c’era solo un modo di uscirne, di sopravvivere fino al prossimo caso. Poi, da quando era arrivato John, non gli era mai più successo.
Ma ora John lo aveva abbandonato. Singhiozzò piano.
Sobbalzò quando avvertì qualcuno avvicinarglisi.
“Oh, caro…”, mormorò Mrs Hudson. Gli si inginocchiò accanto e gli accarezzò delicatamente i capelli. Mycroft l’aveva avvertita, ma Sherlock non aveva alcuna voglia di raccontarle dove era stato negli ultimi anni.
“È andato via”, bisbigliò, “Perché mi odia”.
“Oh no, tesoro, certo che non ti odia, si è comportato così proprio perché tiene a te e tu l’hai fatto stare molto male…”.
Sherlock la ignorò.
“John è andato via”, ripeté.
Mrs Hudson sospirò e continuò ad accarezzargli i capelli. Rimasero così per molto tempo, per terra, in una casa che Sherlock non sapeva più come definire. Forse gli sfuggirono un paio di lacrime, ma Mrs Hudson non pronunciò comunque una parola a riguardo. E Sherlock pensò che sapeva esattamente di cosa aveva bisogno.
 
John e Mary stavano insieme da quasi un anno ormai. Era senza dubbio la relazione più lunga che John avesse mai avuto. Se non conti quella con Sherlock, gli sussurrò una vocina all’orecchio. Lui la scacciò: a parte il fatto che lui e Sherlock erano – erano stati solo amici, non aveva la minima voglia di pensare a lui.
Mary era una buona fidanzata. Gliel’aveva presentata Sarah (loro due erano rimasti in buoni rapporti), era una sua vecchia amica, conosciuta all’università. Sarah era riuscita a convincere John a invitarla a uscire dopo settimane, pensava che gli avrebbe fatto bene. John in realtà l’aveva accontentata solo perché non aveva più voglia di starla ad ascoltare, ma alla fine Mary si era rivelata una piacevole sorpresa: era intelligente e spiritosa, e lavorava al Bart’s (quel posto sembrava perseguitarlo) da qualche mese in quanto chirurgo pediatrico. Avevano passato la serata a chiacchierare – John aveva accennato leggermente a Sherlock, ma quella era stata l’ultima volta in cui ne aveva parlato – e poi si erano visti ancora molte volte.
John stava bene con Mary. Oddio, non era proprio un rapporto passionale, John non pensava a Mary dalla mattina alla sera, ma lei era stata il salvagente che gli aveva impedito di affondare, trascinandolo nella sua vita ordinaria, nella sua routine. La routine lo aveva aiutato: la notte non poteva pensare a Sherlock, non più, doveva accarezzare i capelli di Mary e sperare di non russare troppo forte.
Per questo John stava andando da Mary. Aveva bisogno di dimenticarsi del ritorno di Sherlock, di fingere che non fosse tornato per davvero, di perdersi nelle camere ordinate, nelle cornici d’argento sul caminetto, nelle pareti color panna – non come quelle bucate e disordinate di Baker Street –, nelle chiacchiere di Mary, prevedibili e confortanti (lavoro, amiche, famiglia) – non come i discorsi assurdi che faceva con Sherlock – e nel sentimento calmo e leggero (talmente leggero che a volte John si chiedeva se ci fosse addirittura un sentimento da parte sua) che lo legava a lei. Non come quello per Sherlock. Quello sì che c’era, era così vivido e prepotente e violento da riuscire sempre a fargli male.
No, John, non pensare a Sherlock. Non pensare a Sherlock.
Mary gli aprì la porta con un sorriso sorpreso.
“Ciao! Non sapevo saresti passato…”.
John la interruppe, baciandole le labbra con veemenza. Si chiusero la porta alle spalle.
 
Solo nelle situazioni di emergenza. Solo quando ti sentirai di nuovo così.
Stanco, arrabbiato, annoiato, solo, desolato, ordinario, inutile.
Per la prima volta una di quelle situazioni non corrispondeva a una mancanza di lavoro. Non era colpa di quello. Era colpa di John. Aveva avuto ragione Jim Moriarty, ai suoi tempi: Sherlock un cuore ce l’aveva, eccome. Gliel’aveva messo davanti agli occhi, avvitato in un circuito di fili elettrici ed esplosivo, con i suoi vestiti odorosi di flanella e di caffè, e gli occhi tristi (perché mai aveva sempre gli occhi così tristi?). Era lì, il suo cuore. John.
Ma ora John era andato via, e Mrs Hudson poteva dire tutte le stupidaggini romantiche che voleva, ma Sherlock sapeva che non sarebbe tornato.
Esaminò la siringa alla luce dell’abat-jour.
 
John non riusciva a togliersi Sherlock dalla mente. Ogni volta che il suo nome o il suo odore o il suo viso gli appariva tra i pensieri, John si stringeva a Mary nel letto, la baciava.
“A cosa devo tutta questa passione oggi?”, ridacchiò lei.
John alzò le spalle.
“Continuavo a pensare a te”.
Il suono della voce di Sherlock gli esplose nella testa.
 
Sherlock chiuse gli occhi e sospirò di soddisfazione. Rabbrividì quando sentì i primi effetti della droga pervadergli rapidamente il corpo. Tutte le sensazioni che lo avevano fatto stare male cominciarono velocemente a scomparire, sostituite da una felicità tiepida che cresceva col passare dei minuti.
Ridacchiò beato, avvicinandosi alla scrivania. Prese tra le mani gli otto fascicoli che gli aveva affidato Mycroft e cominciò a esaminarli febbrilmente.
John scomparve dai suoi pensieri.
 
Era dimagrito. Sherlock, era dimagrito.
Mary cominciò a posargli dei piccoli baci sulla tempia.
L’aveva guardato di sottecchi, solo un’occhiata: il suo cuore non avrebbe retto. John era… incazzato nero.
La mano di Mary gli carezzò piano la guancia.
Così, quell’idiota si era svegliato una mattina e si era detto “Ehi, magari torno a vedere come sta John, mi sa che c’è rimasto un po’ male quando sono morto!”.
Mary gli si strinse ancora di più.
Che stronzo, che brutto stronzo! Non si meritava niente! John era così arrabbiato, così arrabbiato che avrebbe voluto ucciderlo, fargli provare quello che aveva provato lui…
“Sposami”, disse a Mary. E si vergognò immensamente di se stesso.
 
*****
 
“Te l’ha detto John, che Sherlock è tornato?”, Sarah puntò gli occhi su Mary, che stava esaminando uno degli abiti da sposa nel negozio.
“Ah, sì, me l’ha accennato”, rispose Mary con noncuranza.
“E John è corso da te appena ha rivisto Sherlock”.
“Mhh, sì”.
“E…”, continuò Sarah, “Poi ti ha chiesto di sposarlo”.
“Sì, Sarah, quindi? Vai al punto, per piacere”.
“Voglio dire… Non ti sembra strano? Io li ho visti insieme, non è semplice amicizia, Mary, è qualcosa di quasimorboso. C’è un motivo se, quando c’era Sherlock, John non è mai riuscito a stare con una donna. E io… Sono preoccupata per te”.
Mary rimase a fissarla per qualche istante.
“Hai finito?”, chiese lei glacialmente, “Forse ti risulta difficile credere che John mi ami, forse non ti va giù che tra voi non sia durata nemmeno un mese, mentre noi tra una settimana ci sposiamo, ma non mi interessa…”.
“Oh, Mary, ti prego!”, la interruppe Sarah, “Ho solo paura che tu soffra! John e Sherlock avevano un rapporto speciale, non sembrava amicizia, sembrava… amore!”.
Mary inspirò profondamente.
“Sarah, smettila. John è il mio fidanzato e mi ama. Vorrei che tu riuscissi a essere felice per me, e se proprio non ci riesci sappi che nessuno ti trattiene qui”.
“E va bene”, sospirò Sarah, “Non ti dirò più niente”.
Mary sorrise, “Bene, che ne dici di questo vestito? È troppo elaborato?”.
 
“Sposami”.
“Dici sul serio?”.
“Beh, sì…”.
“Sposiamoci! Sì! John, sì! Facciamolo subito!”.
“Subito? Subito quando?”.
“Non lo so, tra una settimana! Tanto, cosa c’è da aspettare?”.
“Niente, niente…”.
“Ti amo, John”.
Lui l’aveva baciata. Non le aveva risposto. Se questo l’aveva lasciata interdetta, Mary non lo aveva dato a vedere. Erano rimasti a letto, e John le aveva raccontato, con molto distacco, che Sherlock era tornato.
“Ma… credevo che fosse morto!”, aveva esclamato lei.
Lui aveva bofonchiato una risposta confusa, e aveva cambiato discorso. Mary gli aveva proposto di rimanere da lei per la notte, così avrebbero potuto cominciare a fare una lista degli invitati (lei voleva solo gli amici più intimi), e John era stato ben contento di accettare: era sicuro che Sherlock fosse rimasto in Baker Street, e non voleva rivederlo.
Non sapeva cosa pensare. Si sentiva spezzato a metà: c’era la parte di lui che amava Sherlock e voleva cercare un modo di perdonarlo, e c’era la parte arrabbiata, ferita, delusa che voleva fingere di essere un’altra persona, qualcuno che potesse essere felice accanto a Mary e dimenticarsi di Sherlock.
Uscì sul balcone e l’aria fredda gli sferzò il viso.
Ma come cazzo penso di dimenticarmi di Sherlock?
 
L’effetto stava svanendo piano piano. Tre volte in due giorni, era sopra i suoi standard anche nei periodi peggiori, ma Sherlock ne aveva bisogno, più che mai. La droga lo faceva sentire vivo ed eccitato, al massimo delle sue capacità e… meno umano. Di questo aveva bisogno Sherlock, di sentirsi meno umano. Ma ora percepiva tutta l’eccitazione scivolare via dalla sua pelle, e tutte le emozioni – Sherlock odiava le emozioni – tornare a galla, soffocandolo.
Per questo Mycroft non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per varcare la soglia di Baker Street ed entrare in salotto, senza nemmeno bussare.
“Ah, sei vivo allora”.
Sherlock non rispose nemmeno, rannicchiato nella poltrona di John.
Ci volle una frazione infinitesimale di secondo perché Mycroft capisse.
“Eroina?”, sussurrò.
“Mycroft”, sbuffò Sherlock con voce impastata, “Mi consideri così poco elegante?”.
“Oh, giusto. Morfina e cocaina. Endovena, dico bene?”.
“Naturalmente”.
“Sai cosa ne penso, Sherlock”.
“E credi ancora che mi interessi?”, ridacchiò Sherlock amaramente.
“Come stride tutto questo, caro fratello, con la tua natura. Una mente così brillante e al contempo così debole…”.
Gi ultimi residui di droga stavano scomparendo, Sherlock ci si aggrappò con tutte le sue forze ma non riuscì a riportarle indietro. Una rabbia dolorosa prese possesso di lui, bruciandogli il sangue.
“Sei la solita delusione, Sherlock”.
Scattò in piedi.
“Taci, Mycroft!”.
Mycroft si mosse lentamente finché non gli fu perfettamente di fronte.
“Lasciarti andare in questo modo, soltanto perché John si sposa, è la cosa più infantile che tu abbia mai…”, Mycroft si interruppe, vedendo l’espressione che era apparsa sul viso di Sherlock. Capì in quel momento che Sherlock non sapeva nulla e comprese quanto fosse profondo il legame che legava suo fratello al medico militare, se un semplice allontanamento da parte di quest’ultimo era riuscito a minare – quasi ormai distruggere – l’equilibrio di Sherlock.
Sherlock indietreggiò di qualche passo. Si schiarì la gola.
“Credo che tu possa andare adesso”, mormorò, abbassando lo sguardo.
Mycroft dischiuse le labbra, come per dire qualcosa, ma poi sospirò, gettò un ultimo sguardo al fratello. Poi gli voltò le spalle e se ne andò.
Sherlock rimase solo al centro della stanza. Si fissò l’incavo del braccio, eburneo, a parte il piccolo cerchio nero nel mezzo. Poi si guardò intorno e la desolazione di quella stanza lo colpì come un pugno allo stomaco. D’un tratto si sentì incredibilmente debole, boccheggiò in cerca d’aria e scoppiò in lacrime. Ne aveva ancora bisogno, ma sapeva che la droga era finita, come ogni altra cosa, era tutto finito.
Si buttò per terra.
“John”, pianse, “John, John…”, ripeté il suo nome per ore, finché non crollò addormentato, sul pavimento.
 


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Ciao :) All'inizio volevo pubblicare questa storia intera, ma poi mi sono accorta che era talmente lunga che probabilmente qualcuno sarebbe invecchiato leggendola, quindi ho deciso di dividerla in due capitoli! :) Non sono un'esperta per quanto riguarda le droghe ma mi sono informata! Se qualcuno di voi ha notato degli errori non esiti a dirmeli e provvederò! :) Mi sono ispirata allo Sherlock e al John di Conan Doyle, quindi Mary e la droga usata da Sherlock non sono mie invenzioni.
Se vi è piaciuta la storia non esitate a recensire, fa sempre tanto piacere! :)
A prestissimo e grazie a coloro che hanno recensito le mie precedenti storie, siete adorabili!!
Un bacio!
Lu

   
 
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